// di Francesco Cataldo Verrina //
Musicista di estrazione borghese, sin da piccolo Bill Evans fu avviato allo studio del violino, quindi del flauto, ma presto capì di essere tagliato soprattutto per il pianoforte. «Portrait in Jazz» è stato il suo terzo album come leader, dopo «New Jazz Conceptions» del 1956 ed «Everybody Digs Bill Evans» del 1958. «Portrait in Jazz» fu anche il primo LP di Evans in collaborazione con il bassista Scott LaFaro. Entrambi avevano partecipato all’album «Sung Heroes» di Tony Scott registrato nell’ottobre del 1959, ma suonando su tracce separate. Era stato proprio Tony Scott ad introdurre il pianista nel giro newyorchese, affascinato dal quel particolare tocco strumentale, e dalle sue ariose escursioni armoniche.
Proprio in quell’anno Scott LaFaro aveva proposto a Evans di creare un trio stabile con Paul Motian. Il pianista accettò subito e di buon grado. In «Portrait in Jazz», registrato il 28 dicembre del 1959, l’affiatata interazione con Scott LaFaro risulta mercuriale fin dal primo brano. Soprattutto si avverte subito che la loro empatia è fuori dal comune. Il modulo espressivo di Bill, a metà tra il cool e il modal jazz, si mostra calmo e rilassante: «When I Fall In Love» è un perfetto esempio del suo tocco delicato ed signorile. Il ruolo di LaFaro nell’album appare decisivo, non solo in fase di accompagnamento ma anche di suggerimento ed in qualità di centro propulsore di idee come in «Someday My Prince Will Come». Al contrario dei precedenti album di Evans, non vennero scelte tracce adatte al solo pianoforte, ma il trio lavorò in sincrono per tutta la durata del set e ciascuno dei tre attanti ebbe un ruolo decisivo. La collaborazione fra Evans, LaFaro e Motian raggiunse il culmine con le registrazioni del 1961 al Vanguard Village di New York. Il contrabbassista italo-americano sarebbe morto in un incidente d’auto il 6 luglio 1961 all’età di 25 anni. Evans fu così colpito dall’improvvisa morte del bassista che attese a lungo prima di formare un altro trio. Il repertorio di «Portrait in Jazz» si basa essenzialmente sullo stile molto personale di Evans, l’impeccabile accompagnamento del contrabbasso di Scott LaFaro e la batteria quasi spensierata di Paul Motian. Dolci ballate suonate con tocco aristocratico da Evans, non una prorompente energia tipica di un album bebop. Una «forza tranquilla» emerge da «Autumn Leaves» e «What Is This Thing Called Love?», come un piccolo fuoco che riesce a scaldare, alimentato da un flusso continuo di idee, senza essere mai costretti a sentire due volte la stessa frase o il medesimo giro armonico. Oltre agli evergreen sono presenti due originali, «Peri’s Scope», presentato in anteprima e che Evans non registrerà mai più fino al 1967 e «Blue in Green» composto insieme a Miles Davis. Bill registrò per la prima volta quest’ultima traccia nel marzo 1959 con il trombettista in occasione di «Kind of Blue».
