Intervista a Marinella Venegoni, la donna rock per antonomasia

Mariella Venegoni
// di Guido Michelone //
Marinella è la donna rock per antonomasia, in Italia per quanto riguarda l’ambito della critica musicale: tra recensioni articoli, interviste è arriva nel settembre scorso a festeggiare il mezzo secolo di una carriera esemplare, dove l’etica e la deontologia della professionista vanno di pari passo con la passione di una fan e di un’esperta. Ricordo perfettamente quando nella diretta televisiva per il primo concerto di Madonna (Veronica Ciccone) in Italia, la giovane speaker le chiese un giudizio su questa nuova rock star: con voce ferma – che simboleggiava forse un’inconscia arrabbiatura per l’incompetenza dei commentatori – Marinella replicò giustamente che Madonna era pop, non rock, perché pop e rock sono due categorie musicali e sociologiche tra loro ben differenti. Questi per spiegare, anche solo attraverso un dettaglio minimo, la serietà con cui, fin da ragazza, ha sempre affrontare un argo,mento all’epoca ritenuto ‘minore’ o ‘frivolo’ (rifiutato spesso da giornalisti blasonati) ma che nel giuro di pochi anni avrebbe fatto gola a moltissimi colleghi, non sempre alla sua altezza
D In tre parole chi è Marinella Venegoni?
R Una ragazza di paese nata e cresciuta in un bar dove c’era uno splendido jukebox meta dei ragazzi della mia età. Una che ha trovato nel suo mestiere il modo di mettere insieme il lavoro e la passione. Molto fortunata, con una vita molto divertente, perché non ho mai sentito la fatica dell’impegno. Ma anche una che ha sofferto molto: a 26 anni ho perso Papà e Mamma. Avevo un marito splendido che faceva l’inviato di guerra, Mimmo Càndito, se n’è andato sei anni fa e ancora piango. Combatto le lacrime però, ho da sempre un’energia che mi aiuta molto.
D Come ci si sente a essere festeggiata per aver dedicato mezzo secolo al rock e alla musica in genere?
R Avevo confessato al Sindaco del mio paese Crescentino che l’1° settembre scorso sarebbero scoccati i miei 50 anni di giornalismo e lui: ‘Bisogna festeggiare!’. Ho messo su un talk show in cinque giorni, con amici artisti e colleghi. È stato bellissimo: pienone, la gente era contenta e ancora seduta dopo tre ore di chiacchiere e musica, non ho avuto nemmeno tempo di commuovermi però alla fine sì, una lacrimetta me la sono fatta. In fin dei conti al mio paesello ho fatto due mandati da sindaca: in due diversi millenni, però.
D Il tuo primissimo ricordo in assoluto della musica da bambina?
R All’asilo facevamo teatro e canto, sapevo tutte le canzoni della radio poi è arrivato il jukebox al bar e ho studiato pianoforte per cinque anni. Peccato aver smesso.
D E il tuo primo ricordo del jazz?
R Il Jazz l’ho scoperto da adolescente al mare in Liguria, ancora c’erano angoli dedicati alla buona musica. Poi ho conosciuto qualche grande, da professionista. Chiesi ad Archie Shepp se era d’accordo con Paolo Conte che cantava “Le donne odiavano il jazz/ Non si capisce il motivo” e lui disse che non ne aveva idea, ma ebbi l’impressione che fosse d’accordo con Paolo.
D Come sei arrivata dal ‘natio borgo selvaggio’ al quotidiano nazionale di un’affascinante metropoli?
R Ho voluto fare il Classico, poi Filosofia all’Università di Torino. Ero di ruolo al liceo di Borgosesia a 26 anni, ma sognavo una ‘vita spericolata’. Ho trovato a Genova il primo corso italiano di Giornalismo: ci han presi in 37 su 700 domande e ho mollato la scuola; per il previsto stage son finita a «Stampa Sera». Dopo otto giorni il direttore mi disse che mi avrebbe assunta. Mi davo molto da fare: non conoscevo nessuno (nemmeno il mio futuro marito), sono di paese, era l’unica strada. Poi ho chiesto di andare a «La Stampa», poi agli spettacoli. Nel 1982 nessuno voleva occuparsi di pop e di rock, così ho detto: ‘Io, volentieri’. Allora i giornalisti erano molto snob, quasi tutti gente bene, figli di avvocati, professori, notai: del popolo solo io. Ma poi in tanti hanno cercato di fregarmi il posto (tutti maschi).
D Come definiresti la tua attività? Giornalista, musicologa, rockologa, critica musicale, storica del rock o altro ancora?
R La prenderei bassa. Giornalista prima di tutto, musicologa non mi permetterei, rockologa abbastanza e critica in quell’ambito. Storica solo perché ho seguito la storia di anni bellissimi per la musica, sul campo. Pertrent’anni Bruce Springsteen, e per trenta gli U2, tanto per dire: ogni disco, ogni tour in giro per il mondo.
