WATH'S GOING ON

Marvin Gaye

//Gianni Morelenbaum Gualberto //

Per certi versi, allo stesso modo di artisti come Marvin Gaye o Curtis Mayfield, molti jazzisti riconoscevano l’esistenza di un sistema iniquo, che soggioga gli uomini di colore così come venivano soggiogati gli schiavi, li sfrutta e nega loro la possibilità dell’uguaglianza, dei pari diritti, anche economici. Il concetto, d’altronde, è sempre stato ben chiaro agli intellettuali africano-americani, come fa notare Saidiya Hartman in Scenes of Subjection: Terror, Slavery, and Self-Making in Nineteenth-Century America: Il ʻterribile spettacoloʻ che introdusse Frederick Douglass alla schiavitù fu il pestaggio di sua zia Hester. (…) Collocando questa ʻorribile esibizioneʻ nel primo capitolo della sua “Narrative of the Life of Frederick Douglass” del 1845, Douglass stabilisce la centralità della violenza nella creazione dello schiavo e la identifica come un atto generativo originario equivalente all’affermazione ʻIo sono natoʼ. Il passaggio attraverso il cancello macchiato di sangue è un momento inaugurale nella formazione dello schiavo. In questo senso, è una scena primordiale. Con questo intendo dire che il terribile spettacolo drammatizza l’origine del soggetto e dimostra che essere uno schiavo significa essere sotto il potere brutale e l’autorità di un altro; ciò è confermato dalla collocazione dell’evento nel capitolo di apertura sulla genealogia. Pur privi di una preparazione politica omogenea, alcuni musicisti sceglievano (o s’illudevano) di combattere il sistema dall’interno, non dall’esterno. Piuttosto che aderire, dunque, all’aggressività ribelle del free jazz e delle sue derivazioni, essi optanp per un’estensione dell’accessibilità che, con la sua esplicita adesione ai valori fondamentali del Canone popolare africano-americano, già caratterizzava il suo approccio creativo, ben ricordando, peraltro, che la prima, vera, massiccia incursione nella cultura bianca la tradizione africana-americana non la aveva compiuta con il jazz, bensì con il R&B e la sua influenza esercitata sul rock’n’roll. D’altronde, per quanto possa sembrare semplice, la definizione di cosa possa intendersi per avanguardia all’interno di una tradizione culturale d’origine orale – ricostruita peraltro in un altrove e in condizione di schiavitù, perciò displaced, e basata su di un continuum che ininterrottamente unisce il passato al presente – è fatto complesso. Come scrive Fred Moten (In the Break: The Aesthetics of the Black Radical Tradition): Questa è la politica spaziale dell’avanguardia. Ciò significa che l’avanguardia non è solo un concetto storico-temporale, ma anche spaziale-geografico. Anche in questo caso, Hegel lo avrebbe capito. Vincolo, mobilità e spostamento sono quindi condizioni di possibilità dell’avanguardia. Anche il deterioramento è cruciale per l’avanguardia: come estetica, come effetto del disinvestimento, come condizione psichica: il decadimento della forma e l’ambiente interno ed esterno della produzione estetica rigenerativa: girare, svanire, racchiudere, invaginare. Ma c’è una rimaterializzazione dello spazio-tempo borghese che è anche ciò che è l’avanguardia e dove è. Quest’avanguardia interrompe lo spazio fantasmaticamente solipsistico della produzione e della ricezione estetica borghese con alcuni rumori portati, voci/forze, mobilizzati attraverso ermetismi forzati. E questo funziona con ma anche al di fuori della formulazione di Alain Locke di una modernità migratoria nera; non al di fuori ma aldilà di essa. Attribuire, perciò a taluni tentativi di divulgazione del Canone africano-americano da parte di certi musicisti di colore, solo un (dis)valore di pura operazione commerciale, può essere improprio.

