«Kind Of Miles» di Paolo Fresu, il mito di Miles Davis riportato sulla terra
…il lavoro è alquanto terreno, concreto e non è finalizzato all’ampliamento e neppure alla rianimazione tromba a tromba di un mito… il musicista sardo lambisce appena Miles Davis, ne usa la perifrasi e l’iperbole per costruire una trama sonora che disegna gradualmente il Fresu-pensiero in una duplice dimensione…
// di Francesco Cataldo Verrina //
Il nuovo lavoro discografico di Paolo Fresu, «Kind Of Miles» usa come elemento caratterizzante del progetto, a livello letterario, un aforisma di Albert Camus: «I miti sono fatti perché l’immaginazione li animi». Parlando di Miles Davis, in ogni circostanza, l’allegoria più adatta sarebbe quella del «Mito della caverna» di Platone, evidenziando il concetto che un personaggio esterno avrebbe un’idea completa della situazione, mentre i prigionieri trattenuti nella caverna, non conoscendo cosa accade realmente alle proprie spalle e non avendo esperienza del mondo esterno, poiché incatenati fin dall’infanzia, sarebbero portati a interpretare le ombre «parlanti» come oggetti, piante, animali e persone reali. Tutto ciò per dire che di fronte alla laica santità di Miles siamo tutti prigionieri ed in balia di ombre e suggestioni, tanto che la critica italica e molti musicisti sono riusciti a dematerializzarne la figura ed a renderla più leggera di quanto non fosse. Il trombettista americano, pur nella sua aura di beatitudine post-mortem, è stato quanto di più terreno possa esistere nell’ambito del jazz moderno: materialista, prevaricatore, bugiardo scontroso, non era neppure perfetto ed infallibile come una figura mitologica, vittima delle umane debolezze, attaccato ai piaceri, ai beni voluttuari e al denaro; tutte umane virtù, quando per la pubblica morale, non diventano vizi. Se dovessimo dare una definizione di Miles Davis con un solo concetto, potremmo parafrasare un vecchio adagio, dicendo «Sex, money and drugs around the jazz». Tutto ciò non toglie nulla alla bontà dell’interdisciplinare progetto fresiano che unisce musica, teatro, fotografia e suggestioni letterarie. Non a caso, il nuovo album di Paolo Fresu, pubblicato in doppio CD e vinile dalla sua etichetta Tǔk Music, muove da un progetto teatrale prodotto dallo Stabile di Bolzano, chiudendo idealmente il cerchio della trilogia cominciata con «Tempo di Chet» dedicato alle peripezie di Chet Baker e proseguita con «Tango Macondo», un hub di collegamento tra Sardegna e Sudamerica, sulla scorta del valore delle migrazioni umane, culturali ed artistiche.
Sorvolando sull’inesistente natura mistica, metafisica, mitopoietica, perfino panteistica di Miles Davis, il lavoro di Fresu è alquanto terreno, concreto e non è finalizzato all’ampliamento e neppure alla rianimazione tromba a tromba di un mito, ma è solo un pretesto, per quanto legittimo, teso a narrare l’inarrestabile parabola del musicista-imprenditore di Berchidda che, in verità, ha sempre designato come sue principali influenze artistiche Chet Baker e Miles Davis, due personaggi agli antipodi, il primo un nostalgico e efficace intrattenitore, ma lontano dalla storia del jazz intesa come evoluzione del linguaggio, il secondo un ingranaggio determinate, se non uno dei più importanti, per lo sviluppo dell’idioma jazzistico in senso moderno. Non c’è bisogno di un approfondito studio musicologico per capire che il musicista sardo sia molto distante sia da Baker che da Davis. Le differenze emergono sia dal punto di vista progettuale che strumentale, soprattutto a causa di un vissuto completamente diverso dai due personaggi di riferimento e nello specifico Miles Davis. Oltremodo, Fresu usufruisce, allo stato attuale delle cose, di una società ipermediale dove le regole d’ingaggio e la comunicazione toccano aspetti assai complessi, i quali risultano molto più invasivi nelle nostre esperienze quotidiane, con tutti i vantaggi e rischi che ne conseguono. In realtà il trombettista sardo lambisce appena Miles Davis, ne usa la perifrasi e l’iperbole per costruire una trama sonora che disegna gradualmente il Fresu-pensiero in una duplice dimensione, anche quando sospinto dal suo sinergico line-up interpreta «Autumn Leaves» o «Round Midnight». Il volo pindarico di Fresu consta di una fase acustica riferibile al Davis post-Parker dei quintetti e dei quartetti storici, e quella elettrica che irruppe nel modo del jazz scompaginando le carte nautiche della storia. Oltre a non scompaginare nulla, Fresu è un personaggio talmente caratterizzato nell’ambito del panorama europeo, tanto da aver oramai definito e marcato un territorio tutto suo che travalica il concetto di jazz, no-jazz, para-jazz, sotto-jazz, poco-jazz, niente-jazz; non basta l’aver parafrasato il titolo del capolavoro davisiano «Kind Of Blue» o creato una copertina che richiami il suggestivo scatto di Irving Penn usato da Miles per l’art work di «Tutu» del 1986. Si capisce subito che brani come «It Never Entered My Mind» o «I Loves You, Porgy» diventano una cosa altra, lontani dal dispensario emotivo davisiano. Tutto ciò non è una deminutio capitis.
Fortunatamente, in «Kind Of Miles» non si sente Davis, ma si ascolta Fresu, il quale se la gioca su due tavoli alternativamente: con un line-up acustico formato Dino Rubino alle tastiere, Marco Bardoscia al contrabbasso, Stefano Bagnoli alla batteria ed uno elettrico con Christian Meyer alle percussioni, Federico Malaman al basso, Bebo Ferra alla chitarra e Filippo Vignato al trombone e all’effettistica elettronica. Nel concept fresiano non c’è tributarismo o tentativo di clonazione ad usum delphini. Il Manzoni avrebbe detto: «un conto è sentir messa, un conto è ascoltar messa». Abilmente, il musicista sardo ed i suoi sodali evitano di sottomettersi ai retaggi davisiani (sarebbero almeno quattro metalinguaggi jazzistici) e di farne la propria nemesi storica, come dimostrano le interpretazioni di «Time After Time» o di «Summertime» che, nello specifico, sia il line-up elettrico che quello acustico riescono a dirottare verso una propria zona comfort espressiva. Assai Interessante risulta l’ascolto di «Estemporaneo», inedito presente solo sul CD, che mette in luce le ottime capacità improvvisative in tempo reale della compagine elettrica. Ad abundantiam, va detto che in Miles Davis non c’è nulla di teatrale, se non in quello che è stato il suo mondo reale, in cui ogni mossa ed ogni dichiarazione veniva interpretata come una recita a soggetto, ma ridotto a paradigma ispirativo per una fiction o una novella, Miles perde di senso, di mordente e di struttura. Perfino la sua biografia ufficiale, che è una buona fiction stampata, si sgretola sotto l’autocompiacimento ed il narcisismo dell’uomo, più che del musicista. Ne è stata una dimostrazione lampante il film sulla sua vita, quasi caricaturale nell’interpretazione e nella sceneggiatura, che ha finito per naufragare sugli scogli dell’insipienza. Tutto ciò – ribadisco – non toglie nulla all’iniziativa multematica di Fresu, soprattutto alla sua musica, degna della massima attenzione. Si consiglia il doppio vinile, anche se il CD contiene qualche take alternativa in più.