Intervista a Gianni Lucini: «Da quel momento niente fu come prima…»
// di Guido Michelone //
Le attività di Gianni sono numerose e variegate: sindaco del comune di Lesa (Novara) dal 1990 al 1999, dopo un’esperienza ventennale quale giornalista, compiendo le prime esperienze nel settimanale torinese «Nuova Società», lavora nel settore Pubbliche Relazioni di una casa discografica (sempre di Torino) e partecipando in qualità di addetto stampa a tour di vari artisti. Negli stessi anni ai microfoni dell’emittente alternativa Radio Kabouter di Novara conduce Il coperchio, un programma musicale in onda il giovedì sera. Non si contano le collaborazione alle riviste, ma è importante ricordare che Gianni dal 1987 al 1989 dirige «Pilaf» un mensile d’informazione destinato agli operatori dello spettacolo. Nel 1993 all’Avana collabora a un progetto sull’editoria, sulla musica, sul cinema e sul multimediale del Ministero della Cultura di Cuba, mentre due anni dopo è a Ho Chi Min City in qualità di addetto stampa dell’Istituto per i Rapporti Culturali ed Economici tra Italia e Vietnam. Sono intensissimi gli anni tra il 1997 e il 2007 quando si occupa di storia e critica musicale per il quotidiano «Liberazione» di cui cura la rubrica quotidiana Rock & Martello. Nel 2001 il regista Citto Maselli gli affida la consulenza musicale di Un altro mondo è possibile, il film girato con il contributo di tutti i principali registi italiani nelle giornate del G8 a Genova; e nello stesso anno insieme al cantautore e regista Paolo Pietrangeli realizza l’album Suoni di Liberazione, antologia con brani di Pete Seeger, Giovanna Daffini, Ivan Della Mea, Giovanna Marini, Fausto Amodei, Litfiba, Groovers, Gang, Osanna, Area, Stormy Six e altri artisti; visto il successo nel 2002 si ripete e con Paolo Pietrangeli e Michele Anelli realizza l’album Not In My Name cui partecipa un’altra lunga serie di cantanti e gruppi italiani. Dal 2008 al 2011 presiede la giuria del Premio Fuori dal Controllo, assegnato nel corso del MEI (Meeting Etichette Indipendenti) agli artisti segnalati per la capacità di muoversi al di fuori delle regole del music business. dal 2009 al 2017 ci sono gli articoli per i quotidiani L’Altro, Il Garantista, L’indro, Daily Green e dal2021 la direzione della web radio Radio Poderosa di Torino. Ogni volta che presento un mio libro nella sua Novara è sempre lui, con la massima disponibilità, a introdurre l’argomento o fingere da moderatore; ed infine Gianni a ricordare una mia frase che, sempre grazie, sta diventando proverbiale: “Il maggior contributo dell’Inghilterra al jazz è il rock”.
D In tre parole chi è Gianni Lucini?
R Sono una persona che è riuscita a trasformare le passioni da ragazzo e adolescente (musica e cinema su tutte) nel suo lavoro. Non era detto che finisse così e proprio per questa ragione è forse la cosa di cui sono più orgoglioso.
D Il tuo primo ricordo della musica da bambino?
R I ricordi sono più di uno. Su tutti ci sono le canzoni della radio che mia madre teneva sempre accesa in casa, poi le note di uno zio, fratello di mio padre, che suonava il clarinetto nella banda e che insegnava ai ragazzi il suo stesso strumento. Ricordo l’ascolto della monotonia dei solfeggi e il senso di liberazione quando si trasformavano nei primi suoni e in qualche difficoltosa melodia. Infine c’è l’ascolto nelle sere estive delle orchestre da ballo che suonavano all’albergo Manzoni e al Tennis Sporting, due locali di Lesa, il paese dove sono cresciuto.
D E i tuoi primi ricordi del jazz in assoluto?
R Radio a parte dove casualmente poteva capitare qualche brano vagamente jazz, l’evento formale è da collocare all’epoca in cui frequentavo la seconda media quando la nostra insegnante di “educazione musicale” parlando del jazz ci fece ascoltare alcuni dischi di Louis Armstrong e ci parlò della struttura di quel genere musicale. Lo fece in modo intelligente, con l’aiuto di una tastiera riproponendo in chiave jazz alcuni passaggi delle canzoni più in voga par farci capire il senso di quello che diceva. Da quel momento niente fu come prima…
D Come definiresti la tua attività? Critico, giornalista, studioso, scrittore o tutto insieme o altro ancora?
R In effetti è l’insieme di tutto anche se io cerco di indossare ogni volta il “vestito” specifico per l’occasione. Comunque obiettivamente mi sento più scrittore e giornalista che critico. Ho un profondo rispetto per quel ruolo. I critici lavorano su concetti più approfonditi dei miei. Io esprimo giudizi estremamente personali che affondano le loro radici innanzitutto nella mia passione e nei miei gusti. Tutto ciò rischia di non rendermi obiettivo e quindi non mi sento un critico. C’è da dire però che in fondo perché dovremmo essere obiettivi sulle passioni?
