Sia Ethel Waters che Zora Neale Hurston credevano che i corpi dei neri, i loro corpi cinestetici, potessero servire come strumenti prodigiosi e vitali nelle loro imprese musicali.

// di Gianni Morelenbaum Gualberto //

“Supper Time” racconta di un linciaggio. Narra di una moglie che aspetta a casa il ritorno di un uomo che non tornerà più, di una madre che non trova le parole per spiegare ai figli che il loro padre non c’è più. Una tematica che Irving Berlin affrontò dopo avere letto la notizia dell’uccisione in Florida di un africano-americano -di cui non si conosceva l’identità- da parte di una folla inferocita, uno fra i tanti episodi di violenza che si contavano quotidianamente negli Stati Uniti della segregazione razziale.

Il compositore ne fece un personale manifesto, espandendone il significato per includervi le vittime inermi e deboli di ogni violenza in ogni luogo, e il dolore e la disperazione che lasciavano con la loro ingiusta scomparsa. La composizione -aspra, dolorosa, secca come una fucilata, quasi un’anticipazione di certe song di protesta sociale che un sopraffino e inquieto autore come Marc Blitzstein avrebbe scritto non molto anni dopo- fu scritta per un musical satirico, “As Thousands Cheer”, nel 1933. Ethel Merman fu scelta come interprete dallo stesso Berlin, che la impose come prima attrice e vocalist africano-americana ad esibirsi a Broadway in un cast altrimenti interamente bianco (Charles Gilpin, come interprete di “The Emperor Jones” di O’Neill, era stato il primo interprete maschile africano-americano a rompere nel 1920 i dettami della segregazione). Ethel Merman (che nello spettacolo interpretava “Heat Wave” ,“Harlem on My Mind”, “To Be or Not to Be” e, appunto,“Supper Time”) era già ben nota come cantante di blues e protagonista del vaudeville e delle scene africano-americane, la sua identificazione con il song scritto da Berlin fu più che intensa, fu un’adesione segnata da un crescente senso di rabbia e di frustrazione di cui la cantante non fece mai più mistero.

Nello spettacolo, Merman recitava nei panni di una donna dei sobborghi africano-americani del Sud, mentre una didascalia campeggiava alle sue spalle, ricordando il titolo dei quotidiani che annunciavano l’uccisione di uno sconosciuto africano-americano nel corso di un linciaggio: un messaggio non casuale in una nazione scossa ancora dalla Grande Depressione ed in cui le città del Nord assistevano già da due decenni al First Great Migration, al fenomeno migratorio di centinaia di migliaia di africano-americani che abbandonavano la miseria, la violenza e la segregazione degli stati del sud in cerca di lavoro e di una vita dignitosa. All’apice e quasi all’ocaso della Harlem Renaissance, Ethel Waters, come altri intellettuali e artisti africano-americani, seppe trasformare, per dirla con Alain Locke, “social disillusionment to race pride”, facendo anche uso di facoltà espressive squisitamente legate ad un linguaggio del corpo sconosciuto alle platee bianche, americane o meno (a tal proposito, due testi di Daphne A. Brooks risultano particolarmente utili: “Liner Notes for the Revolution. The Intellectual Life of Black Feminist Sound”, The Belknap Press of Harvard University Press, 2021 e “Bodies in Dissent. Spectacular Performances of Race and Freedom, 1850-1910”, Duke University Press, Durham and London 2006). Zora Neale Hurston, parlando della cantante e attrice, ne fece un adeguato ritratto: “È una delle persone più strane che abbia mai conosciuto. Se la si frequenta a lungo, si possono vedere le diverse persone che la compongono. È come guardare un fuoco vivo: il colore e la forma della sua personalità non sono mai gli stessi due volte. Ha talenti straordinari che la mancanza di un’istruzione formale le impedisce di mettere in mostra”. Sposata più volte ma queer, abile nell’esprimere il double entendre così come nel viverlo e capace di mutare ed esplorare costantemente ed a fondo le molteplici chiavi di lettura di qualsiasi testo, Waters è stata proteiforme quanto ispirata, rabbiosa quanto poetica, frustrata quanto illuminata. Ascoltiamola mentre infiamma la scena con il suo ammiccante successo del 1926, “Shake That Thing”, e si afferra in fretta ciò cui alludeva Hurston. Snocciolando doppi sensi a destra e a manca, Waters cambia personaggio con un semplice giro di parole. Un attimo prima è la seduttrice scambista e un attimo dopo è la fredda osservatrice culturale.
Now, it ain’t no Charleston, ain’t no Pigeon Wing,
Nobody has to give you no lessons, to shake that thing
When everybody can shake that thing
Oh, I mean, shake that thing!
I’m gettin’ tired of telling you how to shake that thing!
Oooh, oooh, with this kind of music, who wouldn’t shake that thing?