D Possiamo parlare di te come di uno dei protagonisti del giornalismo femminile? Sei stata la prima donna in Italia (e l’unica per molto tempo) a occuparti di un settore prevalentemente maschile?
R È proprio vero. La prima e a lungo unica. C’ero solo io in quel manipolo di maschi dei quotidiani, un po’ feroci e molto competitivi. Ho sviluppato una resistenza e ho imparato a farmi valere. Ma quel mestiere è finito, non si seguono più i concerti con le recensioni, nemmeno di dischi si parla più sui quotidiani: ora solo personaggi e interviste, e poi è tutto un signorsì, domande compiacenti, insomma manca lo spirito critico, la schiena dritta. Da una decina d’anni ci sono molte più donne sul campo. Anche se si fa un lavoro diverso, direi meno avventuroso.
D Per te ha ancora un senso oggi la parola rock?
R Guarda, quand’è uscito il disco di Jack White ex White Stripe un paio di mesi fa, ne ho scritto con gioia. Ma per sentire buon materiale bisogna andare sul vintage, raccontare il passato: non ci sono più Lou Reed o David Bowie. Quindi il senso è che il rock è diventato “musica classica”. E dai cinquanta in sotto non c’è un buon artista che faccia rock, di cui io sappia. I Måneskin percorrono (benino) una strada asfaltata.
D Parliamo del jazz: ti interessa? Ti piace? Te ne sei mai occupata?
R Il jazz se la passa più o meno come il rock, forse anche peggio. Ci sono i Festival estivi che danno fiato, ma è un’altra tristezza constatare che i ragazzi ascoltano per lo più musica scialba e brutta, artificiale, anche nel rap le eccellenze sono rarissime, c’è molta banalità e volgarità. All’estero non sono messi male come noi.
D Come hai visto, proprio mezzo secolo fa (e più) l’unico tra rock e jazz grazie a Miles Davis in America (seguito da moltissimi altri) e dai Soft Machine in Inghilterra?
R Magari aver visto dal vivo Miles Davis! Per fortuna ho visto Herbie Hancock a Umbria Jazz, e amavo Joe Zawinul… Trovavo e trovo questo materiale bellissimo, mi piace sempre la contaminazione, adoravo i Weather Report anche. Che peccato dover sempre parlare al passato: questo è il problema.
D Oltre la fusion ci sono punti di contatto tra rock e jazz (che vengono ritenuti due mondi incomunicabili): si tratta della black music popolare (r’n’b, soul, funky) che in fondo nasce dal blues (proprio come il jazz e il rock). Cosa ne pensi?
R La black music popolare è stata una risorsa non solo per il popolo. Non voglio fare l’elenco telefonico, cito solo quel genio di Prince del quale ho visto tutti i concerti da “Purple Rain” ai Novanta, e sono anche stata a casa sua a Minneapolis. Mi dispiace che sia morto così presto e così solo. Mi ricordo una splendida intervista a Montreux con BB King, era vecchio e stanco ma quando parlava di musica si accendeva. Adoro il blues e ascolto ancora Robert Johnson, pensa.
D Molti oggi gridano ormai alla morte della musica impegnata e/o sperimentale: ma esiste ancora la politica e/o l’avanguardia nel sound statunitense e in quello europeo nei vari generi?
R Confesso che se c’è, io non ne so nulla.
D E tra le innumerevoli interviste, che personaggi ti sono rimasti più impressi?
R Dico sempre la verità. Quelle ammucchiate spaventose di cento giornalisti radunati perché Bob Dylan o i Rolling Stones rispondessero a quattro domande, mi hanno sempre fatto venire il nervoso, non c’è nulla di giornalistico dentro quelle conferenze. Altra cosa sono stati gli anni nei quali Paul McCartney solista ci accoglieva in quattro o cinque nella sua casa di campagna, e nascevano interviste degne di questo nome. Linda sua moglie all’epoca veniva a salutarci, Zaccagnini una volta le ha portato i pomodori dell’orto e lei era felicissima.
D Altri incontri per te memorabili?
R Indimenticabile anche l’incontro con George Harrison quando nel 1987 uscì Cloud Nine; si parlava di musica, ma lui voleva sapere di Marcinkus, era ossessionato dai traffici economici del Vaticano: una storia che si ripete. Indimenticabile Keith Richards a Monaco di Baviera, all’Hotel Kempinsky nel 1998: il giorno dopo a Norimberga Mick Jagger avrebbe “strappato” le corde vocali (sentii chiaramente il “tac” dal microfono), facendo saltare il concerto di Milano del 16 giugno successivo. Keith – believe it or not – venne a salutarci mentre stavamo scrivendo in una saletta in quattro o cinque, e ci mettemmo a chiacchierare con lui… era una figata mai vista. Però chiacchiera chiacchiera guardai l’orologio: erano le 7 di sera e bisognava scrivere. Così con la morte nel cuore gli porsi il libretto degli appunti per un autografo, un modo per dire che avevamo finito. Lui abbozzò, firmò per me e per tutti e se ne andò. A me veniva da piangere.
