// di Guido Michelone //

Come sempre capita in Italia, negli ultimi anni, quando la funzione della critica musicale (come pure letteraria, cinematografica, teatrale, eccetera) sta scomparendo sui quotidiani (e di riflesso persino sulle riviste specializzate) un avvenimento triste come la morte di Françoise Hardy riempie la pagine dei giornali nostra, ma le riempie di banalità. Non si va oltre il facile commento sulla ragazza da hit parade, eludendo ciò che questa interprete, cantautrice e persino romanziera crea a propone nel corso di quasi sessant’anni di ininterrotta carriera. Ed è per queste ragioni che persino una rivista come Doppio jazz – che si apre spesso alle altre sonorità – deve ospitare un intervento su una musicista che flirta solo in minima parte con il jazz, benché il pop da lei lanciato comprenda, nel corso del tempo alcuni riferimenti al rock, al blues, al funk oppure duetti con vocalist prossimi alla jazz song quali Henri Salvador e in parte l’eclettico Serge Gainsbourg.

Occorre partire dall’Otto Agosto 1964: esce il quarto album di Bob Dylan dal titolo Another Side of Bob Dylan, che contiene la poesia For Françoise Hardy at the Seine’s Edge, riportata sul retrocopertina; da allora nei successivi nove anni, sono altri quattro i tributi illustri di altrettanti scrittori o musicisti di caratura internazionale: il poeta Jacques Prévert scrive il testo Une plante verte per la brochure della cantante all’Olympia di Parigi; il romanziere Manuel Vázquez Montalbán compone la poesia Françoise Hardy; l’umorista Paul Guth le rende omaggio in ben dodici pagine nel capitolo Lettera aperta a Françoise Hardy dal libro Lettre ouverte aux idoles; la pop star giapponese Yumi Arai scrive e registra il pezzo Watashi No Françoise (letteralmente la mia Françoise) per l’album Misslim. Ma il tributo forse più iconico resta la foto del 1965 di Jean-Marie Périer che la vede assieme a Mick Jagger, davanti a un muro di mattoni bianco: lei in posa da mannequin, lui sornione ma con lo sguardo felice e voglioso per stare accanto a una diva in quel momento più star di lui medesimo. E che dire delle cover di Tous les garçons et les filles de mon âge da parte di Carla Bruni e Laurent Voulzy o di You Know Me (versione inglese di Voilà) per merito di Robbie Williams?

Ma con la scomparsa di Françoise Hardy, l’11 giugno scorso a Parigi, dove nasce il 17 gennaio 1944, finisce anche un pezzo di storia della musica francese e di canzone popolare, che per circa un decennio riesce a imporsi oltre i confini, conquistando le simpatie dei pubblici europei e soprattutto italiani: lei e altre protagoniste femminili d’Oltralpe – France Gall, Sheila, Marie Lafôret, Chantal Goya, Patricia Carli, Sylvie Vartan – diventano celebri anche per le cover, nella nostra lingua, di canzoni tendenti addirittura a contendere il primato alla cosiddetta British Invasion. Il tutto si palese grosso modo dal 1962, quando trionfa diciottenne con il già citato 45 giri Tous les garçons…, a pochi mesi di distanza da Love Me Do dei Beatles e da Blowin’ in the Wind di Dylan, a contendere il primato alla british invasion dei Fab Four e ai teen idols della produzione leggera italiana, Gianni Morandi e Rita Pavone. All’inizio dei Sixties in occidente le case discografiche stanno infatti puntando al target giovanile, blandendolo con l’invenzione mediatica di protagonisti loro coetanei, senza però la rabbia o l’iconoclastia del precedente rock and roll e senza nemmeno la profondità dei folksinger all’epoca più inclini a rappresentare gli universitari e non gli adolescenti.

Françoise Hardy, dopo un breve trascorso da fotomodella, diventa subito, a Parigi, l’esponente di spicco della nuova variétè, termine indicante il pop di consumo, mentre chansonnier è il versante umoristico e non, come erroneamente si crede, la figura del cantautore denominata invece auteur-compositeur, che, proprio in quegli anni raggiunge l’apice della notorietà cosmopolita. La Hardy diventa presto il volto di una jeune France che riesce ancora a bilanciare le tendenze alternative con le sirene industriali, insomma l’arte con il mercato, la cultura con lo spettacolo, un po’ come succede al pendant della coeva Nouvelle Vague cinematografica: eccetto il ‘rivoluzionario’ Jean-Luc Godard, molti altri registi, da Louis Malle a François Truffaut, da Jean-Pierre Melville a Claude Chabrol, si adeguano al sistema produttivo, spesso aderendo ai generi classici (polar, comédie, noir) pur firmando lungometraggi formalmente ineccepibili.