Nella tradizione musicale africano-americana il valore politico non si evolve attraverso gli stessi parametri con cui esso viene letto nelle tradizioni eurocentriche. Non casualmente, figure intellettuali pur diverse come quelle di Marvin Gaye e di Amiri Baraka concordano, ad esempio, nell’attribuire un significato politico rilevante alle canzoni di Martha and the Vandellas (celebre gruppo Motown degli anni Sessanta). Gaye commentava a tal proposito: È buffo, ma tra tutti i gruppi di allora, pensavo che Martha and The Vandellas fossero i più vicini a dire veramente qualcosa. (…) Non era una cosa consapevole, ma quando cantavano brani come “Quicksand” o “Wild one” o “Nowhere to run” o “Dancing in the street” catturavano uno spirito che mi sembrava politico. E mi piaceva. (D. Ritz, Divided soul: the life of Marvin Gaye). Concorda Baraka: «Keep on pushing” degli Impressions o “Dancing in the street” di Martha and The Vandellas (soprattutto in relazione alle rivolte estive, ad esempio “Summer’s here…”) fornivano un nucleo di sentimenti sociali legittimi, anche se principalmente metaforici e allegorici per gli africano-americani. (LeRoi Jones, Black Music). Il parallelo tra jazzisti e Marvin Gaye non è fuori luogo, perché proprio Gaye stabilì un modello di comunicazione particolarmente attraente, significativo e anche politico per gli artisti africano-americani, conciliando volontà divulgativa ed accettazione di determinate regole del sistema, sovvertite dal suo interno. Come fa notare Brian Ward in Just My Soul Responding: Rhythm and Blues, Black Consciousness, and Race Relations (1998): Gaye si chiedeva: “Con il mondo che esplode intorno a me, come posso continuare a cantare canzoni d’amore?”. Alla fine, il tenore dei suoi tempi difficili trovò espressione in “What’s Going On”, un album davvero fondamentale pubblicato nel 1971. Sintetizzando la profonda, anche se idiosincratica, spiritualità di Gaye con la sua preoccupazione sempre più pubblica per la devastazione militare, economica ed ecologica del pianeta, “What’s Going On” mescolava anche una gentile, intima atmosfera jazzistica con i sapori gospel del soul e un po’ di funk a bassa voce. A sovrastare l’intera miscela pastosa c’era la voce morbida e polisemica di Gaye. A prescindere dall’argomento trattato, l’album fu un trionfo di tecnologia e visione musicale. Il brano che dà il titolo all’album è l’inizio di una scena teatrale, con il suo catalogo di problemi che affliggono il mondo. “Inner city blues (Makes me want to holler)” viaggiava verso il cuore delle privazioni dei ghetti; “Save the children” si voltava verso l’esterno per affrontare le possibilità catastrofiche della guerra nucleare. “Flyin’ high (in the friendly sky)” offriva un avvertimento comprensivo, ma comunque salutare, a coloro che cercano di sfuggire ai loro problemi attraverso la droga. Scritta dal punto di vista di uno che aveva percorso quella strada, era una canzone portentosa. (…) Gaye seguì le innovazioni di “What’s Going On” con “You’re the man”, un singolo stridentemente militante che non riuscì a entrare nelle classifiche del pop bianco, nonostante il le quotazioni di Gaye presso il pubblico del rock bianco progressista fossero aumentate notevolmente grazie a “What’s Going On”. Forse questo fallimento rivelò anche i limiti del sostegno dei bianchi liberali alle richieste degli africano-americani. Il globalismo essenzialmente umanistico di “What’s Going On” era accettabile, ma una canzone che nell’anno delle elezioni del 1972 chiedeva un candidato che ponesse fine all’inflazione, curasse la disoccupazione cronica dei ghetti e sostenesse il busing sembrava troppo. D’altra parte, non era nemmeno uno dei migliori momenti musicali di Gaye e la strada delle buone intenzioni è stata spesso lastricata da molti brani scadenti. L’aspetto particolarmente rivelatore, e molto tipico, delle nuove preoccupazioni politiche di Gaye era la sua continua riluttanza a mettere a repentaglio il successo commerciale duramente conquistato per dar loro voce. Riflettendo sul tumulto dei suoi tempi difficili, si era chiesto: “Perché la nostra musica non aveva niente a che fare con tutto questo? La musica non doveva esprimere i sentimenti? No, secondo BG [Berry Gordy], la musica deve vendere. Questo era il suo intendimento. Ed era il mio”. L’opinione di un artista come Herbie Hancock non era, d’altronde, meno esplicita: Capisco cosa s’intenda riguardo a un certo tipo di groove, come se questo fosse il vero R&B, e così via. Ma non sono d’accordo sul fatto che ci sia un solo modo di suonare. Ho fiducia nella forza del contributo dei neri alla musica, e questa forza torna sempre al groove, in ogni caso. Dopo un po’ certe cose vengono eliminate. E la musica ricomincia a evolversi. (…) Non mi disturba affatto il fatto che si senta più rock and roll nei musicisti neri, a meno che non sia semplicemente scadente. L’idea di fare il rock and roll che esce dai Led Zeppelin non mi disturba. Capisco che si tratta di informazioni di terza mano peraltro originate dalla gente nera, ma se a qualcuno piace, si suoni pure.

