«Albert Ayler In Greenwich Village», l’inizio della fine di un enigma sonoro, mai del tutto risolto

«Non sentirete mai questa musica in un ascensore o in una sala d’attesa per la semplice ragione che indurrebbe gli uomini d’affari a strapparsi la cravatta, a piangere come bambini, a inginocchiarsi ed a pregare confessando i loro innumerevoli peccati di mediocrità e codardia».
// di Francesco Cataldo Verrina //
Si dice che Albert Ayler suonasse come un bambino felice. In verità l’aggettivo infantile viene spesso associato alla sua musica, al quel dissonante frastuono, espressivamente grezzo e rudimentale, da cui emergono allegre marcette militaresche e reminiscenze di fanfare circensi, che attirano l’ascoltatore in una spirale vischiosa da cui difficilmente riesce a liberarsi. Questo è il free jazz, o sedicente tale, potrebbe dire qualcuno. Albert Ayler era semplicemente un misto di passione, grinta e creatività strampalata, poco ossequiosa delle regole del sistema accordale euro-dotto, portatore sano di un eterno conflitto tra sistema armonico e sviluppo melodico. Una tecnica rudimentale, a metà strada fra un Coltrane su di giri ed un Sonny Rollins senza freni inibitori. Di certo Ayler non ebbe mai la tecnica dei suoi illustri colleghi, ma riuscì a ritagliarsi un posto nella storia, nonostante l’atto conclusivo della sua breve vita finì per essere avvolto in un alone di mistero: il sassofonista di Cleveland scomparve senza lasciare traccia il 5 novembre 1970, per essere rinvenuto cadavere nell’East River di New York una ventina di giorni dopo, esattamente il 25 novembre: aveva 34 anni. La causa del decesso venne imputata ad un presunto suicidio, ma non fu mai del tutto chiarita.
Si parlò di depressione e di desiderio da parte del sassofonista di farla finita. Si racconta che fosse molto preoccupato per il fortissimo esaurimento nervoso del fratello Donald, trombettista e suo braccio destro, ma soprattutto per la mancanza di un vero riscontro commerciale da parte dei suoi dischi, tanto che, gia dal 1967, anch’egli cominciò a manifestare qualche segno di squilibrio. In una lettera a The Cricket, rivista musicale di Newark nel New Jersey, pubblicata da Amiri Baraka e Larry Neal, Ayler raccontò di avere visto «la spada di Gesù e dischi volanti multicolori e di avere udito l’Arcangelo Gabriele». La gavetta era stata lunga, l’ascesa difficile ed il suo periodo di massima espressione creativa concentrato in pochissimi dischi di culto e di interesse storico. Solo quattro anni di intensa attività: già con «The Last Album» del 1969, l’ultimo per la Impulse! Records, la sua carriera era giunta ad un vicolo cieco, cosi come i suoi primi lavori, sette per la precisione, pubblicati prima di «Spiritual Unity», avevano fatto emergere poco e niente del personaggio che gli annali del jazz moderno raccontano, tenendolo troppo a lungo nell’ombra.
In effetti dopo la pubblicazione di «Spiritual Unity», oggi si direbbe un album seminale, registrato con mezzi quasi di fortuna, in tanti si avvidero della presenza di questo fenomeno di non facile catalogazione, il quale cavalcava le istanze dell’ornettismo nel segno dello spiritualismo coltraniano, ribaltandone taluni assunti basilari ed esacerbandone i moduli espressivi: i suoi assoli erano violenti, urticanti, spinosi ed incontrollabili, ma diluiti a tratti da melodie orecchiabili e fanciullesche, tanto che Ayler apparve con un genio incontrollabile, un bambino che si divertiva a smontare il giocattolo del formalismo jazz per poi ricostruirlo in maniera sconclusionata ed attrattiva al contempo, un talento fuori dal comune, idiomaticamente libero da ogni vincolo rispetto a qualunque normativa ritmico-armonica vigente in quegli anni. Per molti ascoltare Ayler era come assistere ad una rivelazione dell’Antico Testamento. Di lui si disse che «suonava con l’ebbrezza ispirata e la furia santificata di un uomo che non solo era stato in cima alla montagna sacra ed aveva visto la Terra Promessa, ma che c’avesse già messo un piede». Metafore belle ed ardite: certe forme di free jazz inducevano i seguaci dei vari sacerdoti (come Ayler) del volo libero a delle autentiche trance ultraterrene. A volte bastava un po’ di fumo in più e qualche allucinogeno.
