Le forze in campo riescono a trovare una specie di break-even-point, operando su un crinale espressivo posto al di fuori di qualsiasi tendenza prevalente nel jazz classico o contemporaneo…

// di Francesco Cataldo Verrina //

L’incontro tra i massimi referenti del post-punk e del post-bop elude le tendenze contemporanee, accentuando il concetto di relativismo del jazz e divenendo, al contempo, una sorta di smacco per un certo jazz eurocentrico mellifluo ed assiepato nel camerismo languoroso e fine a se stesso. Nel morganatico artistico fra James Brandon Lewis, la sezione ritmica dei Fugaci con l’aggiunta del chitarrista Anthony Pirog, c’è forse uno dei segreti per la sopravvivenza del jazz stesso o un tentativo, ben riuscito, di avvicinare il vernacolo afro-americano alle ultime generazioni. Il merito va a quattro musicisti, diversi ma affini, che hanno trovato un terreno comune serpeggiando tra vari stilemi sonori e schivando abilmente l’idea di un costrutto monolitico. The Messthetics è un termine arcaico che significa, i «Messaggeri», probabilmente una piccola astuzia a livello di marketing. Le cronache jazzistiche raccontano di un precedente relativo alla collaborazione, avvenuta nel 2006 e durata fino al 2012, tra il sassofonista tenore etiope Getatchew Mekurya e il gruppo punk olandese The Ex. A metà degli anni ’50, Mekurya, che indossava un copricapo con la criniera di leone esibendosi nelle sale da ballo di Addis Abeba, forgiò uno stile non dissimile, ma anteriore, a quello di Albert Ayler. Mekurya sosteneva di non aver mai ascoltato jazz fino agli anni ’60 e che la sua musica fosse basata sui canti di battaglia tradizionali dei guerrieri etiopi. Incontrando per caso Mekurya, nel 2006, durante un festival olandese, The Ex diedero vita ad progetto, all’epoca assai rivoluzionario ed innovativo.

Al netto della collaborazione con James Brandon Lewis, il batterista Brendan Canty e il bassista Joe Lally, pur nella loro turbolenza hardcore, avevano sempre mostrato una certo interesse per la balck music ed il groove, sia che si trattasse di reggae, backbeat o aneliti funkified, formando nel 2018 i Messthetics come trio strumentale corroborato dall’arrivo di Anthony Pirog, un chitarrista legato al jazz sperimentale, eclettico ed abile sui terreni accidentati e brucianti, capace di secernere melodie inquiete o memorabili alla bisogna, fronteggiando con disinvoltura sonorità abrasive e non convenzionali. Dal canto suo Lewis, sebbene profondamente radicato nella tradizione jazz e R&B, si era sempre mostrato disposto ad allontanarsi dalla gabbia limitante di uno specifico genere musicale, da sempre alla ricerca di un modulo espressivo personale ed inequivocabile. Ne fu una dimostrazione lampante l’album del 2016, «No Filter», infarcito di bassi elettrici distorti, linee di fiati gutturali. Il disco di Lewis tradiva anche anche un’atmosfera ballerina adatta all’intrattenimento da seminterrato. Il fatto che Anthony Pirog fosse presente nelle registrazioni del suddetto album, ha certamente favorito l’avvicinamento del sassofonista ai Messthetics. «Fin dal primo giorno in cui ho conosciuto Anthony, io e lui siamo andati d’accordo», ha raccontato Lewis. «Ci siamo guardati dopo una sessione con William Hooker e ci siamo detti: accidenti, questa merda è perfetta». Da qui, l’idea di fare qualcosa di diametralmente opposto.

Sin dalle prime battute, l’album dimostra che tra jazz e rock d’avanguardia ci sia meno conflittualità di quanto si supponga, ma che il divario rimane ed è ancora abissale. Ciononostante, le forze in campo riescono a trovare una specie di break-even-point, operando su un crinale espressivo posto al di fuori di qualsiasi tendenza prevalente nel jazz classico o contemporaneo: niente paesaggi sonori ambient o new age, improvvisazione libera cerebrotica e sfuggente o revivalismo spiritual-jazz da santone che sparge incenso con il breviario a mano. Il fulcro del progetto rimanda alla New York degli anni ’80 e dei primi ’90, quando John Zorn suonava grindcore (genere a metà fra metal, jazz e punk) con i Naked City. Come accadeva in quell’epoca di inculturazione generalizzata e di impollinazione incrociata, i quattro musicisti coinvolti nel progetto si sono incontrati con sicurezza e disponibilità, ma alle loro condizioni. Scorrendo le varie tracce d’intuisce che i due post-punkers non fremono nel dimostrare la loro buona fede nel praticare il verbo del jazz, mentre i due jazzisti non sembrano considerare il punk e derivati come musiche rudimentali e povere di armonie. Va detto subito, a scanso di equivoci, che «The Messthetics And James Brandon Lewis» non è un disco fusion nel senso tradizionale del termine, ma un concept jazz poco ortodosso, contemporaneo e sperimentale, al massimo una sorta di BAM sottovuoto spinto, come sostengono i maggiorenti della Impulse! Records, etichetta storica legata alle avanguardie sin dagli anni Sessanta.