John Coltrane

Se la cultura del movimento dei diritti civili degli inizi rifletteva le tradizioni rurali e religiose del Sud, le fasi successive, dalla fine degli anni ’60 in poi, si rifacevano alla cultura urbana meno acquiescente nei confronti dei soprusi della società bianca, che il movimento New Negro aveva espresso e rappresentato sin dalla Harlem Renaissance. Scompaiono dalla scena le tute da lavoro e la nozione del “good Negro”, così come i completi e le cravatte dei leader della predicazione con la loro metafora e retorica religiose espressein canti e discorsi. Anche la filosofia non violenta, con il suo moralismo e il suo senso di salvezza attraverso la sofferenza, si presentava in tempi difficili, quando la guerra in Vietnam si stava intensificando e per molti giovani africano-americani la discriminazione razziale sembrava intensificarsi. Nella cultura del movimento del Black Power emersero uno stile e un simbolismo più duri, più severi, dai pugni alzati delle Pantere Nere alla musica aggressiva di James Brown. In gran parte, naturalmente, si trattava di una questione di cambiamento generazionale. Martin Luther King, Jr, il più urbano dei leader del movimento per i diritti civili, era nato nel 1929; Stokely Carmichael eradel 1941: a separarli non era solo l’età. King, come sottolinea James Cone in Black Theology & Black Power, era radicato nella tradizione religiosa africano-americana: Nessuna tradizione o alcun pensatore ha influenzato la prospettiva di King quanto la fede che i neri hanno creato nella loro lotta per la dignità. e la giustizia. (…) Si scopre la fede di King soprattutto nelle sue prediche (…) pronunciate nelle (…) chiese africano-americane e nella pratica delle sue parole durante molte delle sue manifestazioni non violente. Carmichael, e più tardi Rap Brown e le Pantere Nere, provenivano dai ghetti urbani e parlavano un linguaggio urbano e laico. Come nel caso di King, il primo movimento per i diritti civili articolava le proprie radici religiose nella sua prassi cognitiva, ma questa mobilitava anche tradizioni laiche, musicali e politiche. Alla fine degli anni ’60, la prassi integrativa cominciò a dividersi: le caratteristiche del vernacolo di strada, quello che gli attivisti e i leader del movimento consideravano lingua del “popolo”, vennero considerate da molti come specchio ideale della negritudine (blackness) e della sua interiorità (soul); altri cercarono invece di istituzionalizzare gli studi africano-americani come nuova disciplina accademica. Così facendo, il popolare e l’accademico tendevano a separarsi.

