Intervista a Sara Rados, una donna non convenzionale
// a Cura della Redazione //
Sara Rados é un’artista nata e cresciuta a Firenze, in una famiglia dove si pensa e si mangia meridionale, ma il cognome è del nonno slavo. Ha esordito in adolescenza, come vocalist di un gruppo punk. Tra il liceo e la laurea, ha continuato a esplorare le potenzialità della voce, grazie all’arte del litigio e del pianto, e allo studio della lirica e del jazz,. Nel 2008 ha vinto il premio Ciampi e Scalo 76 su RAI2, ed è stata due volte tra i sedici finalisti di Musicultura, nel 2010 e nel 2021. È da poco uscito il suo nuovo album «Disco vivo» (Blackcandy Produzioni), in collaborazione coi Progetti Futuri: Michele Staino al contrabbasso, Sergio Zanforlin al violino, e Gabriele Pozzolini alla batteria e percussioni.
D Intanto, così a bruciapelo ed in poche parole, chi è realmente Sara Rados?
R Una persona che tutti i giorni si fa questa domanda.
D Anche se non è bello usare le etichette che alla fine sono sempre limitanti, almeno per agevolare la comprensione e stimolare la curiosità dei nostri lettori, come definiresti la tua musica?
R Tra il provocatorio e l’affettuoso, qualche mese fa avevo coniato il termine «emo-folk». In precedenza ho usato anche «psyco-pop». Al di là di tutte questi giochi, direi che faccio musica leggera.
D I tuoi testi sono pregni di inquietudini, di emozioni e di riflessioni sul viver quotidiano. Quanto sono importanti nell’economia di questo disco o comunque della tua iperbole creativa?
R Direi che vale il discorso simmetricamente opposto: ho bisogno di buttare in musica e parole tutte queste inquietudini, emozioni e riflessioni, come una ginnastica a fine giornata. Poi in un secondo momento, il discorso si articola, e i pezzi vengono arrangiati e condivisi.
D L’altra domanda è conseguenziale: parti da una visione o da uno stimolo esterno o interiore che ti porta a scrivere delle parole e poi cerchi di adattarle alla musica, oppure il flusso delle idee si solidifica contestualmente attraverso i suoni e i testi che poi danno vita ad una canzone con tanto di struttura armonica e melodica. In sintesi hai un metodo compositivo oppure tutto si sviluppa spontaneamente?
R Solitamente mi vengono in mente «motivetti», ovvero parole su musica. Talvolta è diverso: sono in giro e annoto su mezzi di fortuna frasi e pensieri e poi li adatto su una linea melodica poco dopo. Altre volte ancora, trovo prima la melodia e poi ci incastro dentro le parole adatte. Direi che nel complesso è un lungo processo appassionante di taglio e cucito.
D Quanto è determinante la tua relazione con la realtà circostante quando scrivi e componi?
R Moltissimo: in termini di rabbia, desiderio, perdono, tenerezza, e tanti altri stati d’animo, penso che il Mood con cui percepisco «l’esterno verso il mio interno» determini l’essenza di ogni brano: Il discorso di fondo, più o meno implicito.
D E invece quanto è importante il confronto e l’interazione con gli altri musicisti?
R Anche qui si tocca un aspetto fondamentale: per me è da sempre formativo il confronto con altri musicisti. Nella relazione e cooperazione riesco ad approfondire la mia identità: a patto che siano anime affini e persone di cui ho stima.
D «Disco Vivo» è un album registrato dal vivo, ma sostieni che non sia solo un gioco di parole, e che la vitalità sia altrove. Ci aiuti a capire meglio le dinamiche del tuo concept?
