Gianni Montano

// di Guido Michelone //

Con Gianni ci si vede occasionalmente ai festival piemontesi più o meno una-due volte l’anno da parecchi lustri; non so perché ma mi ricorda un gentleman inglese forse per il modo di fare: gentile, compassato, elegante. Lascio volentieri a lui la presentazione: “Sono nato a Genova nel 1951, risiedo a Genova, ma vivo da qualche anno fra Genova e Parodi Ligure. Ho suonato il clarinetto nella banda musicale di Genova Pontedecimo per più di trent’anni. In banda ho conosciuto Alberto Bazzurro, più giovane di me di 5 anni, a cui ho impartito lezioni di solfeggio. Lui ha suonato principalmente il sax tenore, ma pure l’alto e il baritono occasionalmente. Con Alberto ci siamo ritrovati a Belluno durante il periodo militare. Suonavamo entrambi nella fanfara Cadore. Ho scritto sempre in coppia con Bazzurro (a ridaje) un saggio sul Cool free pubblicato su «Musica jazz» negli anni Ottanta. Dal 2007 ho iniziato a collaborare con il web magazine «Jazzitalia». In seguito sono entrato a far parte dei recensori di «Jazz convention». Attualmente continuo a scrivere sia per «Jazzitalia» che per «Jazz Convention»”. Devo aggiungere, io, che leggo sempre molto volentieri le recensioni di Gianni riguardanti dischi o concerti, perché sono come lui, il gentleman: serie, puntuali, raffinate nello stile di scrittura, nonché sobrie nelle forme e nei contenuti.

D In tre parole chi è Gianni Montano?

R Un insegnante in pensione, grande appassionato di jazz, uno che segue la musica jazz da quando aveva vent’anni (ne ho 73). Negli ultimi dieci anni, in verità, ho coltivato interesse anche per la musica folk . Faccio parte, infatti, della giuria del premio Loano per la musica tradizionale italiana, dal 2019

D Il tuo primo ricordo della musica da bimbo?

R Mio nonno che suona la chitarra in casa, canzoni popolari, magari con testi modificati ad arte per personalizzarli. Mio nonno ha suonato il clarinetto in piccoli complessi di ballo liscio per molti anni, ma, quando l’ho conosciuto io, si limitava ad imbracciare la chitarra o il mandolino, in compagnia di parenti o amici, in particolare durante le feste.

D E il tuo primo ricordo del jazz in assoluto?

R Da bambino ho sentito qualche disco di dixieland abbastanza distrattamente, dei Firehouse five, se non sbaglio, i famosi pompieri, a mio zio piacevano. Il cantante più vicino al jazz che ho sentito a sette, otto anni è stato Little Richard e la sua Lucille, ascoltata in qualche juke box. Lì ho avuto un bell’impatto. Mi facevo dare i gettoni per metterla sul giradischi. Il ricordo più pregnante, invece, successivamente, è stato l’ascolto del Davis di Bitches Brew, di Centipede o della Mahavishnu Orchestra nei primi anni settanta. Qui c’è stata la svolta, dal pop al jazz, da «Ciao 2001» a «Musica jazz» (come rivista).

D E su quali libri e riviste ti sei formato come jazzologo?

R Dal lato jazzistico Il libro del jazz di Joaquim Berendt, Jazz di Arrigo Polillo e Il jazz degli anni settanta di Luca Cerchiari, Gianni Gualberto e altri. Sono questi i primi tre titoli che mi vengono in mente. Ero iscritto a SISMA di Marcello Piras e ho sempre trovato illuminanti i contenuti del Sismografo. Sono abbonato dal 1974 a «Musica jazz». Sono stato abbonato a «Jazzit»per tanti anni, compravo «Blu Jazz» diretto da Mazzoletti finché non ha chiuso bottega. Sono stato e in parte lo sono ancora un fedelissimo dei programmi jazz su Radio3. Ho avuto contatti ripetuti con Pino Saulo (che ho intervistato due volte). Attualmente leggo anche gli altri web magazine come «All About Jazz Italia», «Tracce di Jazz» e, da poco, «Doppio Jazz».

D Possiamo parlare di te come di uno degli inviati onnipresenti ai festival piemontesi? D’estate frequenti altre rassegne?