D Possiamo parlare di te come di uno dei protagonisti della critica musicale di sinistra in Italia?
R Non esageriamo.
D Perché negli ultimi anni, al di là del gusto personale, hai scelto di pubblicare ben due libri sulla musica francese, che oggi in Italia sembra dimenticata da tutti?
R In realtà nascono da due motivazioni diverse. Il primo, quello dedicato alle chanteuses, nasce una molti anni fa e arriva in coda alle infinite repliche di “Un usignolo dal cuore grande”, un lavoro teatrale su Edith Piaf che ho scritto con il compianto pianista Filippo Rodolfi e che ha girato moltissimo. La Piaf mi aveva, per così dire, accompagnato in un mondo che non conoscevo, quello dei locali parigini e francesi in generale. Ho conosciuto così donne e storie che mi hanno emozionato e che ho deciso di non tenere per me.
Per gli uomini, protagonisti del mio ultimo libro, è stato diverso. Come scrivo in apertura “questo libro non era previsto. È arrivato inaspettato e in fondo un po’ a sorpresa anche per me che ne sono l’autore”. Avevo moltissimo materiale e stavano scadendo gli accrediti che mi erano stati rilasciati dalle varie istituzioni culturali francesi. L’idea di farlo è nata proprio così, per non buttare via una mole di informazioni e suggestioni accumulate negli anni. Poi man mano che procedevo mi appassionavo esattamente come accaduto nel primo. È vero che la musica francese ha uno spazio limitato qui da noi (anche se il successo di ZAZ, finita in classifica anche in Italia,e di qualche rapper segnala momenti di interesse inaspettati) ma la struttura del mio libro non racconta solo musica: racconta storie di uomini, di teatri e di locali…
D Nel libro ‘Chansons e chansonniers nelle notti di Parigi’ parli del jazz presente in Sablon, Ventura e Salvador (aggiungerei Nougaro che però non tratti); c’è un fil rouge in Francia che lega canzone e appunto jazz?
R C’è più di un fil rouge. Si può dire che la chanson francese che conosciamo non esisterebbe senza il jazz. Le sonorità, le strutture ritmiche, gli azzardi armonici, gli arrangiamenti, tutto affonda la sua ispirazione nel jazz. Come poi è accaduto anche in Italia, i jazzisti giocano a dare struttura alle canzoni e ne disegnano l’orizzonte. In più i francesi se ne sono impadroniti e lo trattano come se fosse merce loro. Io ricordo ancora con grandissima emozione la prima volta che ho visto “ballare” il jazz dagli avventori de “Le Caveau de la Huchette” a Parigi. Il jazz francese non vive di separazioni ma di commistioni, più e meglio del jazz d’oltreoceano.
D Per te, che ti sei occupato di vari tipologie musicali, ha ancora un senso oggi la parola jazz?
R Come tutte le parole vive solo se viene essere riempita di contenuti concreti. Certamente oggi definisce un genere molto più vasto di quello delle origini ma il senso ce l’ha eccome.
D E si può parlare di ‘jazz italiano’? Esiste per te qualcosa di definibile come ‘jazz italiano’ e ‘jazz europeo’?
R Sicuramente esiste un jazz europeo e Parigi è ancora una delle capitali di questo genere musicale. Non è un caso che proprio nei locali della capitale francese la chitarra di Django Reinhardt poco meno di un secolo fa frantumava progressivamente ogni tipo di convenzione contribuendo a liberare il jazz europeo dalle regole antiche figlie di una evidente sudditanza nei confronti degli Stati Uniti. L’Italia è un po’ in mezzo. Non so se esiste un “jazz italiano” sicuramente esistono dei jazzisti italiani unici e riconoscibili.
D Molti ormai gridano alla morte della musica impegnata e/o sperimentale: ma esiste ancora, oggi, la politica e/o l’avanguardia nel jazz, nel rock, nel folk, nella canzone d’autore?
R Io credo che spesso si confondano le tendenze di moda con i movimenti reali. È vero che la musica che riempie le sale e gli stadi oggi ha poco a che fare con la musica impegnata e con le sperimentazioni, ma sono convinto che si tratti di un momento di passaggio. L’avanguardia di un tempo è diventata monotona e prevedibile cessando di stimolare e di suscitare interesse, ma sotto sotto c’è già la nuova ondata che si sta preparando… Come è sempre successo.
D Tu da sempre nei tuoi libri scegli un approccio sociologico (marxista?). Perché oggi la critica non è più quella militante o combattiva come una volta?