Alla Riverside erano stati piuttosto fiduciosi su Bill Evans nella convinzione che il pianista fosse un artista non solo preparato, ma che possedesse anche un forte appeal. Molti suoi colleghi condividevano questa opinione e perfino un numero sempre crescente di critici. L’unica dubbio dei maggiorenti dell’etichetta era: quanto tempo avrebbe impiegato il grande pubblico del jazz a percepirne la bravura ed a rispondere al richiamo evansiano, lasciandosi sedurre dalla magia, dell’inventiva profonda, lirica e non comune del giovane pianista. Alla fine del 1959, quando fu registrato «Portrait in Jazz», la domanda stava iniziando a ricevere una risposta abbastanza chiara e ogni dubbio cominciava ad essere dissipato. Come indicazione, Evans era stato nominato due volte pianista «New Star» nel Critics Poll di Down Beat e catapultato oltre un certo numero di «nomi» già affermati, salendo dal ventesimo posto del 1958 al sesto nel sondaggio del 1959 effettuato fra i lettori della rivista. Altrettanto impressionante fu il rapido successo del trio nel tour del 1960. Fu come se nell’aria aleggiasse un preciso sentimento: quell’aura quasi mistica che segna l’arrivo di un artista messianico che presto tutti avrebbero apprezzato. Qualora persistessero ancora dubbi sulla sua statura o qualsiasi altro ostacolo alla generale accettazione e al riconoscimento di Evans, questo album fornì una sorta di bollino di qualità, divenendo un viatico per le stelle. Il 1960 fu l’anno di Bill Evans, il quale era sempre stato convinto che per poter «cantare», la musica dovesse avere caratteristiche di purezza, coniugando l’espressività con la bellezza della forma.
Molte prove del crescente interesse nei confronti di Evans vanno ricercate già nelle positive reazioni al precedente album, pubblicato sempre dalla Riverside: «Everybody Digs Bill Evans», più o meno «Tutti apprezzano Bill Evans». Guardando indietro, avrebbe potuto essere pretenzioso usare un titolo così stravagante per il disco di un artista allora relativamente sconosciuto. In realtà, il titolo si basava una valida motivazione; la copertina dell’album presentava una serie di lusinghieri commenti pro-Evans da parte di Miles Davis, Cannonball Adderley, Ahmad Jamal e George Shearing, tanto che il diffidente e schivo Bill, forse un po’ imbarazzato per la spavalderia della casa discografica, aveva commentato: «Perché non siete andati anche da mia madre a chiedere una sua testimonianza da usare come citazione?». Alla Riverside c’avevano visto bene: il talento di Evans era riuscito a scongiurare ogni pericolo e non era emersa una sola reazione sfavorevole. Secondo il comune sentire l’affermazione «tutti apprezzano» non era stata del tutto fuori luogo. Come scrisse in una recensione il Kansas City Star: «L’affermazione immodesta è giustificata». Sono molte le affermazioni autorevoli disponibili: «brillante…uno dei pianisti più interessanti da molti anni a questa parte», scriveva Ralph Gleason; «importante… il più inventivo» le parole di Nat Hentoff. Tutto ciò non dovrebbe indurre nessuno a pensare di trovare in questo album un delirio sonoro tale da infiammare le folle. Evans era soprattutto un artista melodico, attento e ricco di sfumature; il suo modo di suonare risultava decisamente calmo e affascinante. Tutte queste doti sono piuttosto evidenti in «Portrait in Jazz».
Come nei precedenti album, Bill fu assai soddisfatto di rielaborare materiale a lui familiare e congeniale al suo progetto. Pur avendo utilizzato una serie di standard, si capisce immediatamente che nulla di più innovativo avrebbe potuto essere ricavato da brani già alquanto sfruttati. Il sonoro tocco di piano, le linee melodiche lunghe ed elastiche, la rara capacità di rendere unica ogni interpretazione e quel modo non comune di suonare forniscono a «Come Rain or Come Shine» e «What Is This Thing Called Love?» un’inedita e affascinante vitalità e ricchezza. C’è anche qualcosa di imprevedibile, come l’interpretazione di un valzer, «Some Day My Prince Will Come», tratto da Biancaneve di Disney; nonché esempi di abilità compositiva come il vivace «Peri’s Scope» e il lunatico «Blue in Green», accreditato congiuntamente a Bill e al suo ex-leader, Miles Davis. La sensazione generale è di estrema fluidità e di una vasta possibilità cromatica, sia a livello armonico che ritmico. La musica di Evans, pur essendo molto calata nelle strutture jazzistiche, sembra sfuggire al jazz e viaggiare verso un altro livello di espressione.
