// di Gianni Morelenbaum Gualberto //
Il pianista e compositore Aaron Wyanski ci ha già abituati con notevole e arguto senso idiomatico a squisiti, raffinati, efficaci ed estremamente “cool” e logici arrangiamenti per organico “jazzistico” di lavori di Arnold Schoenberg come la “Serenata, op. 25”, i “Drei Klavierstücke, Op. 11” , i “Sechs kleine Klavierstücke, Op. 19”, i Klavierstücke, Op.33 . Ed è veramente notevole come la logica della scrittura “atonale” schoenberghiana, la sofisticazione timbrica e armonica, l’incontenibile richiamo a spunti melodici emergano condividendo la propria esistenza con un’accentazione e un impulso ritmico che appaiono talvolta persino inevitabili. Jeff Lederer, clarinettista e tenorista di vaglia, ha scelto una strada diversa, rivolgendosi a lavori schoenberghiani vocali come “Das Buch der hängenden Gärten, Op.15” (del 1907-1909 su testi di Stefan George) e “Pierrot Lunaire, op. 21” (del 1912, su testi di Albert Giraud, tradotti in tedesco da Otto Erich Hartleben), opere che segnano il passaggio del compositore ad una specifica originalità del suo pensiero musicale.
A lungo gli studi schoenberghiani hanno descritto l’autore come un rivoluzionario sic et simpliciter, che in qualche modo aveva tagliato i ponti con il passato e perciò con la tradizione, per diventare il legislatore di un nuovo mondo musicale. Oggi è naturale percepire l’ancoraggio di Schoenberg ad autori, musicali e letterari, della tradizione austro-germanica, ed è usuale seguire i passi di un percorso che quella stessa tradizione in realtà non ha mai rinnegato. non manca perciò d’interesse notare quanto nelle rielaborazioni di Lederer (con la collaborazione della più che apprezzabile cantante Mary LaRose, che rilegge con notevole senso teatrale lo Sprechstimme, esibendo anche l’influenza, come notato da molti, di Jeanne Lee), legate all’improvvisazione contemporanea ma con un orecchio assai attento a certo retaggio ibridato del passato accademico (che con il jazz ha avuto rapporti proficui), emergano elementi innegabilmente schoeberghiani a livello idiomatico (a parte un’unità armonica che, pur nella diversità, rimane- se non fedele del tutto- estremamente aderente, specie nei valori intervallari, a quella originaria) ma spesso non percepiti da tutti gli ascoltatori: l’influenza di un cabarettismo drammatico e di quella concezione parodistica -contraria all’effusiva affettuosità gemütlich comune a Vienna e a Monaco- che era stata definita dall’Überbrettl berlinese (in cui imperava il melodismo di Oscar Straus e dove aveva lavorato anche Schoenberg come direttore musicale) e anticipata da Yvette Guilbert e Aristide Bruant (così come da Eugenie Buffet, Jules Jouy, Jehan Rictus, Leon Xanrof), in Francia e proseguita da Marya Delvard in Germania; l’appassionato e sensuale materiale melodico dagli accenti lisztiani, wagneriani e soprattutto mahleriani, la cui allusiva ambiguità avrebbe potuto attrarre anche interpreti della “Nakttanz” come la pudica e delicata Olga Desmond o le disinibite Celly de Rheidt e Anita Berber , o la creatrice di ardite pantomime Valeska Gert; un’attenzione peculiare alle possibilità espressive della voce femminile, cui è affidato un ruolo sensuale e per molti versi, nel canto, sovversivo (Schoenberg stesso, nel criticare lo sviluppo del sistema tonale, attribuiva un valore patriarcale a determinate tradizioni e gerarchie).
“Schoenberg on the Beach” (il riferimento non è tanto a “Einstein on the Beach”, quanto alla passione di Schoeberg per il mare e la spiaggia nella sua vita californiana e, più precisamente, alle sue passeggiate a Coney Island nei periodi che trascorreva a New York) esplora con ricchezza di intuizioni un aspetto profondamente lirico della musica di Schoenberg e Webern (quest’ultimo, è risaputo, era stato -fra i tre della cosiddetta Seconda Scuola di Vienna- il più rigoroso nell’applicazione della tecnica seriale, lasciandosi quasi interamente alle spalle il retaggio tardo-Romantico, ma continuando a coltivare a lungo interesse e passione -trasmessigli dal suo primo insegnante, Guido Adler- per le architetture sonore di autori fiamminghi come Josquin de Prez, Pierre de la Rue, Johannes Okeghem, Jacob Obrecht, Heinrich Isaac, che dovevano esercitare una netta influenza sul suo uso di tecniche imitative: la scelta da parte di Lederer di pagine dagli “8 Frühe Lieder”, scritti nei primi anni del Novecento, implica però inevitabilmente un passato post-romantico ancora ben presente). Lo fa senza tradimenti, sberleffi, istinti iconoclastici: da ogni interpretazione (curata da un gruppo di eccellenti musicisti) emerge una bellezza ineffabile che ancora oggi molti, troppi stentano a riconoscere a certi autori. Apprezzabile è soprattutto, oltre alla mise-en-place del lavoro (che si può ascoltare dal vivo: https://www.youtube.com/watch?v=JND_FU9VO0Q o nella incisione: https://www.youtube.com/playlist… ), la capacità di offrire un punto di vista originale attraverso rielaborazioni che evidenziano un manifesto rispetto per gli autori presi in esame.
“On the Beach” from “Schoenberg on the Beach” – Jeff Lederer with Mary LaRose