Come radici dell’autenticità e dell’identità collettiva, i vernacoli di strada e la vita di strada urbana divennero il terreno su cui si mosse il movimento del Potere Nero. Il linguaggio forniva le strutture fondamentali del sentimento attraverso le quali l’esperienza africano-americana e quindi la cultura africano-americana si esprimevano. Fornì anche lo sfondo sul quale l’esperienza africano-americana poteva essere misurata e giudicata. Si trattava, nei termini di Bourdieu, dell’habitus africano-americano, delle pratiche irriflessive e le cornici categoriali che erano cresciute dalla cultura africano-americana e che al contempo le circoscrivevano. Allontanarsi troppo da questo habitus era diventare bianchi, era perdere il contatto con le proprie radici, da dove tutto era nato. Se si aveva successo nel mondo bianco, era importante essersi formati nel ghetto, per strada, con la gente, e aver camminato «in quel modo» e aver parlato «in quel modo», per dimostrare di essere ancora un africano-americano «dentro», dove e quando contava. Si trattava di interpretare e avvertire la negritudine e le tradizioni africano-americane in un modo molto diverso sia dalla cultura bianca sia da quei “Negroes” che proponevano l’integrazione o la mobilità sociale come risposta ai conflitti razziali degli Stati Uniti: da quella prospettiva, la cultura popolare, o di strada, era qualcosa da superare, una “cultura della povertà” da cui allontanarsi attraverso l’istruzione, l’apprendimento di un inglese corretto, il cambiamento delle maniere e dei modi dall’abbigliamento al colore e alla consistenza dei capelli. La divisione era netta fra chi enfatizzava la separazione e chi l’integrazione, fra chi credeva nella unicità solitaria dell’identità africano-americana e chi nell’universalità di essa. Per gli attivisti del Potere Nero la prassi cognitiva del movimento implicava modificare i parametri attraverso i quali il mondo veniva interpretato e secondo i quali tutto ciò che era bianco appariva superiore e tutto ciò che era africano-americano appariva inferiore. Attraverso la sua azione dimostrativa, dalla musica alle forme più violente di resistenza, il movimento del Black Power cercò di riqualificare l’esperienza africano-americana. Gli africano-americani dovevano voler essere sé stessi, non dovevano emulare i bianchi, dovevano essere orgogliosi del proprio vernacolo, dei propri capelli, del proprio corpo e “do their own thing”. La musica era al centro di questo processo e di questa strategia. Il soul, il funk e, ai giorni nostri, il rap e l’hip hop sono emersi per esprimere queste manifestazioni più variegate della coscienza africano-americana. Trascendendo il mezzo dell’intrattenimento, la musica soul provvedeva a un rituale nel canto con il quale gli africano-americani potevano identificarsi e attraverso il quale potevano trasmettere importanti simboli di gruppo. La musica era Potere ed era considerata estremamente rilevante per “la lunga lotta dei neri per la liberazione”.

James Brown

Il consumo collettivo di soul music è stato collegato a una serie di rappresentazioni simboliche della blackness che venivano definite come “soul style”: meccanismi di autenticazione che si manifestavano in aspetti estetici come l’abbigliamento, l’acconciatura dei capelli, il linguaggio, i passi di danza specifici e certi gesti fisici («soul handshakes»). Il ruolo della musica soul nella lotta per la liberazione dei neri divenne anche il tema di intensi dibattiti tra le varie fazioni del movimento ideologicamente diverse. Seguendo gli insegnamenti di Malcolm X, nazionalisti rivoluzionari, nazionalisti culturali e afrocentristi concordavano sulla necessità di liberare gli africano-americani dai degradanti effetti psicologici del razzismo bianco, ma non erano d’accordo sull’importanza della cultura nera in questa lotta. Come fa notare Matti Steinitz in «Calling out around the world»: how soul music transnationalized the African American freedom struggle in the black power era (1965–1975) dal volume Sonic Politics (Music and Social Movements in the Americas) curato da Olaf Kaltmeier & Wilfried Raussert, Maulana Ron Karengae la sua organizzazione afrocentrica statunitense avevano liquidato la cultura nera americana come svalutata dal contatto con la società bianca e aveva propagandato il ritorno a una cultura africana mitizzata. Fondatore US Organization a Loa Angeles, Karenga aveva insegnato ai suoi seguaci a rifuggire l’assimilazione dei velenosi valori euro-americani e ad abbracciare invece le tradizioni condivise del lontano passato. Aveva ideato e predicato gli Nguzo Saba, sette principî che si supponeva fossero comuni a varie culture africanee che includevano l’unità, l’autodeterminazione, il lavoro e la responsabilità collettivi, l’economia cooperativa, lo scopo, la creatività e la fede. Karenga incoraggiava l’abbigliamento africano e le acconciature naturali, istituì l’educazione linguistica in swahili oltre a istituire la celebrazione di Kwanzaa come alternativa di ispirazione africana al Natale. In questo modo, egli cercava di fornire agli africano-americani gli strumenti per definirsi come popolo con un’eredità comune, separata e uguale all’America bianca. I nazionalisti culturali (come Amiri Baraka, Nikki Giovanni, Haki Madhubuti, Ed Bullins, A. B. Spellman, Sonia Sanchez, Ishmael Reed, Addison Gayle, Jr., Hoyt Fuller, William Walker e AfriCobra) rappresentati dal Black Arts Movement (BAM) avevano inizialmente abbracciato il free jazz come “la più nera delle arti”, alla ricerca di una Black Aesthetic e di autentici elementi africani nella musica africano-americana. Come scriveva Nikki Giovanni, la bellezza caratterizzava gli africano-americani: “I wanta say just gotta say something ‘bout those beautiful, beautiful, beautiful outasight black menwith they afros…” Profondamente scettici nei confronti dell’industria musicale di proprietà dei bianchi e delle forme ibride e commercializzate di musica popolare nera come il soul, gli attivisti del BAM consideravano musicisti d’avanguardia come John Coltrane, Marion Brown, Max Roach, Ornette Coleman e Archie Shepp come eroi della liberazione dei neri dai valori bianchi. Tuttavia, c’era un problema importante: il jazz, che si presumeva rivoluzionario, era consumato principalmente dagli intellettuali bianchi e non aveva un impatto considerevole sulla comunità africano-americana, dove la popolarità della soul music era ineguagliata da qualsiasi altro genere musicale nero. Riconoscendo l’elitarismo del jazz, Amiri Baraka e altri sostenitori del BAM speravano che la musica soul diventasse una voce per la rivoluzione nera. Sebbene gli sforzi dei nazionalisti culturali di arruolare star del soul come supporto rimasero alquanto inefficaci, l’emergere di artisti radicali di spoken word come Gil Scott-Heron, The Last Poets e The Watts Prophets testimoniò l’intervento del BAM nella musica popolare africano-americana.

