Intervista a Rosarita Crisafi, jazzwoman tra calamo e fiati
// di Valentina Voto //
Rosarita Crisafi è un giornalista e una musicista. Come giornalista collabora da anni con ViviMilano, il settimanale milanese del Corriere della Sera, e con Musica Jazz. Come musicista è attualmente attiva in diversi contesti e formazioni, tra cui l’Artchipel Orchestra di Ferdinando Faraò.
D In tre parole chi è Rosarita Crisafi?
R In primo luogo un’ascoltatrice, un’ascoltatrice appassionata e curiosa non solo di jazz ma di tutta la musica, poi una giornalista e una musicista.
D Quali sono i tuoi primi ricordi della musica da bambina?
R A casa mia non si ascoltava musica se non quella della radio, ma ho il ricordo di un pianoforte a casa di un’amica di mia madre. Ero molto piccola – avevo un anno e mezzo o due – ed ero attrattissima da questo pianoforte, mi arrampicavo sullo sgabello per raggiungere la tastiera e riproducevo le musiche che sentivo (ho l’orecchio assoluto, cosa che ho scoperto dopo): era un gioco per me all’epoca… poi con le scuole elementari è arrivato il tanto vituperato flauto dolce, che per me era un altro giochino meraviglioso su cui potevo suonare tutte le sigle dei cartoni animati. Da lì, le cose sono andate avanti e, dalle lezioni di flauto traverso cominciate all’età di otto anni, hanno preso una direzione un po’ disordinata che mi ha portato verso il sassofono. Alla fine, nei miei vent’anni, mi sono diplomata in conservatorio in sassofono classico e musica jazz, poi ho smesso di suonare per molto tempo, e sono poi tornata a studiare, dopo i quarant’anni, ai Civici Corsi di Jazz di Milano, grande istituzione musicale in cui ho incontrato insegnanti e musicisti fantastici.
D Come sei arrivata al jazz? Come nasce il tuo amore per il jazz?
Io sono figlia degli anni Ottanta, da ragazzina sono stata una grande ascoltatrice di New Wave. Ero molto affascinata dal suono del sassofono che veniva utilizzato in tanti brani di questo genere, ascoltavo molto anche le band della No Wave newyorkese, come ad esempio James Chance and the Contorsions e il suo folle sassofono. Questi ascolti mi hanno portato al jazz e la folgorazione è arrivata con Giant Steps di John Coltrane, che ho ascoltato per la prima volta a dodici anni (anche se il sassofono ho iniziato a studiarlo a diciotto). A pensarci bene, posso dire di essermi appassionata al jazz fondamentalmente per pigrizia. Assistere a un concerto rock era per me estremamente faticoso rispetto all’ascoltare un concerto di jazz, dove ti siedi in un bar, ti portano da bere e hai davanti dei musicisti pazzeschi, che a fine concerto puoi anche andare a salutare e ti ringraziano perché sei andata a sentirli – cosa ben diversa dalle inavvicinabili rock star. Questa scelta “comoda” mi ha portato verso un mondo musicale meraviglioso.
D In quali vesti ti trovi meglio: musicista, giornalista, critica o altro?
Non mi sento assolutamente una critica musicale, non ne ho la formazione. Mi sento invece una giornalista: sono un’ascoltatrice curiosa, o meglio, un’ascoltatrice consapevole, mi piace raccontare quello che vedo e che sento; soprattutto, mi piace ascoltare le parole dei musicisti, oltre alla loro musica, quindi mi piace capire i meccanismi che stanno dietro al jazz e sapere cosa c’è dietro a quella sorta di magia, di alchimia speciale che si crea all’interno di un gruppo che suona jazz.
D Quali sono state le tue più importanti collaborazioni giornalista?
R Da tanti anni scrivo per il ViviMilano, il settimanale milanese del Corriere della Sera, e qui, oltre a scrivere di lifestyle, seguo anche le rubriche di musica, raccontando la vita musicale (non solo jazzistica) della città: è un lavoro molto interessante, perché Milano indica – si può dire – la direzione in cui va la musica, non solo in ambito jazz. Poi naturalmente c’è la mia collaborazione con Musica Jazz, rivista che, dal punto di vista della mia carriera di giornalista, rappresentava una specie di sogno: da ragazzina era la rivista che compravo e leggevo tutti i mesi e, in un mondo senza Internet, le sue recensioni e interviste rappresentavano sempre un riferimento per conoscere il jazz e i suoi musicisti e capire cosa ascoltare.
D C’è spazio per le donne nel jazz e nella critica jazz?