R Sono presente dal 2011 in poi, regolarmente, all’Open Papyrus Jazz Festival di Ivrea, ho un ottimo rapporto con l’organizzazione, con i musicisti e l’ambiente canavesano. A Ivrea l’accoglienza è un punto forte della rassegna, indubbiamente, oltre che per la programmazione sempre centrata, grazie alle proposte progettuali del direttore artistico Massimo Barbiero, anche ragguardevole musicista, fra l’altro. Seguo regolarmente le serate del festival della musica tradizionale italiana a Loano. Come ho detto in precedenza faccio parte della giuria. Seguo le iniziative della casa della musica di Montaldeo ( Alessandria). Organizzano workshop e concerti con i musicisti ospiti. Due anni fa c’erano Joelle Leandre e i fratelli Bondesan, quest’anno il seminario è tenuto da Ernst Reijseeger. Ho partecipato a diverse edizioni di Vendemmia jazz nell’ ovadese, festival che ormai non si tiene più.. A Genova vado qualche volta a Gezmataz, soprattutto agli appuntamenti pomeridiani. Sono stato, ma si parla almeno di dieci anni fa, al Torino jazz festival per tre edizioni consecutive. Dimenticavo: quando a Genova il museo del jazz era attivo partecipavo alle videoconferenze. Sono stato protagonista di due incontri, prima che chiudesse il museo

D Ha ancora un senso oggi la parola jazz?

R Noi non siamo negli USA dove, a quanto capisco, la parola jazz può essere interpretata in senso dispregiativo. Da noi il jazz è qualcosa di raffinato, di intellettuale. Perciò possiamo usare tranquillamente la parola jazz. Il fatto che si associno musiche diverse a questo termine ci sta. Non mi formalizzerei più di tanto. E’ anche vero che alle rassegne jazzistiche vengono a volte invitati grossi nomi del pop – lontanissimi dal jazz – per avere il sold out. Evito di ripetere quanto si dice nelle discussioni su questo argomento. Mi limito a segnalare quanti festival estivi siano ancora in piedi e in ottima salute, tutti con la bandiera del jazz sventolata in alto, e auspico che l’abbondanza continui con le inevitabili polemiche di contorno associate a programmazioni un po’ troppo “commerciali” – come si diceva una volta – o troppo intellettualistiche (cerebrali), puntate verso il contemporaneo più che verso lo swing….

D E si può parlare di ‘jazz italiano’? Esiste qualcosa di definibile come ‘jazz italiano’?

R Cito quanto afferma Yuri Goloubev nel tuo Il jazz e l’Europa: “Non esiste un jazz olandese, russo o polacco… Esistono olandesi, russi o polacchi che suonano jazz….” Non sono d’accordo su questa affermazione, perché, anche nel realizzare jazz, uno si porta dietro o dentro tutta la musica della sua terra, inevitabilmente. Esiste sicuramente un jazz italiano che ha le sue eccellenze in grandi vecchi come Rava, D’Andrea, o Dino Betti, ma ci sono anche molti musicisti di mezza età o giovani che si difendono bene. Non saprei etichettare il jazz italiano con una definizione precisa. Sono i musicisti italiani che ho citato prima a dare lustro internazionale a questa musica, a definirne i contorni e la specificità.

D Molti ormai gridano alla morte della musica sperimentale: ma come se la passa, secondo te, l’avanguardia che nel jazz si chiama (o chiamava) free o creative music?

R A maggio a Cernusco sul Naviglio la “We Insist!”, casa discografica votata alla ricerca e all’avanguardia, ha organizzato due serate con i suoi musicisti e ha avuto un ottimo riscontro di pubblico. A Torino a fine aprile Roscoe Mitchell, insieme a Michele Rabbia ha riempito il teatro. La rassegna “Angelica” a Bologna continua ad andare avanti senza cedimenti, né concessioni al gusto popolare prevalente. Discograficamente la Clean Feed, prima di tutte, documenta performances notevoli di artisti europei e americani. Insomma esistono i ricercatori ed esiste un pubblico per questo tipo di proposte. Non ci sono dubbi in proposito. Personalmente, però, continuo a preferire i vecchi leoni ai giovani rampanti, se mi passi il paragone. Henry Threadgill e Tim Berne, secondo me, sono ancora punti di riferimento, maestri del genere. Non ci sono confronti possibili con le nuove leve.

D Cosa distingue l’approccio al jazz di americani e afroamericani da noi europei?

R Gli americani e gli afroamericani, in particolare, sono i depositari del verbo del jazz. Partono avvantaggiati rispetto agli europei. Il jazz fa parte del loro DNA. Malgrado questo, il distacco fra americani ed europei è sempre meno evidente. Ci sono, non da oggi, grandi jazzisti europei capaci di stare alla pari o di dare la paga a tanti campioni del jazz Made in USA. I nomi li conosci benissimo anche tu…

D Perché oggi la critica non è più quella seguitissima, a volte polemica o combattiva dei Fayenz, dei Polillo, dei Roncaglia, di Franchini?