Fra tutte le cantanti cosiddette yé-yé (dall’urlo yeah dei complessini britannici e statunitensi) come quelle sopracitate, molto note anche in Italia, Françoise risulta la più raffinata, grazie anche al côté triste, malinconico, quasi esistenzialista, che esprime la bella, anzi bellissima fanciulla, insoddisfatta per tutto quanto le sta attorno, dalla situazione politica ai rapporti sentimentali: c’è più che un fondo di verità nelle parole che mette in musica; come rivelerà soltanto nel 2012 con il romanzo autobiografico L’amour fou (tradotto dalle Edizioni Clichy in L’amore folle) vive, nei brevi ma interminabili anni della propria grandeur internazionale, un amore infelice: è innamorata persa, fino a soffrire di acute depressioni, del collega Jacques Dutronc, il quale, nonostante l’immagine pubblica di musicista beat contestatore, in privato manifesta nei confronti della ragazza un atteggiamento vile, maschilista, autoritario da cui lei non riuscirà mai del tutto a riprendersi, nonostante il loro ventennale matrimonio tra il 1967 e il 1988, da cui nascerà nel 1973 Thomas, oggi chitarrista jazz.

La carriera della Hardy – a differenza delle altre cantanti yé-yé prigioniere del loro personaggio e dunque incapaci di rinnovarsi se non abbracciando una banale disco-music (Sheila) o un perenne revival (la Vartan) – prosegue nel segno di una ricerca destinata ad approfondire le turbe adolescenziali in una sorta di femminismo artistico: il repertorio di Françoise, musicalmente basato quasi sempre su ballate e dunque su ritmi slow o mid-tempo, talvolta venati di rock, folk, lounge, si concentra sui testi interpretati con una voce tenue personale che, abbinata all’eleganza, alla magrezza, a un sex appeal parzialmente androgino dalla naturale sensualità, la rendono ovunque piacevole e riconoscibilissima. Le liriche semplici, mai banali, vogliono di proposito elaborare i dubbi e le turbe che si riferiscono alle questioni amorose, spingendo la Hardy a interrogarsi sul passato e sul presente, guardando con nostalgia all’indietro e con ansia al futuro, in atmosfere letterarie spesso tormentate o inquietanti, come accade nella notevole autobiografia Le désespoir des singes… et autres bagatelles (non ancora uscito in italiano). Le soluzioni al problema sono lo studio della psicologia e irrazionalmente l’interesse verso l’astrologia, su cui pubblicherà ben tre libri; ma sono anche continuare a cantare, comporre, incidere dischi, apparire in TV, ai concerti e talvolta al cinema lungo una carriera travagliata, nell’ultimo ventennio, da mali inguaribili.

È però utile riprendere il discorso dagli anni di formazione, quando dopo un’infanzia familiare carica di vicissitudini drammatiche, che la portano a essere tanto complessata quanto romantica: la giovanissima Françoise si rifugia nella lettura e nell’ascolto delle canzonette; sono importanti ricordi musicali radiofonici con i divi della variété emersi dal dopoguerra, ad esempio Georges Guétary, Tino Rossi, Luis Mariano e il grande Charles Trenet. Ma ciò che le cambia la vita, come tanti nati negli anni del conflitto mondiale, è la scoperta del rock and roll grazie a Radio Lussemburgo; la Hardy al proposito ricorda che la ‘scoperta’a vviene tra la fine degli anni Cinquanta e all’inizio dei Sixties: “Mia madre comprò una radio e, girando la manopola, mi imbattei in una stazione inglese che era Radio Luxembourg Anglais, e questo fu decisivo per la mia esistenza perché è lì dove ho scoperto la musica che mi ha toccato oltre ogni altra cosa; e, all’improvviso, quella era l’unica cosa che contava per me”. La futura chanteuse apprezza in particolare Bird Dog e Bye Bye Love degli Everly Brothers, Move It, Livin’ Lovin’ Doll, Travellin’ Light di Cliff Richard, quasi tutto Elvis Presley e soprattutto I’m Sorry di Brenda Lee; a quel tempo, le piace comprare i 45 giri dei propri beniamini in un bel negozio in rue de la Chaussée-d’Antin, di fronte alle Galeries Lafayette, rammentando altresì che le capita di chiedere dischi inglesi o americani che spesso non trova in codesta modaiola boutique: e se ne va con una sorta di orgoglio, dicendo a se stessa che conosce alcune grandi musiche di cui i disquaires francesi ignorano persino l’esistenza. E per festeggiare, sedicenne, gli ottimi voti di un importante traguardo scolastico nel giugno 1960 ecco un desiderio avveratosi: “Ho chiesto una chitarra quando ho superato il mio primo diploma di maturità. Mi è stato domandato cosa volessi come ricompensa, quindi ho voluto una chitarra. E poi, una volta conseguito il secondo diploma di maturità, mi sono presa cura della chitarra che avevo trascurato per un anno (…) e poi ho scritto alcune canzoni”.

