// di Guido Michelone //
Cloaked In Blue (Daniele Tione), Different Colors (Luca Poletti), ElectricFranco Reimagining The Music Of Franco D’Andrea (Aldo Mella), In A New World (Marco Tiraboschi), Le Langhe Non Si Perdono – Jazz Opera Inspired By Cesare Pavese (Virone), Mustras (Andrea Ruggeri), Peaceful Soul (Antonio Fusco Quintet), The Jazz Side Of Bacharach (Wally Allifranchini), Tough Love (Arrigo Cappelletti), Wayne Shorter’s Legacy (Sonia Schiavone) sono soltanto alcuni degli splendidi album (qui in rodine alfabetico) editi dall’etichetta giapponese Da Vinci, ilcui nome fa pensarfe all’Italia, non a casa, perché a fon darla, gestirla, dirigerla c’è proprio un italiano, Edmondo Filippini, che, accanto a uno stupefacente catalogo di musica classica ha deciso nel Paese del sol levante di dare spazio a molte sonorità tricolori come egli stesso spiega in quest’intervista esclusiva.
D In tre parole chi è Edmondo Filippini?
R Sono un musicologo che è stato preso in prestito dal mondo editoriale e discografico e che vive in una sorta di proprio eremo in estremo oriente.
D Il suo primissimo ricordo della musica da bambino?
R Sono vari in realtà e tutti risalenti allo stesso periodo. L’odore dei vinili di mio padre, mia sorella su uno sgabello che studia per ore e ore il violino, la felicità del primo lettore cd che mi dava accesso a un ascolto più libero e senza mediazione.
D E il suo primo ricordo del jazz in assoluto?
R È stato solo in un secondo momento che ho scoperto il jazz, grazie a Bird di Clint Eastwood, un film che ho visto per la prima volta verso la fine degli anni Novanta, spinto dalla mia passione per il cinema. Successivamente, fu merito di un caro amico, che abitava nei pressi e possedeva una vasta collezione di dischi esclusivamente jazz (mentre io li avevo solo di classica), se mi sono avvicinato davvero a questo universo musicale. Le lunghe serate trascorse insieme ad ascoltare nuove uscite e capolavori del passato rappresentarono una sorta di formazione per me. Da appassionato di musica classica, ancora adolescente, il mio amico sapeva sempre quali dischi selezionare per aiutarmi a comprendere e ad apprezzare un mondo che mi era pressoché ignoto fino a quel momento.
D Come definirebbe la sua attività?
R Editoriale e discografica, non vedo un modo più conciso e preciso per definirla.
D Discografico, direttore artistico, talent scout o tutto insieme o altro ancora?
R Non mi considero un talent scout, né in alcun caso né in alcun modo. Non gestiamo una sezione di agenzia né cerchiamo attivamente nuovi musicisti. Preferisco identificarmi con il titolo che ho conquistato attraverso i miei studi universitari: musicologo. Col tempo, termini come discografico o editore hanno preso piede nel mio percorso, ma entrambe queste attività sono sempre state guidate dalla mia formazione originaria.
D Ci può raccontare in breve la storia della Da Vinci Publishing?
R Per riassumere in poche parole, è una casa editrice e musicale indipendente che ho fondato nominalmente nel 2015 e poi ufficialmente nel 2016 a Osaka, dove vivo e risiedo dal 2012. Doveva essere un progetto che svolgevo a latere della mia attività presso l’IIC di Osaka ma nel 2017 ho visto crescere sempre di più i musicisti che si rivolgevano a noi per pubblicare sia partiture che progetti discografici e proprio da quell’anno mi ci dedico pressoché a tempo pieno. Oggi possiamo vantare una struttura sicuramente più ampia delle origini – dove di fatto ero da solo – con una distribuzione globale curata da Egea Music e Naxos per quanto riguarda la parte del disco e un’esclusiva con Hal Leonard per la distribuzione della musica stampata. Nel 2018 poi ho voluto fondare DV Studios, un progetto di registrazione che vedo crescere di anno in anno e nel 2020 abbiamo lanciato il DV Young Sounds, un concorso discografico – credo unico al momento – dedicato ai giovani artisti.
D Come mai, in parallelo alla classica, l’apertura di Da Vinci Jazz?
R Sono sempre state unite, originariamente non volevo nemmeno fare una distinzione netta in quanto consideravo – ed in parte sono ancora della stessa idea oggi – che il “Jazz” come etichetta sia nient’altro che una delle tante etichette che è stato associato ad un determinato stilema musicale del Novecento, non dissimile da quello che potrebbe essere l’uso dei termini “dodecafonico” o “minimalista”. È stato il mio distributore, Egea Music, che mi consigliò di tenerle separate per avere un maggiore ordine e facilità di distribuzione nei canali corretti.
D Per lei ha ancora un senso oggi la parola jazz?