R Probabilmente oggi non ci sono più firme con la personalità dei nomi che fai tu. Oppure manca un dibattito serrato sul jazz attuale. Non ci sono i paladini di una sponda e quelli di un’altra. I tradizionalisti e gli innovatori. Si accetta più o meno tutto. Allora c’erano le faide fra chi sosteneva il jazz-rock, la fusion e chi la denigrava, ad esempio. Resta il fatto che, se vado a rileggere quello che scriveva Polillo negli anni Settanta, ancora oggi scopro la libertà e la profondità di un pensiero. Anche se certe posizioni potevano essere discutibili, il modo di esprimere un giudizio, una censura, erano argomentati con una vivacità, una lucidità, un linguaggio, di grado nettamente superiore al giornalista medio-alto di questa epoca.

D Il jazz deve parlare, attraverso i suoni, di temi sociali, politici, ambientali, filosofici? Se sì, quali jazzmen – secondo te – l’han fatto meglio?

R Credo che il jazz non debba obbligatoriamente occuparsi di temi sociali o filosofici. Se qualcuno ritiene di farlo buon per lui. Ogni musicista deve seguire, però, la sua ispirazione. Non ci possono essere costrizioni in questo senso. Riguardo alla seconda parte della domanda, credo che un disco come We Insist! Freedom Now Suite di Max Roach sia un ottimo esempio di jazz impegnato civilmente, visto anche il periodo in cui fu pubblicato. Un altro titolo da ricordare è il brano Fables of Fabus di Charlie Mingus, semplicemente straordinario.

D Il jazz ha un’ideologia? Deve essere ‘impegnato’?

R Nei regimi totalitari il jazz, nel novecento, era proibito. Chi lo suonava rischiava di suo, anche se venivano studiati degli stratagemmi per aggirare la censura. Negli stati democratici il jazz non subiva alcuna discriminazione. Non credo, in sintesi, ci sia un’ideologia dietro il jazz. Ci può essere in chi lo pratica. Di fatto quelli che suonavano jazz nel ventennio producevano una musica con un suo impegno, se non altro perché trasgredivano la legge imperante, i diktat del governo in carica. Negli anni Settanta, invece, spirava un’aria “rivoluzionaria”. Bisognava portare avanti “un certo tipo di discorso”. L’impegno politico era quasi una scorciatoia obbligata per ottenere seguito e ingaggi a determinate rassegne. Uscivano parecchi titoli indirizzati in una certa direzione, ne hai parlato anche tu in un tuo libro. Io apprezzo quanti vivano l’impegno politico come una loro esigenza di vita. Sono dell’idea che negli anni settanta, non solo, qualcuno ci abbia “marciato”. Posso sbagliare…

D Come vive il jazz in Italia anche in rapporto alle tue esperienze sul territorio?

R Il jazz vive bene dove ci sono persone attive, motivate che cercano di organizzare incontri, concerti o rassegne, contando sulla loro fantasia, sul lavoro e sul coinvolgimento dei musicisti. Se ci sono questi fattori si possono fare anche grandi cose, a dispetto di budget risicati. Pensa a come funzionava bene a Tortona “Jazz fuori tema” dell’amico direttore artistico Alberto Bazzurro, ad esempio, che ha chiuso i battenti da anni. A fronte di investimenti plurimilionari, non corrispondono, per contro, risultati artistici sempre di alto livello e non aggiungo altro

D Gianni, siamo quasi alla fine dell’intervista: parliamo ora dei tuoi gusti personali in fatto di sound contemporaneo…

R Cerco di essere aggiornato su tutto quanto frulla nel mondo del jazz attuale. Ho ascoltato dischi e/ o registrazioni di concerti di Irresistible Entaglements, Macaya Mc Craven, Fire!, Kamasi Washington, i nomi alla moda oggi come oggi, ma continuo a preferire Tim Berne, Henry Threadgill o Wadada Leo Smith. Fra i giovani ( ma non giovanissimi) il mio favorito è Steve Lehman.

D E per il jazz italiano?

R In Italia, secondo me, tengono alta la bandiera del jazz, malgrado l’età, Dino Betti Van der Noot, Franco D’Andrea, Claudio Fasoli ed Enrico Rava. Mi piacciono molto Stefano Battaglia e Roberto Ottaviano. Fra i giovani i più interessanti sono Federica Michisanti, Federico Calcagno e i fratelli Bondesan.

D E se invece andassimo indietro nel tempo?

R Penso ai maestri, i nomi da segnare con il classico circoletto rosso (le mie passioni) sono quelli di Lee Konitz, Jimmy Giuffre, Keith Jarrett ( lo metto in questa categoria perché ormai non può più suonare) Miles Davis e John Coltrane.

Gianni Montano

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