La scelta di taluni jazzisti di esprimersi attraverso l’ampio ventaglio espressivo della vernacolarità, l’enfasi fisica espressa sia nella spavalderia tecnica che nella postura fisica aggressiva, riflettevano marcatamente una posizione ben più politica che banalmente commerciale. Essa aveva trovato la sua sintesi nel 1968 nelle parole di James Brown: Say It Loud (I’m Black and I’m Proud), che a loro volta echeggiavano Black Power, il discorso tenuto da Stokely Carmichael nell’ottobre del 1966 alla University of California, a Berkeley: I bianchi associano il Potere Nero alla violenza a causa della loro incapacità di affrontare il nero. Se avessimo detto “potere negro” nessuno si sarebbe spaventato. Tutti lo sosterrebbero. Se avessimo detto “potere per le persone di colore”, tutti sarebbero stati d’accordo, ma è la parola “nero” che infastidisce la gente in questo Paese, e questo è un problema loro, non mio. Ed è a questo progressismo africano-americano che era associabile l’idea di virilità che molti musicisti manifestavano nella loro caratteristica fisicità performativa. Erano trascorsi pochi anni dalla pubblicazione dell’influente testo di Norman Mailer The White Negro (1957), in cui si celebrava la superiorità sessuale dei maschi neri, e meno anni ancora (1968) separavano dalla pubblicazione di un discusso testo come Soul on Ice di Eldridge Cleaver, in cui si equiparava la negritudine (blackness) alla virilità eterosessuale, sminuendo così l’omosessualità africana-americana in generale e attaccando la narrativa gay di Giovanni’s Room di James Baldwin, che Cleaver descriveva come un “desiderio di morte razziale”, tipico – a suo dire – di un’omosessualità nera. Nelle parole dello stesso Cleaver: “Molti omosessuali neri, acconsentendo a questo desiderio di morte razziale, sono indignati e frustrati perché nella loro malattia non possono avere un figlio da un uomo bianco. La croce che devono portare è che, già piegandosi e toccando le proprie dita dei piedi per l’uomo bianco, il frutto del loro incrocio non è la piccola prole mezza bianca dei loro sogni, ma il progressivo disfacimento del loro sistema nervoso. anche se raddoppiano gli sforzi e l’assunzione di sperma dell’uomo bianco”. D’altronde, sin dalla schiavitù, il maschio africano-americano era stato largamente privato della sua virilità anche in termini di autorevolezza e autorità sociale e familiare. Per tutto il XVIII e il XIX secolo, gli africano-americani scrissero di questa incessante lotta per la virilità. Le narrazioni abbondano e parlano di uomini neri che tentano di mantenere un certo senso di sé, pur ricordando costantemente la propria servitù. Ad esempio, in Twenty Two Years a Slave, Austin Steward racconta che la lotta più grande che egli e altri come lui avevano dovuto affrontare era stata quella di vedere le loro mogli sfruttate mentre loro erano costretti a sottomettersi senza un mormorio. In realtà, gli africano-americani non potevano permettersi garantire alcuna protezione alle loro mogli e consideravano questa realtà come il più grande degli insulti alla loro virilità.