Rispondendo oggi, nel 2024, ti dico sì, assolutamente. Si parla perfino di nouvelle vague in merito alle musiciste di jazz! Ce ne sono infatti tante di veramente brave e preparate, e sono molti i progetti e i percorsi di studio, soprattutto all’estero (Stati Uniti, Inghilterra, anche Spagna), che incoraggiano le musiciste a coltivare una carriera professionale nel jazz. La sensibilità è molto cambiata rispetto al passato. Nel 2014, quando ho curato il numero di marzo di Musica Jazz dedicato alle donne del genere – in cui intervistavo una quindicina di musiciste di varie età chiedendo quale fosse la loro esperienza in quel momento – la situazione non era così rosea. Quando ho studiato io jazz, poi, lo era ancora meno. Oggi però le cose sono molto cambiate e il momento è favorevole, per le musiciste ma anche per le “critiche”.
D Per te ha ancora un senso oggi la parola jazz?
R Sì, assolutamente. Il jazz è una musica ibrida, che accoglie e dà il suo suono a tante musiche e che si rinnova attraverso il confronto con altre sonorità, quindi sì, ha assolutamente senso, e credo che continuerà ad averlo per i prossimi “n” anni. Al di là però di quello che può essere un mio punto di vista, la risposta principale la si ha seguendo la programmazione dei Festival più visionari, negli Stati Uniti, in Inghilterra, ma anche qui a Milano, città particolare che per l’Italia, dal punto di vista artistico, è sempre stata come la prua di una grande nave e ha sempre cercato di rappresentare una sorta di avanguardia. Il Festival Jazzmi, per esempio, che si è concluso da poco, ha una visione proiettata verso il futuro di questa musica: vi si sentono sia tanti suoni della tradizione, che convivono benissimo con le sonorità contemporanee, sia tanti suoni interessanti, tante ibridazioni interessanti fra diversi generi – che entrano sotto il grande cappello del jazz –. Seguendo la programmazione di questi Festival si coglie il senso che ha oggi la parola ‘jazz’.
D Si può parlare di jazz italiano? Esiste per te qualcosa di definibile come ‘jazz italiano’ o ‘jazz europeo’?
R La domanda è complessa. Io parlerei più di jazz europeo, di cui il jazz italiano è parte. Non di meno, credo che l’Italia abbia contribuito in modo importante alle cosiddette “scuole nazionali” del jazz europeo, portando avanti una certa tradizione della musica popolare italiana con formazioni o musicisti importanti, da Gianluigi Trovesi a Paolo Fresu, solo per citare un paio di esempi. Poi ci sono i musicisti italiani di jazz che hanno invece una visione maggiormente orientata verso gli Stati Uniti.
D Cosa distingue l’approccio al jazz di americani e afroamericani da quello di noi europei?
R Per la mia modesta esperienza di ascolti, una differenza fondamentale sono le sezioni ritmiche: quando senti suonare una sezione ritmica americana e la confronti con una sezione ritmica italiana, capisci immediatamente la differenza. Secondo me l’attenzione principale del musicista di jazz italiano – e anche europeo –, per cultura, è alla melodia, mentre un musicista americano è attento soprattutto al ritmo. Pensa a come suona il sassofono Sonny Rollins – ma potrei dirti anche Charlie Parker, o tanti altri –: è un batterista.
D Molti ormai gridano alla morte della musica impegnata e/o sperimentale… ma esiste ancora la politica e/o l’avanguardia, nel jazz statunitense e in quello europeo?
R Io più che di ‘avanguardia’, termine che per me adesso non ha più molto senso utilizzare, preferirei parlare di ricerca. Secondo me c’è tanto jazz di ricerca, e lo vedo anche nella realtà milanese: sono molti i giovani che vi si dedicano e che fanno riflessioni approfondite sull’improvvisazione – vista dai diversi punti di vista. Le politiche pubbliche forse vanno in una direzione un po’ diversa – negli anni Settanta in Italia le cosiddette avanguardie erano sostenute molto anche da un certo clima culturale –, ma la voglia di ricerca e di sperimentazione, in quel grande ambito che è la musica improvvisata – che può anche essere inserita sotto il grande cappello di questa parola ‘jazz’- devo dire che c’è, nella realtà milanese c’è sicuramente.
D Perché oggi la critica non è più quella militante o combattiva di una volta? E perché non esistono più le solenni stroncature?