R Non lo so e non sono neanche sicuro che sia così. Sono invece abbastanza sicuro che i critici contino meno di un tempo, orientino meno e spesso non orientino per niente. Personalmente non credo che sia colpa del pubblico. Forse deve nascere una nuova critica, meno presuntuosa e più capace di essere dentro le dinamiche e i gusti del pubblico, ma magari sono io che mi sto rincoglionendo…
D Il jazz – ma vale anche per il rock – deve parlare, attraverso i suoni, di temi sociali, politici, ambientali, filosofici?
R Secondo me deve parlare di quello che vuole. Non si può decidere a priori su quale aspetto della vita e della società va orientato il suo flusso di luce. Non credo che sia utile. I temi sociali, politici, ambientali, filosofici non sono l’unico centro della vita. Anche i sentimenti e le emozioni più interiori hanno una loro dignità e, come dimostra la storia dell’arte, spesso finiscono per saldarsi alle ragioni della rivoluzione…
D Come vivi tu oggi la musica (e la critica musicale) in Italia anche in rapporto alle tue esperienze sul territorio?
R La musica la vivo bene. Non mi piace tutto quello che ascolto, ma da sempre cerco di essere contemporaneo, di vivere questo tempo e di evitare la muffa della nostalgia. Ho ascoltato molte cose interessanti e i giovani sono meglio di come spesso la mia generazione li descrive. La critica musicale, come ho detto prima, la vedo un po’ frastornata…
D Cosa pensi tu dell’attuale situazione – governo Meloni – in cui versa la cultura italiana (di cui il jazz e il rock ovviamente fanno parte da anni?
R Sono preoccupato più per le strutture che per il merito delle cose. Mi preoccupano le stupidaggini dette sui tagli ai già scarsissimi finanziamenti delle strutture culturali, i tagli a tutto ciò che non si trasforma in ritorno immediato (economico o di consenso) e a tutto ciò che ha vagamente l’aspetto di una critica. La Meloni non è la prima. Si inserisce in un tracciato già disegnato prima di lei e lo fa suo contribuendo a peggiorarlo ulteriormente. Da anni c’è un costante e fastidioso riferimento alla cultura come elemento d’impresa, quasi a dare per scontato che essa possa reggersi solo attraverso una ben definita forma imprenditorial-culturale capace di stare sul mercato da sola e di non chiedere nulla alla pubblica amministrazione (stato, regioni, province, comuni, ecc) perché talmente brava da guadagnare in proprio e da far guadagnare tutti gli altri soggetti pubblici interessati. L’unica cultura che ha attratto l’interesse della politica e delle imprese è stata così la “cultura dei numeri” che finisce inevitabilmente per abbeverarsi alla “ginnastica di massa”: eventi di grande effetto spettacolare e promozionale capaci di spostare tanta gente. Più gente si riesce a far spostare e più l’evento è culturalmente valido, poco importa la sostanza. Il presupposto della “ginnastica di massa” è la minor caratterizzazione possibile dell’evento per non rischiare di “selezionare” troppo i destinatari impoverendo perché il bilancio finale si fa sulle presenze non sul “peso” culturale dell’iniziativa. Si prevede che i cittadini siano sempre e solo “spettatori passivi” di qualsiasi attività artistica.
D Un’amara constatazione, purtroppo…
Oggi, per loro, è importante “avere tanto pubblico” agli spettacoli, non si pensa mai al “pubblico interessato e che ragiona”. Se l’obiettivo è la costruzione di una cultura diffusa con la partecipazione delle diverse fasce della popolazione va rovesciata la piramide delle istituzioni culturali. In questi anni si sono sperperate ingenti risorse in fuffa, in vetrine, in ricchi premi e cotillon, dimenticando che quella che ha le maggiori necessità di sostegno è la fase della “produzione” di cultura, il vero motore del settore, che è abituato a fare le nozze con i fichi secchi e per il quale una pur ridotta contribuzione pubblica è linfa vitale da non sperperare ma da mettere a valore. Se si guarda alla sostanza in tutto il quadro normativo dello stato e delle nostre regioni manca il sia pur minimo riferimento alla produzione. Si parla di “sostegno”, “valorizzazione”, “promozione”, “diffusione” ecc, ma si glissa del tutto l’idea di una partecipazione pubblica alla “produzione”. Eppure, come dimostrano le esperienze degli altri paesi europei a partire dalla vicinissima Francia se si vuole far ripartire il cosiddetto “volano” della cultura (giusto per usare le parole degli economisti) occorre fare esattamente il contrario di quanto attuato fino a oggi. Invece di inseguire i grandi e dispendiosi eventi occorre concentrare le poche risorse pubbliche (e quelle private disponibili a farsi orientare) sull’incremento della produzione culturalmente qualificata (un valore in sé e non una scelta da parametrare in base al mercato, magari turistico, di quel momento). Se non si fa così si rischia soltanto di peggiorare la già difficile situazione. Chissà se a qualcuno interessa?