In un testo come Narrative of the Life and Adventures of Henry Bibb, Bibb racconta che, da bambino, venni frustato; dove avrei dovuto ricevere un’istruzione morale, mentale e religiosa fui invece oggetto di una violenza il cui scopo era quello di degradarmi e tenermi sottomesso. L’esperienza di Bibb non era fuori della norma. Gli schiavisti condividevano il desiderio di “tenere gli uomini di colore al loro posto”: un posto, cioè, di degradazione e vergogna. Uno degli obiettivi della schiavitù, a ben vedere, era quello di distruggere ogni senso di potere o di orgoglio che il maschio africano possedeva, cioè la sua mascolinità, e di tutto veniva fatto per raggiungere tale scopo. Spogliati della virilità e della capacità di ricoprire adeguatamente i ruoli di padre e marito gli africani e i loro discendenti ridotti in schiavitù si ritrovarono con un complesso di inferiorità appena. Eppure non erano soli. Anche i neri liberti dell’inizio del XIX secolo scrissero del loro persistente tentativo di assicurarsi la virilità in una società che lavorava contro i loro sforzi. Questa lotta con l’idea e il raggiungimento della mascolinità emerge come tema principale della narrativa maschile africano-americana del XVIII e XIX secolo. La fine della schiavitù, le leggi cosiddette «Jim Crow» e le pratiche segregazioniste rafforzano un senso di isolamento che negli anni Sessanta -con il Civil Rights Act (1964), il Voting Rights Act (1965), il Fair Housing Act (1968)- s’infrange grazie a una serie di atti d’autocoscienza che tendono a ribaltare e a trasformare stereotipi spregiativi sedimentatisi nella società americana. In larga parte, la sessualità nera era stata ammantata dalla fantasia e dalla paura dei bianchi. Si pensava che le donne africano-americane fossero infoiate e pronte a essere importunate. Degli uomini africano-americani si diceva che avessero grandi desideri sessuali e organi ancora più grandi per realizzare la loro lussuria. Gli uomini bianchi erano ossessionati dall’idea di contenere la minaccia sessuale rappresentata dagli africano-americani. Durante la schiavitù e dopo l’emancipazione, i neri hanno resistito e alcuni di loro si sono anzi abbeverati alle convinzioni malate dei bianchi sulla sessualità degli africano-americani, cercando di soddisfare il mito dell’inestinguibile lussuria nera. La logica non è difficile da capire: «se i bianchi reputano che io sia un fuorilegge sessuale», pensavano, «lo dimostrerò». Altri neri si sono comportati diversamente, disciplinando rigidamente i propri impulsi sessuali per cancellare gli stereotipi di un’eccessiva sessualità nera. Interrompevano il piacere e il profitto dei bianchi, un corpo alla volta. L’orgoglio nero afferma la negritudine come positiva alterità, facendo uso del corpo dell’africano-americano come arma, come oggetto inarrivabile di desiderio da parte dei bianchi. La blaxploitation divulga il modello dell’africano-americano come personaggio cool. In Cool Pose: The Dilemmas of Black Manhood in America, Richard Majors sostiene che l’impulso del maschio nero ad essere “cool” è il suo modo di affrontare il razzismo e la discriminazione senza perdere la propria sanità mentale. Detto in altro modo, la “coolness” è un meccanismo di sopravvivenza che permette agli africano-americani di avere un certo controllo sulle loro vite: Essere cool rinvigorisce una vita che altrimenti sarebbe degradante e vuota. Aiuta il maschio nero a dare un senso alla sua vita e a ottenere ciò che vuole dagli altri. La postura cool porta una vitalità dinamica negli incontri quotidiani del maschio africano-americano, trasformando il mondano in sublime e rendendo spettacolare la routine.

B.B. King

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