Poco aiutata da un metodo dozzinale, cerca di impostare qualche accordo sullo strumento per le sue liriche riguardanti, come detto, soprattutto stati d’animo; e comincia a immaginare una professione che abbia un legame, diretto o indiretto, con l’ambiente musicale. Forse questo sogno inizia a concretizzarsi quando, il 24 febbraio 1961 assiste nel parigino Palais des Sports al primo festival rock internazionale con l’intenzione di ammirare soprattutto Richard Anthony, benché, senza aspettarselo, resta affascinata dalla performance di Johnny Hallyday che risulta il migliore di tutti. Dopo un primo anno di Università dove studia tedesco alla Facoltà di Lettere di Parigi, Françoise nota per caso una pubblicità sul quotidiano «France-Soir», nella rubrica Les Potins de la gossip (letteralmente ‘pettegolezzo’), in cui la compagnia Pathé-Marconi invita a un’audizione a giovani cantanti con la possibilità di registrare un disco. La Hardy ottiene un appuntamento, supera il provino che però rimane senza seguito, ma che la incoraggia a continuare nella consapevolezza che non si tratti di bocciatura. Prima di contattare altre case discografiche, si iscrive al Petit Conservatoire de la chanson, un programma radiotelevisivo – anticipatore dei talent show – concepito e presentato dall’anziana cantante/attrice Mireille: vi rimarrà due anni, imparando molti ‘trucchi’ del mestiere.

Si presenta quindi a Vogue, all’epoca la migliore label francese etichetta (non a caso la stessa di Hallyday) che sta appunto cercando la controparte femminile del rocker. Prima delle vacanze estive, sempre nel 1961, la Hardy effettua un’audizione negli studios di Villetaneuse, dove le consigliano di imparare a tenere il ritmo con il pianista in modo che gli orchestrali possano accompagnarla in sincrono; a tale proposito André Bernot, ingegnere del suono, si offre per impartirle lezioni di teoria musicale, in modo che, dopo le ferie, arrivipreparata alla seconda audizione; infatti, nella sede parigina di Vogue il responsabile Jacques Wolfsohn, ascoltatala per pochi minuti, le chiede subito i recapiti dei genitori per la firma del contratto; si tratta di un episodio che 55 anni dopo, nel 2016, la stessa Françoise ricorda ancora benissimo: “È stata davvero la più grande felicità della mia vita professionale. Mi vedo ancora uscire dal 54 di rue d’Hauteville dove c’erano gli uffici di Vogue ed essere in strada come su una nuvola, e voler baciare tutti quelli che passavano”.

Intanto i corsi seguiti al Petit Conservatoire de la chanson sono oggetto di un programma televisivo settimanale, En attendant notre carrosse sull’unico canale in bianco e nero della RTF: “Mademoiselle Hardy” vi appare il 6 febbraio 1962 con il brano La Fille avec toi (immagini scaricabili dalla rete, come le maggiori apparizioni in video); due mesi dopo completa l’incisione del primo 45 giri con Oh Oh Chéri, brano da lei composto orecchiando taluni motivetti americani, che, poco prima dell’uscita nei negozi di dischi, presenta orgogliosemente a Mireille nella trasmissione del 5 giugno 1962; grazie ad alcuni passaggi radiofonici viene accolto benissimo dai giovani; in tre mesi si vendono duemila copie del singolo: nasce il mito di Françoise Hardy.