R Ho voluto registrare questo disco in tre ore, in due sessioni di presa diretta. Una a porte chiuse, e una a porte aperte. Col pubblico presente. Tutta l’emozione e l’architettura fragile dei giorni precedenti, la paura, l’ansia, sono e si sentono in questo lavoro, che vorrebbe restituire lo spirito verace con cui io e i Progetti Futuri portiamo in giro i brani nei due anni precedenti. Non potevamo permetterci giorni e giorni di studio: perché rincorrere uno standard? Mi sono chiesta. Spesso i dischi live vengono associati a cose jazz, a concerti classici, o a grandi performance delle Star nei palazzetti. Così ho pensato di fare un album di musica semplicemente «leggera» in cui il piccolo sbaglio, il respiro, la canzone «fuori click», l’intimità del presente e del «o la va o la spacca» sostituissero il modo attuale di trattare e pensare il pop, cantautorale o meno.
D Ti presenti come una cantautrice dall’aria engagé, militante. Ritiene che nella realtà sfilacciata e frettolosa dei web 4.0, dei social e dei talent, ci sia ancora spazio per un impegno civile e per la stesura di canzoni che facciano pensare?
R Se sono «impegnata» non lo so. Credo di essere «una persona che si impegna» a fare le cose per bene, a fare tornare i conti a fine mese, a riflettere, a mandare avanti la baracca, eccetera… Mi basta questo spazio, intimo e quotidiano, di resistenza: offre un punto di vista faticoso, ma molto più libero e incondizionato di altri. E credo che sia molto più politico questo, di tante cose urlate o declamate, numericamente importanti, e magari ambiziose. Alla fine, quando scrivo una canzone, sto meglio, e se ugualmente una piccolissima fanbase si sente «accolta» e ispirata in positivo da questi brani, è già un piccolo passo, ma significativo. No?
D Quali sono le canzoni che più ti rappresentano all’interno del disco e che siano realmente una parte di te sul piano personale e non solo compositivo ed estetico?
R Faccio fatica a rispondere a questa domanda. Ma ci provo. Credo che i brani in cui sono riuscita di più a espormi sul piano personale, restando al contempo comunicativa e comunicabile siano «Sogni», «Tuttigiorni» e «Bandiere Sporche»
D Sei partita da una stretta connessione con il video. È più importante oggi farsi vedere o farsi sentire? Non pensi che il legame eccessivamente stretto tra suono e immagini, possa togliere un minimo di fascino alla musica e che le immagini stesse possano distrarre dell’effetto delle parole e del contenuto del testo?
R Il fascino non credo appartenga ad aspetti strutturali ma stilistici: a scelte peculiari e sempre variabili, che hanno più a che vedere col «come» che col «cosa». Per me poi, in questo momento culturale, era importante testimoniare che questo disco è stato registrato «in un certo modo». E anche lanciare un amo virtuale verso i tanti club fuori Firenze e Toscana per dire «noi siamo questo, chiamateci, vogliamo suonare dal vivo». Altrimenti si resta sempre prigionieri del binomio Mainstream radiofonico televisivo/Piccole agenzie di booking farlocco
D Come immagini i tuoi ipotetici ascoltatori? O meglio se dovresti auto-promuovere il tuo prodotto con delle moderne regole d’ingaggio, a chi consiglieresti l’ascolto di un lavoro come Disco Vivo?
R Oggi guardavo per l’appunto le statistiche di ascolto del disco su Spotify: ho scoperto che io e i Progetti Futuri andiamo forte nella fascia 20-30 tra Brooklyn, Berlino e Pomezia. Buffo no? Firenze, la nostra città, è molto sotto, e non me ne stupisco né me ne dispiaccio. I quarantenni come me poi, credo siano impegnati ad ascoltare altro, o a commentare Sanremo su Facebook lamentando che nessuno fa più nulla di diverso
D Infine, hai dei progetti per l’immediato futuro, sicuramente ce l’hai, magari fare un tour promozionale a sostegno del disco, e quale pensi che sia la dimensione ideale per proporre la tua musica: eventi para-jazzistici, teatri, piazze o che cos’altro?
R Il Tour si sta creando un po’ da sé pian piano, tramite la rete in divenire di chi scopre il progetto e ci chiama a partecipare a piccole realtà del territorio, che appunto possono essere piccole piazze, teatrino, eventi culturali di vario tipo… In questo confidavo, e questo sta accadendo.