Art Ensemble Of Chicago

// di Gianni Morelenbaum Gualberto //

L’Art Ensemble of Chicago s’inserisce di diritto in un contesto che possiamo far partire dagli albori del cosiddetto free jazz e che ha cancellato del tutto il concetto eurocentrico, e geograficamente circoscritto alla cultura occidentale, di avanguardia. Il termine, utilizzato invece per definire la ricerca contemporanea in ogni tradizione musicale, perde così le proprie connotazioni tradizionalmente elitiste e legate all’accademia eurocentrica: il suo corretto uso implica la conoscenza e l’inclusione di un quasi illimitato numero di linguaggi ed esperienze.

Un video che è sintesi adeguata delle capacità dell’originario Art Ensemble of Chicago, un incontro peculiare e ideale fra personalità diverse ma unite da sensibilità comuni, tant’è che si può dire che il gruppo sia finito con la scomparsa di Lester Bowie (la sua morte ha trasformato l’AEOC – già mostratosi in una fase di classicità estetizzante nelle scultoree ma patinate incisioni per l’ECM – in una progressiva e autoreferenziale manifestazione di revivalismo contemporaneo), che ha alterato drasticamente un equilibrio per certi versi precario ma che di quella precarietà aveva saputo fare tesoro, assumendosi rischi artistici con tutte le conseguenze del caso, affrontando imperfezioni, risultati ondivaghi e fallosi, alti e bassi, fiaschi e riuscite. Tutti, si può dire, parte di una ricerca che per principio rifiutava uno ‘standard’, l’omogeneità, l’allineamento, scegliendo con una certa guasconeria ironica e talvolta sguaiata il salto nel vuoto, secondo un concetto drammaturgico ereditato apparentemente, ma solo in piccola parte in realtà, dagli happening teatrali degli anni Sessanta. Il “ritualismo” ieratico e al contempo irridente e il tribalismo che nutrivano molti fra gli spettacoli dell’Art Ensemble of Chicago appartenevano a un impianto essenzialmente drammaturgico, originato dall’esperienza afro-diasporica e perciò con una(re)interpretazione e una (ri)lettura delle tradizioni africane basate fondamentalmente sulla percezione africano-americana, con tutti i vizi e vezzi del caso e con il rischio di apparire didascaliche o addirittura -con paradossale e involontario “effetto rebound”- esotiche (per citazionismo talvolta esorbitante o fallace) come l’approccio eurocentrico, per quanto da altro versante. Non meno che nel jungle style evocato da Ellington, il riallaccio alla memoria dell’origine africana era mediato dall’esperienza diasporica (ad esempio, nella concezione elastica e ad ampio respiro del tempo e spazio di esecuzione), pur con talune ingenuità e incongruenze derivate dalle rivendicazioni di un afro-nazionalismo che s’identificava -teoricamente e praticamente- con le lotte condotte in Africa contro il colonialismo.

L’atto di teatro musicale che l’Art Ensemble portava in scena era il risultato di una drammaturgia sciamanica, un complesso di gesti teatrali volutamente eterogeneo e dalla imagery abbagliante, che non solo accoglieva una diversità di esperienze musicali e di capacità tecniche ed espressive, ma su diversità e disparità contava per disporre più piani narrativi sia individuali che interconnessi fra di loro, ma non necessariamente armonizzati o resi omogenei: la multidisciplinarietà di ogni performance trovava spesso il filo della propria teatralità nel dislocare i materiali in qualche modo conflittuale, cosicché l’esecuzione non necessariamente portava ad un’univocità di intenti, sia come struttura che come linguaggio: le diverse personalità, non costrette per principio ad amalgamarsi, potevano mantenere e rendere persino manifeste in alcuni casi le proprie individualità contrastanti e le proprie diversità. Il tessuto drammaturgico (delineato anche dai costumi e dal trucco di scena, indispensabile penchant fisico per una tessitura sonora rappresentata anche in modo fortemente corporeo) faceva così da fil rouge unificante fra i molteplici piani narrativi che alternatamente concordavano o collidevano, che iniziavano magari senza concludersi logicamente (non vi era avvertita la necessità di una teleologia) o che improvvisamente si avviavano verso altra direzione senza necessariamente la strategia strutturale indispensabile per i parametri eurocentrici, che si facevano pulviscolari nel connettersi e disconnettersi di frammenti ritmici, tematici o timbrici, o che trovavano una convergenza e una condivisione linguistica nel ricollegarsi alla tradizione africano-americana più popolare e tradizionale: l’Art Ensemble of Chicago non è mai stato nei suoi anni migliori un archivio musicologico o antropologico, la sua forza non è stata nella staticità di un racconto storico ma, all’opposto, nella sua mobilità, è stata nel riallaccio alla spiritualità che riverberava nel ricordo e non alla sua esattezza, nell’illustrazione di più culture e della loro evoluzione, nella rievocazione non folcloristica delle varie manifestazioni di più civiltà africane riversatesi nell’esperienza afro-diasporica, nel modo -sviluppatosi per millenni- di intendere la comunicazione musicale. Non vi era necessariamente “esattezza” nelle esibizioni del gruppo chicagoano, che anzi evitava qualsiasi forma di adesione a modelli storicizzati: nel coniugare afrocentrismo e pan-africanismo vi era invece un’evocazione spirituale volutamente eterogenea di un’eterogeneità, di una molteplicità collegata a un complesso di più civiltà africane vitali, varie e complesse.

Il gruppo, che sembrava portare in scena una propria peculiare versione delle “talking dance” dell’Africa Occidentale, ha rappresentato inoltre un ulteriore momento di una fase di rinascita del teatro a Chicago, dopo una stasi durata qualche decennio: esso potrebbe avere attinto in più fasi alle esperienze di compagnie non solo chicagoane, dal Black Ensemble Theatre al The Negro Ensemble Company, così come potrebbe non essere stato indifferente non solo alle posizioni estetiche e politiche del Black Arts Movement e al teatro partecipativo, cerimoniale e ritualistico di Imamu Amiri Baraka (che pure era critico sull’uso di abbigliamenti africani in scena, reputandolo un atto pleonastico e non determinante per la lotta di liberazione africano-americana), ma alle lezioni afrocentrichedi drammaturghi e intellettuali come (soprattutto) Adrienne Kennedy o Ed Bullins, Kalamu ya Salaam, William Branch, Lonne Elder III: salvo Don Moye, tutti i componenti dell’AEOC appartenevano a una generazione che aveva visto emergere non solo l’afrocentrismo futurista di Sun Ra, ma pure l’affermarsi del teatro africano-americano, grazie al successo nel 1959 di Lorraine Hansberry e di un lavoro quale ”A Raisin in the Sun”. Né si può escludere che il gruppo di Chicago non abbia colto le istanze teatrali di Barbara Ann Teer, Paul Carter Harrison, Joseph A. Walker, Ron Milner, e -ancora meno- quelle marcatamente afrocentriche e pan-africane ideate da Robert Macbeth al New Lafayette Theatre di Harlem dove, infatti, nella stagione 1969/70 furono messi in scena dei “rituali” (rituals) ispirati alla tradizionale spiritualità africana: Ritual To Bind Together and Strengthen Black P eople So That They Can Survive the Long Struggle That Is To Come (1969); To Raise the Dead and Foretell the Future (1970); A Black Time for Black Folk; A Play Without Words (1970).

Art Ensemble of Chicago – Dreaming The Master (Live)

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