Gli altri membri del trio gli offrono un supporto efficace, affidabile e comprensivo, non sempre limitato all’accompagnamento ritmico convenzionale. Degno di particolare attenzione a questo riguardo è «Autumn Leaves», in cui Evans e Scott LaFaro, con la complicità di Paul Motian, puntano verso un’innovazione basata su una sorta di interplay costante, dove spesso è la retroguardia a suggerire le idee. «Spero che il trio cresca nella direzione dell’improvvisazione simultanea, piuttosto che… uno suona, e l’altro che risponde a sua volta in solitudine». Queste le parole di Evans, «Se il bassista, ad esempio, sente la voglia di rispondere simultaneamente, perché dovrebbe rimanere sullo sfondo?». «Autumn Leaves» è una song in Sol minore. Nell’intro, basso e batteria suonano a tempo dimezzato muovendosi omoritmicamente, con il basso che tocca esclusivamente le toniche degli accordi. È un suono fatto di timbri e dinamiche, seppur all’interno di improvvisazioni sempre chiaramente idiomatiche. «Ho raggiunto il punto», diceva Bill, «in cui di rado ho la percezione dell’effetto fisico di suonare. Penso e basta, e non c’è una trasmissione consapevole dalla mente alle dita». A proposito di Bill Evans, Warren Bernhardt nel 1963 ebbe a dire: «Tutto ciò che suona Bill sembra un distillato di musica. In «How Deep Is The Ocean» non esegue mai la melodia originale, tuttavia il risultato è una sorta di quintessenza. Su «My Foolish Heart» non esegue altro che la melodia, ma è più che sufficiente a farti percepire l’essenza della cosa. Da un punto di vista pianistico, Evans è fantastico. Non sembra mai affannarsi nello sviluppare quanto si è prefissato, sia dal punto di vista tecnico sia da quello armonico. Quando deve affrontare una scelta nell’improvvisazione, non ha bisogno di chiedersi quale rivolto dell’accordo sia il migliore. Già lo sa. Un rivolto specifico avrà effetti diversi in registri diversi, specialmente in posizione stretta come nel suo caso. In tal modo può cambiare sempre la fisionomia dell’accordo a seconda del registro, ed è perfettamente in grado di applicare all’istante il suo pensiero. È come se il collegamento tra il cervello e le dita seguisse una linea diretta».
Bill Evans, nato nel New Jersey nell’agosto del 1929, era un musicista ben istruito (studio privato, Southeastern Louisiana College, Mannes School of Music di New York), la cui variegata esperienza jazzistica comprendeva soprattutto una permanenza nel sestetto di Miles Davis, nel corso del 1958. Il pianista attribuiva a quell’esperienza un elemento determinante che gli aveva fatto accrescere la fiducia in sé stesso; un punto che assume un ulteriore significato quando si considera che, tra i vari collaboratori, Bill Evans era il solo che Miles Davis non aveva «inventato» e modellato a sua immagine e somiglianza. Intensamente autocritico e intransigente Bill lasciò trascorrere due anni tra il primo e il secondo disco, perché sosteneva: «Non avevo niente di particolarmente diverso da dire». Il successo come leader non tardò ad arrivare ed il pianista regalò al mondo il piacere di farsi ascoltare a intervalli più regolari. Scriveva Down Beat: «…se c’è qualche dubbio sul fatto che Evans sia una delle cose più «fresche» degli ultimi anni legate al pianoforte jazz, questo album dovrebbe dissipare ogni perplessità in merito. Il trio è un’unità strettamente integrata. L’interazione fra i tre uomini, meglio illustrata in «Autumn Leaves», è una riuscita conversazione a tre». Nonostante una pressante dipendenza dalle droghe, Evans continuò ad elaborare superbe composizioni e ad esibirsi come solista estremamente virtuoso sino alla scomparsa, riformando l’armonia jazz ed influenzando molti giovani pianisti. Il suo fu un personalissimo microcosmo sonoro, esaltato sotto l’aspetto melodico da una bellezza espressiva non comune.