Durante il set, ognuno ha aperto la propria cassetta degli attrezzi ed evidenziato una particolare abilità nell’uso di taluni strumenti, mostrando agli altri il metodo più rapido per lavorarci sopra. I risultati sono alquanto tangibili: ad esempio, nella sezione finale di «Three Sisters», dove Lewis e Pirog suonano assoli intrecciati e i due ex-Fugazi, dalla retroguardia, si agitano come un mare in tempesta, spingendo la prima linea verso voli ad alta quota, intensi e ricchi d’invenzione. Su nove tracce, alcune sono ballate come «Asthenia» o «Three Sisters», altre vicine allo swing, è il caso di «Railroad Tracks Home» con il suo ritornello blues, mentre colpisce l’hard funk di «That Thang», pieno di riff ed impennate, o il simil-jazz-rock classico dell’opener con il titolo in italiano, «L’Orso». L’atto conclusivo dell’album, «Fourth Wall», è rock uptempo più archetipale, In cui Pirog e Lewis suonano i loro assoli uno dopo l’altro, ma si può ancora percepire una certa connessione tra i due. Così quando Lewis conclude la sua incursione con un cupo ululato, Pirog riprende le ultime asserzioni del sassofonista advenendo a più miti consigli.

Ci sono anche momenti che suonano più o meno come i Fugazi con un sassofonista free-jazz al posto di un cantante, specie in una composizione come «Three Sisters». Il post-punk alla The Psycadelic Furs viene fuori in «Emergence», dove i Messthetics operano cambi di rotta tra sincopi e accordi poganti, mentre Lewis soffia come un dannato nell’alto del suo empireo sonoro. Il gruppo tende a favorire armonie relativamente statiche rispetto agli elaborati cambi di accordi del bebop, un approccio che si dimostra adatto alla sensibilità compositiva snella e riottosa di un paio di ragazzi terribili istruiti sull’abecedario dell’hardcore. Così mentre il resto del line-up fornisce una struttura solida e spoglia, Lewis è libero di abbellire la melodia di «Emergence» in qualsiasi direzione, dapprima a tutta dritta, poi in acque tumultuose con dissonanze progressivamente più frenetiche, man mano che il convoglio sonoro navighi spedito agognando un approdo sicuro. Ogni componimento risulta abbastanza leggibile e immediato da rimanere impresso dopo un rapido ascolto. Il più ambizioso e, certamente intrigante, è «Boatly» che si attarda per buona metà del tragitto sotto le mentite spoglie di un tema lento, sensuale, quasi ruffiano, mutando geneticamente, in seconda battuta, in una sorta di imponente inno post-rock. Il brano inizia come una ballata trip-hop con spazzole di batteria ed un groove rilassato ma, dopo quattro minuti e mezzo, un significativo aumento del tempo conduce ad una coda mozzafiato, in cui le urla esagerate di Lewis e gli accordi pizzicati di Pirog, per paradosso, ricordano il giovane Archie Shepp che incontra un tonico Bill Frisell o un Pharoah Sanders alla corte dei Coltrane.

È comunque sorprendente che la Impulse! Considerata, da sempre, una specie di tempio sacro del jazz, abbia acquisito questo disco, per così dire borderline. Tuttavia, la potenza con cui Lewis suona ricorda chiaramente John Coltrane e i già citati Pharoah Sanders e Archie Shepp. E – come già detto – anche negli anni ’60, l’etichetta era sistematicamente in sintonia con con le ultime tendenze. Joe Lally ha dichiarato che non vedeva l’ora che il nome della sua band fosse collocato accanto all’inconfondibile logo arancione, bianco e nero degli Impulse! «Sto cercando di essere cool al riguardo». Dal canto suo, Brendan Canty, per il fatto di essere associato ad un catalogo così prestigioso, si è schernito dicendo: «Spero che nessuno pensi che sia io l’impostore nel tempio». È chiaro che il gruppo non possiede un chimica facilmente reattiva e scontata per affinità elettiva, come avviene all’interno di un tipico combo jazz. Per contro, il sistema dei vasi comunicanti è imperniato sul rispetto e sull’accettazione reciproca: le idee dell’uno svaniscono sullo sfondo, mentre quelle dell’altro prendono il sopravvento, tanto che quando Canty smette di accarezzare la batteria e inizia a martellare, Lewis trasforma il suo sax da un ronzio in un urlo. Questi sono «The Messthetics And James Brandon Lewis», Così è, se vi pare!

The Messthetics

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