…sinfonie «brutali», urlate e scolpite in una materia non materia, talvolta sintetica, altre attinente ad una ratio lontana dai tradizionali lumi della ragione, ma dettate con una congruità ed un senso della sintesi che rende l’intero costrutto fruibile ed intellegibile…
// di Francesco Cataldo Verrina //
I concept discografici dei Doortri sono architetture sonore sommerse che emergono dalle viscere della terra lentamente come geyser per poi esplodere e colmare l’ambiente circosatnte di impulsi ritmici sulfurei che contengono la forza dematerializzata e frantumatoria del jazz free form, la riottosità strumentale del punk e la corrosività dello sperimentalismo europeo degli anni ottanta; nondimeno hanno la predisposizione genetica ad allocarsi sul filo di una contemporaneità polimorfica che spezza le catene convenzionali ed idiomatiche dei generi e degli stili riposizionandoli in un ambito semantico del tutto personale che non disdegna di cogliere alcuni aspetti inquietanti della quotidianità.
Così come nei precedenti lavori, anche con «EEEEELS» i Doortri non rispondono o corrispondono ad uno specifico modulo espressivo, ma costituiscono di per sé un format, un unicum fedele al loro metodo d’indagine, qualunque sia l’ordito creativo, l’impianto strutturale o il senso dell’orientamento sonoro seguito. L’album appena uscito sul mercato è una raccolta di sinfonie «brutali», urlate e scolpite in una materia non materia, talvolta sintetica, altre attinente ad una ratio lontana dai tradizionali lumi della ragione, ma dettate con una congruità ed un senso della sintesi che rende l’intero costrutto fruibile ed intellegibile: va da sé che, a tratti, bisogna saper leggere tra le righe ed avere redini salde, al fine di non cadere dal cavallo in corsa, su un terreno scosceso ed impervio, dove gli ostacoli non sono accidentali ma voluti e fissati con precisione chirurgica da una sorgiva abilità nel saper modellare un apparente blob sonoro privo di barriere architettoniche e punti di ancoraggio.
L’album è strutturato come un’opera post-moderna, quai post-atomica, da «The Day after» in tre suite: «Eeeeels» e «Jelly Bean», contenenti cinque titoli minori fatti di brevi ed arrembati escursioni in territori improbabili e per nulla scontati ed una suite finale costituita da un un unico titolo principale; «Sleeeee» proposta alla medesima stregua di una lunga odissea irta di pericoli che, con buona probabilità, costituisce la summa di tutte le referenze sonore tentate dai Dootri all’interno del concept. Giampaolo Mattiello (Moray) percussioni, armamentari elettronici e vocal, Tiziano Pellizzari (Conger) tenor sax, clarinetto e sinth e Geoffrey Copplestone campionamenti, effetti ed elaborazioni elettroniche diventano tre emanazioni dell’uomo-macchina e non danno mai punti di riferimento aggredendo il parenchima sonoro da ogni latitudine possibile. L’opener è affidato alla title-track che parte con una retrocarica di suoni effettati come una molla riportata all’indietro che implode in costrutto nevrotico per quasi otto minuti, dove un clarinetto basso dal suono profondo ed abissale spiana il terreno ad uno speech nervoso e tagliente che finisce per riversarsi nel primo inserto della suite, «Ventricles Tentacles», un magna sonoro che sembra sputato fuori dal regno del caos, il quale fa da apripista ad «Untitiled (Untitiled)», un funk infernale dai contrafforti punkish, caratterizzato da un ritmo binario alimentato dal sax e dalla voce in perfetta simbiosi. «The Generation Game» è l’urlo «pogante», concitato e allarmante di una generazione intrappolata nelle spire di mille contraddizioni, sostenuto da un ritmo in overclocking.
«Monkey Christ», è quasi il risveglio del pianeta delle scimmie che prende il sopravvento sulla civiltà umana: bastano pochi secondi per percepire un senso di smarrimento, che muta presto in «Wymnku Wymbl N Wymnwn», una struttura multiforme dall’incedere gravoso e propedeutico ad vocalizzo-rapping che sfocia in un finale arabescato, ma soprattutto saldandosi alla seconda suite siglata come «Jelly Bean», dove si rinnova il brusio sonoro di «Ventricles Tentacles», il quale funge da interstizio o da camera di decompressione. «Moshi Machine» è una cadenza alfanumerica ossessiva ed ipnotica che prepara il terreno al titolo successivo scritto in una sorta di geroglifico teso ad alimentare il senso di incredulità di fronte ad una massificata Babele di suoni e voci, in cui s’incaglia la traccia successiva, «Frammenti», dove voce e sassofono si alternano in un rutilante funk tecnologico dai contrafforti hip-bebop, fino a giungere nei pressi di universo fantastico chiamato «Soneto», in cui suoni, ritmi, fonemi ed essenze di umanità si fondono in una bolgia che evolve in un crescendo parossistico. L’atto finale, ossia la suite senza sottotitoli, si sbriciola, sulla scorta di tempi mutevoli e mood cangianti, lungo un tratturo di circa dieci minuti mostrando le tante facce dei Dootri. Di certo, «Eeeeels» non una pic indolor per neofiti e neonati, bisogna avere il coraggio di sporgersi dal finestrino nei pressi di un dirupo guidando a fari spenti nella notte. Per contro, entrando nel mood potrebbe tradursi in un trip senza effetti collaterali.