Di Coltrane si potrebbe pensare, usando un gioco di parole, che non suonasse tanto la musica quanto «suonasse attraverso di essa». Trane veniva totalmente risucchiato da un gorgo fatto di note a spirale che s’involvano in altezza, alle quali egli si abbandonava per raggiungere un eremo spirituale o un punto più elevato che lo legasse alla trascendenza. Una sensazione similare è percepibile perfino nel modo di suonare di Eric Dolphy che, pur essendo a volte più tecnico, sembrava essere costantemente in esplorazione, alla ricerca di quel luogo incontaminato dell’anima dove immergersi in un una lavacro purificatore. Pharoah Sanders rivela la stessa lotta tra il bene ed il male, forze contrastanti che lo spingevano verso le proprie radici africani, mentre demoni irrequieti lo proiettavano in universo parallelo di divinità pagane, ma nell’esecuzione di Albert Ayler si trova l’apoteosi di questo approccio, tanto che il brodo primordiale da cui emergeva il suo squinternato costrutto melodico diventava per il sassofonista dell’Ohio una catarsi rigenerante. Nel periodo 1967-69 Albert Ayler registrò una serie di album per la Impulse! che, partendo da un livello elevato di invenzione e di esecuzione, decaddero gradualmente verso un modulo logoro e ripetitivo. «Ayler Ayler In Greenwich Village» fu il primo della serie, ma anche il più riuscito. L’album contiene quattro lunghe esecuzioni registrate l’8 dicembre del 1966 al Village Vanguard ed è frutto di due differenti set caratterizzati da un forte contrasto tra le semplici melodie infantili e gli intensi assoli dei vari protagonisti: nel primo set il sassofonista è supportato dal violoncellista Joel Friedman, da Alan Silva e Bill Folwell ai bassi e dal batterista Beaver Harris, mentre nel un secondo si avvale del sostegno del fratello Donald alla tromba, del violinista Michel Sampson, Bill Folwell e Henry Grimes ai bassi e Beaver Harris alla batteria.
Rispetto al celebrato «Spiritual Unity», l’ascoltatore esperto, affinato e con capacità di discernimento si trova di fronte ad un Ayler completamente diverso: persino la sua tecnica, che era forma e sostanza di quell’album, qui diventa un elemento di contorno. La sua visione, o per meglio dire visionarietà, diviene più ampia, più calda, meno astratta, più varia, organica e più direttamente connessa all’emotiva; le esplorazioni sono affidate meno al sassofono di Ayler e più spesso all’intero line-up. Secondo i canoni del free jazz dilagante in quei giorni si può affermare senza tema di smentita che «Ayler Ayler In Greenwich Village», come album, sia meno radicale, poco esplorativo, più collegiale e decisamente più spirituale. Va segnalata subito una rara uscita al contralto di Ayler nell’emotiva «For John Coltrane» e nella più virulenta «Change Has Come», che presidiano l’intera facciata A dell’album. «For John Coltrane» apre il set con una soffocante astrazione di tonalità da parte degli archi e degli ottoni. La mossa vincente da parte della Impulse! fu quella di far circondare l’eccentrico Ayler da un gruppo di strumenti a corda, i quali fluttuarono nell’etere come fantasmi. Ne scaturì un tipo di concept free diverso dal solito: esoterico, più lento, sbandato, dissolvente, fissato su un unico tema e complesso nella sua espressione emotiva. In «Change Has Come» l’astrazione rimane, ma il campo espressivo si allarga attraverso un linguaggio più profondo, più denso, più urgente, dove un fenomenale assolo di Ayler inizia a decostruire un tema primitivo e apocalittico con una marcia imperniata su tema distorto che ne diventa la forza rivelatrice. La B-Side si apre con «Truth Is Marching In», quasi una parodia cacofonica delle marching band che lancia un vortice belante dal sapore gospel su uno sfondo di frasi melodiche di tre e quattro note le quali vengono ripetute ostinatamente alla maniera di una giostra che gira senza sosta, prima di sfondare gli argini e lasciarsi andare per quasi tredici minuti. L’arrivo della più lenta e contemplativa «Our Prayer», avvolge il costrutto sonoro quasi in una nube di incoscienza.
Un fervente sostenitore di Ayler ha scritto: «Non sentirete mai questa musica in un ascensore o in una sala d’attesa per la semplice ragione che indurrebbe gli uomini d’affari a strapparsi la cravatta, a piangere come bambini, a inginocchiarsi ed a pregare confessando i loro innumerevoli peccati di mediocrità e codardia». Nel complesso i concerti del Village rivelano l’Ayler più maturo, la cui musica incarnava audaci contraddizioni, un universo utopico e parallelo fascinosamente distorto, frantumato nel caos e punteggiato da assoli selvaggi. Ci sono le melodie dolci, infantili e cantilenanti in contrasto con le urla violente dell’emozione, in lotta con le grida di giubilo del gospel e dell’R&B che si muovono l’uno nell’altro. In fondo, Ayler ricorda vagamente l’action painting astratto di Jackson Pollock o le fotografie frammentate e caotiche, ma idiosincratiche e abilmente composte, di Lee Friedlander degli anni Sessanta e, pur non avendo mai prodotto dischi che abbiano modificato le sorti del jazz moderno, soprattutto per diffusione quantitativa, il sassofonista di Cleveland in un breve lasso di tempo riuscì a santificare un suo modulo espressivo legato al free-jazz, assolutamente inconfondibile e considerato da studiosi ed appassionati uno dei pilastri del genere.

Albert Ayler