Il mito di Francois Hardy è anche mito italiano, se si pensa che tra il 1962 e il 1970 pubblica ben dieci 45 giri e tre album nella nostra lingua, simboleggiando la nuova ‘chatte’ parigina (un po’ come da un lustro Brigitte Bardot nei film) che in fondo attraversa indenne le mode dell’epoca, a differenza di una collega come la Vartan la quale da post adolescente sbarazzina arriva, grazie proprio ad alcuni programmi Rai, vestire i panni della soubrette classica. Françoise resta anche l’ultima grande diva francese internazionale, in ordine cronologico, in un segmento artistico di canzone moderno-contemporanea dove, fin da metà Ottocento, è Parigi a contendere il primato a Napoli e poi a New York e Los Angeles. Sull’effetto delle sonorità statunitensi (musical, song, jazz, blues, country) nel corso del Novecento si sa tutto o quasi, mentre spesso si dimentica che già dalla belle époque le melodie partenopee (O sole mio, Turna a Surriento, eccetera) ottengono visibilità soprattutto in America in almeno tre fasi distinte con tenori (Enrico Caruso), crooner (Dean Martin), rocker (Elvis Presley), questi ultimi contemporaneamente affiancati dalle versioni jazz di C’est si bon e La vie en rose da parte di Louis Armstrong. Canzone francese lungo il XX secolo vuol dire café-chantant dove trionfa Minsinguett (anche prima diva del cinema sonoro) oppure Folies Bergère in cui la giovane afroamericana Joséphine Baker in palcoscenico rompe tabù e pregiudizi, arrivando persino a lavorare per la Resistenza contro il nazifascismo. Con la liberazione saranno le caves (scantinati) come il Tabou sulkla Rive Gauche (Quartier Latin) a ospitare intellettuali-musici come Boris Vian tra jazz, battute e molta chanson.

Ma molto prima ancora significa Montmartre con gli artisti d’avanguardia – dai poeti maledetti e dai pittori impressionisti in avanti – a celebrare la canzone quale rito laico, spregiudicato, gaudente assieme allo chansonnier Aristide Bruant al cui successo contribuisce addirittura il celeberrimo pittore Henri de Toulouse-Lautrec che inventa i manifesti colorati da affiggere lungo i boulevard: risultano altresì i primi moderni poster nella storia della pubblicità e lui è il divo intrattenitore in mezzo a un pubblico eterogeneo, borghese e proletario, colto e arrivista, tra bevitori di assenzio e scatenate disinibite ballerine. Quello che poi verrà definito cabaret, improntato su musica e danza – a differenza del kabarett tedesco più teatrale e letterario – corre in parallelo ad altre musiche talvolta legate al folclore moderno (il valzer musette) talaltra allo swing americano (il jazz manouche) arrivando a influenzare la grande chanson che con l’immensa vocalist Edith Piaf emerge già prima della Seconda Guerra Mondiale, fino a contendere il primato al song americano sempre più presente sul mercato discografico internazionale: musicisti (Joseph Kosma), poeti (Jacques Prevert), auteurs-compositerus (Charles Trebet, Gilbert Bécaud, Cahrles Aznavour e più tardi Leo Ferré, Jacques Brel, George Brassens, Jean Ferrat,) e interpreti quali Yves Montand, Juliette Gréco, Serge Reggiani (apprezzati anche come attori al cinema e a teatro) proseguono l’attività canzonettistica anche oltre un Sessantotto emergono da un lato l’innologia politica (Barbara e Colette Magny) dall’altro una nuovissima generazione sempre più influenzata dal rock angloamericano a sua volta prossimo alle istanze contestatarie. E Françoise Hardy, finita l’era yé-yé, proseguirà, per lungo tempo ancora, nelle vesti della cantautrice sensibile alle novità del pop, del rock, del funk, del crossover.

Françoise Hardy: 12 album 1962-2018

Tous les garçons et les filles (Vogue, 1962)

Françoise Hardy canta per voi in italiano (Vogue, 1963)

Françoise Hardy Sings in English (Vogue, 1966)

Comment te dire adieu (Vogue, 1968)

Message personnel (WEA, 1973)

Entr’acte (WEA, 1974)

Musique saoule (Pathé Marconi, 1978)

Quelqu’un qui s’en va(WEA, 1982)

Tant de belles choses (Virgin Music, 2004)

Parenthèses (Virgin Music, 2006)

L’Amour fou (Virgin Music, 2012)

Personne d’autre (Parlophone, 2018).

Francoise Hardy

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