R Perché non dovrebbe avere ancora senso? Il termine jazz affonda le sue radici in un contesto storico e geografico ben preciso. Tuttavia, come accade con tutte le forme d’arte legate alla creatività umana, il jazz non è rimasto confinato al suo luogo d’origine né è rimasto statico nel tempo. Al contrario, ha subito un’evoluzione dinamica, adattandosi e trasformandosi a seconda delle culture e dei contesti nei quali è stato accolto. Il jazz è diventato un linguaggio universale che, pur mantenendo le sue radici, ha saputo evolversi in una moltitudine di stili e interpretazioni a livello globale. Ogni paese, ogni cultura lo ha accolto assorbendolo in modo sempre differente, lo ha reinterpretato in base alle proprie tradizioni musicali e sensibilità artistiche (si pensi a molte nazioni del continente africano ed asiatico), portando a un’esperienza musicale che, seppur diversa per ciascun ascoltatore, mantiene ancora viva l’essenza del jazz. Fino a che questo linguaggio parlerà a persone di tutto il mondo e sarà utilizzato dai musicisti come linguaggio per la loro propria espressione, fino a che continuerà ad evolversi e svilupparsi, il termine ha luogo di esistere nella nostra contemporaneità.
D E si può parlare di ‘jazz italiano’? Esiste per lei qualcosa di definibile come ‘jazz italiano’?
R Come ho detto sopra, l’Italia è solo uno dei paesi che ha assorbito le forme del jazz e lo ha ibridato con forme proprie derivanti dalle tradizioni musicali – spesso locali – tipiche delle varie zone del Paese. Come più o meno tutti i jazz, vale per quello francese, giapponese o tedesco, non si parla mai di una copia del modello americano, quanto piuttosto di una vera e propria reinterpretazione e appropriazione. Dire che non esiste un jazz italiano sarebbe negare la musica e le peculiarità di artisti come Rava, Fresu o Bollani, per citare solo tre nomi tra i più famosi nel mondo. Per assurdo si farebbe molta più fatica a negare l’esistenza di un jazz italiano poiché sono troppe le evidenze che ne attestano l’esistenza e la vitalità.
D Molti ormai gridano alla morte della musica sperimentale: ma esiste ancora l’avanguardia nel jazz e nella classica sia statunitense sia europea ed extraeuropea?
R L’avanguardia c’è e ci sarà sempre. Una volta Fabio Vacchi in una conferenza disse che la parola avanguardia è di fatto un termine preso a prestito dal mondo militare, le avanguardie vanno, appunto, avanti, in attesa che il resto dell’esercito li raggiunga. In musica non è particolarmente dissimile, ogni avanguardia deve essere raggiunta e, aggiungo io, superata per fare in modo che possa esserci una nuova avanguardia che si rinnovi costantemente in un ciclo senza soluzione di continuità. Tutto ciò che è nuovo è definibile avanguardia, non necessariamente tutto ciò che ricade sotto questo termine è definibile di valore o meritevole di perdurare nel tempo e non tutto ciò che è avanguardia deve essere necessariamente sperimentale. Se scindiamo questi termini, ci accorgiamo che la musica, nuova, sperimentale o di avanguardia che sia ha semplicemente cambiato atteggiamento nel corso dei decenni, passando da un’idea radicale e di costante rottura – tipica di alcuni ambienti intellettuali del passato – ad un dialogo sempre più stretto con con tradizione e nuove tecnologie e l’ondata dell’IA, non ancora assestatasi in quanto siamo ancora nella sua piena nascita, non farà altro che aumentare questo dialogo. Questo discorso sarebbe lunghissimo e si potrebbe analizzarlo da moltissimi punti di vista, non ultimo l’impatto e lo sviluppo da stato a stato delle avanguardie e la loro evoluzione nell’oggi.
D Cosa distingue appunto l’approccio dei musicisti europei da quelli di altri continenti?
R Impossibile rispondere, prima si dovrebbe definire cosa distingue l’approccio di un musicista spagnolo da uno norvegese, ed all’interno della risposta non ultimo sarebbero da considerarsi i fattori economici e di sostegno alla cultura di ogni singolo stato. Fatto questo si dovrebbe tracciare un parallelismo con paesi diversi definendo il loro ruolo in ambito musicale, un Brasiliano ha un approccio ad esempio molto diverso rispetto alla Corea del Sud o al Giappone. Posso dire qualcosa di più preciso rispetto a quest’ultimo forse, dato che ci vivo da molti anni e ne conosco – mai veramente come vorrei – la scena. I musicisti jazz giapponesi sono per molti aspetti unici, anche se le loro influenze principali sono sicuramente di matrice statunitense riescono sempre ad inserire tematiche, melodie derivanti dalla cultura tradizionale o pop in modo molto originale, per non parlare della maniacale attenzione per la qualità del suono, inoltre il Giappone è il paese dove maggiormente ho visto spingersi agli estremi – in particolare sulla scena di Tokyo – alcuni sperimentalismi, arrivando ad includere anche concetti propri del pensiero nipponico all’interno della musica, aggiornati e rielaborati secondo estetiche e suoni provenienti dai più disparati angoli del globo.
D Che novità ci aspettano nel 2025 dalla Da Vinci Publishing
R Stiamo esplorando come le nuove tecnologie di intelligenza artificiale possano essere utilizzate per avere un impatto significativo nell’ambito promozionale e oltre. Ci siamo inoltre stabiliti in un nuovo studio di registrazione, con l’obiettivo di farlo crescere sia in termini di attività che di qualità. Prevediamo di entrare a breve in numerosi nuovi mercati, non solo legati alla distribuzione musicale fisica e digitale, mirati alla sincronizzazione per aumentare la visibilità delle nostre produzioni attraverso diversi media.