Ethel Waters – Shake That Thing

Sia Ethel Waters che Zora Neale Hurston credevano che i corpi dei neri, i loro corpi cinestetici, potessero servire come strumenti prodigiosi e vitali nelle loro imprese musicali. Mentre l’enorme successo di Waters “Shake That Thing” (eseguito per la prima volta nel 1925 al Plantation Club) avrebbe portato l’energia sessuale del jook (il juke joint, il barrelhouse, un regno che Hurston definiva l’apice della teatralità nera nel suo saggio del 1934 “The Characteristics of Negro Expression”) al suo estremo ludico, Hurston avrebbe anche messo in gioco il suo corpo non solo come dispositivo narrativo, uno strumento per trasmettere grandi idee sul dinamismo della vita africano-americana, ma come forma di epistemologia performativa chiamata a fare da riferimento e a far rivivere la memoria culturale e storica del patrimonio dei dei canti di lavoro: “The Negro’s universal mimicry is not so much a thing in itself as an evidence of something that permeates his entire self. And that thing is drama. His very words are action words. His interpretation of the English language is in terms of pictures. One act described in terms of another. Hence the rich metaphor and simile. The metaphor is of course very primitive. It is easier to illustrate than it is to explain because action came before speech. Let us make a parallel. Language is like money. In primitive communities actual goods, however bulky, are bartered for what one wants. This finally evolves into coin, the coin being not real wealth but a symbol of wealth. Still later even coin is abandoned for legal tender, and still later for cheques in certain usages. Every phase of Negro life is highly dramatised. No matter how joyful or how sad the case there is sufficient poise for drama. Everything is acted out. Unconsciously for the most part of course. There is an impromptu ceremony always ready for every hour of life. No little moment passes unadorned.”
In questa performance di Ethel Waters, le risorse vocali non sono più nelle migliori condizioni, ma le corde interpretative, la rabbia, l’angoscia, la solitudine sono le stesse, superbe e inalterate da un successo conquistato duramente, a caro prezzo. Il dolore traspare dal filo di raucedine, dai momenti di stanchezza che dipingono sconforto e senso di inutilità, il corpo sembra accasciarsi su se stesso, le mani che tormentano un panno, eppure la voce conserva una dignità delusa, un ritegno amaro, un’ultima, estrema riserva di astio sdegnoso. Non è solo teatro, è indignata autobiografia, atto di estrema, finale e orgogliosa resistenza civile.
Supper time
I must set the table
‘Cause it’s supper time
Somehow I ain’t able
‘Cause that man of mine
Ain’t coming home no more
Supper time
Kids will soon be yelling
For their supper time
How will I keep from telling
Them that man of mine
Ain’t coming home no more
How will I keep explaining
When they ask me where he’s gone
How will I keep from crying
When I brings they supper on
How can I remind them
To pray at their humble board
How can I be thankful
When they start to thank the Lord, Lord
Supper time
I must set the table
‘Cause it’s supper time
Somehow I ain’t able
‘Cause that man of mine
Ain’t coming home no more

Ethel Waters – Suppertime



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