R Non credo che sia opportuno fare ‘solenni stroncature’: queste vengono da una certa tendenza dei critici, soprattutto di un’altra epoca, a ergersi come padreterni, unici depositari della verità e conoscitori della musica, unici in grado di dire cosa possa andare bene e cosa no. La ‘solenne stroncatura’ non la trovo un atto di coraggio, bensì un atto di imposizione dell’ego del critico su un’opera artistica. È una cosa che secondo me appartiene a un passato in cui le riviste erano l’unica voce autorevole di conoscenza della musica, e adesso ha ancora meno senso, anche perché la visione stessa della musica è cambiata: non è più quella rigida, a compartimenti stagni, di una volta che dava molta sicurezza nel dire cosa fosse jazz e cosa no. Ogni critico ha la propria cultura, la propria percezione e anche i propri gusti; può raccontare l’opera, sottolinearne i punti di forza e di debolezza dal punto di vista tecnico e della propria visione, ma deve spiegare perché questo disco incontra il suo favore oppure no. Per me ogni musicista che pubblica un disco merita rispetto e un disco giudicato non meritevole semplicemente o non lo si dovrebbe recensire (e io preferisco questa strada) oppure si dovrebbe motivare in modo approfondito – dal punto di vista tecnico e artistico e, soprattutto, oggettivo – la ragione di una valutazione così negativa. A volte, una stroncatura può essere la manifestazione di un pregiudizio e mi faccio sempre molte domande per non rimanere confinata al territorio delle mie convinzioni personali quando mi dedico all’ascolto (e non solo…)
D Il jazz deve parlare, attraverso i suoni, di temi sociali, politici, ambientali, filosofici?
R Può farlo, sicuramente, ma non è la sua mission principale. Molti musicisti hanno raccolto questo testimone del jazz come musica impegnata, musicisti anche interessanti, inglesi di origine coloniale e afroamericani (mi viene in mente per es. il nome di Moor Mother, sentita pochi giorni fa al Festival Jazzmi). Forse però, in questo momento storico, il jazz non è la musica che rappresenta al meglio questo tipo di istanze: altre musiche lo fanno in maniera più interessante e fresca.
D Come vivi tu il jazz in Italia, anche in rapporto alle tue esperienze di musicista e giornalista sul territorio?
R Nonostante Milano abbia ancora quella capacità di attrarre talenti da tutte le parti d’Italia e dall’estero, e quella disposizione che le è storicamente propria a guardare verso il futuro, rispetto a un tempo ci sono molti meno club dove suonare, ed è la cosa che mi dispiace di più. Il jazz è una musica che vive nella sua dimensione dal vivo e ci sono molti giovani e bravissimi musicisti, con alle spalle anche importanti esperienze all’estero, che purtroppo non trovano gli spazi adeguati per suonare. Anche il circuito dei Festival e delle Associazioni di Categoria (che è un bene che ci siano!) non sempre favoriscono il giusto ricambio generazionale. La situazione non è facilissima, ma c’è un movimento dal basso – che vedo per es. qui a Milano – che vuole portare la musica, e il jazz in particolare, in luoghi non convenzionali e che riesce a organizzare tante jam session in cui i musicisti, giovani soprattutto, possono incontrarsi. Ci sono anche molti musicisti di jazz che scelgono di suonare in strada, perché qui trovano un contesto interessante dove suonare… e il jazz è approdato perfino a X Factor quest’anno, con il quintetto dei Patagarri: in forme un po’ diverse, riesce a comparire anche dove meno te lo aspetti.
D Cosa pensi dell’attuale situazione in cui versa la cultura italiana, di cui il jazz ovviamente fa parte da anni?
R Come ho detto, il jazz, essendo musica ibrida che trae dalla sua lunga tradizione e che sempre sa innovare e innovarsi, fa capolino nei luoghi più inaspettati. La situazione non è rosea, e il genere non è sostenuto da una politica culturale strutturata, ma la sua energia e la sua capacità di ibridazione, nonostante tutto, riescono a emergere e a rimanere sempre vive, sia nei Festival di grande tradizione – o nei quali l’ibridazione avviene con altre musiche in maniera un po’ più mainstream – sia nei Festival proiettati verso il futuro, sia nelle sale da ballo – protagoniste oggi di un vero e proprio ‘revival’ dello swing – sia, in modo inaspettato, nei talent televisivi come X Factor.
D Nel tuo ambito, esiste qualche nuovo musicista significativo in Italia?
R Musicisti e musiciste di jazz significativi della nuova generazione ce ne sono tanti. Farti qualche nome mi sembrerebbe un po’ ingeneroso rispetto a coloro che non cito In Italia sono molti i musicisti, soprattutto giovani, che, dopo essere andati a studiare all’estero, sono tornati a casa rinnovando in maniera interessante la nostra tradizione e molti di loro realizzano ottimi progetti originali, ibridando il jazz con tante sonorità diverse – dalla techno all’hip hop, dal funk all’elettronica. Circa gli spazi per questa musica, credo che sarebbe necessaria una politica culturale più intelligente e lungimirante, ma, anche se questi mancano, la spinta in direzioni interessanti resta forte.