«Beyond This Place» di Kenny Barron, il rinnovamento sull’asse della tradizione (Artwork Records, 2024)
L’album è la prova inconfutabile del potere dello spazio. Sia sui componimenti originali che sugli standard i cinque sodali valorizzano l’arte della sottrazione, della pausa creativa e del silenzio in una dimensione che appare talvolta intima e riflessiva, mai però sonnolenta e rilassata.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Fra le dita di Kenny Barron è passato tanto jazz. Il pianista-compositore, figura divenuta iconica, con tredici nomination ai Grammy e l’inserimento nell’American Jazz Hall of Fame, ha suonato sia con gli dei e che con gli uomini del jazz per decenni, sempre saldo al timone di un sofisticato post-bop tutt’altro che tetragono e senza mai esimersi dal reinventare gli evergreen, rimodellare i propri originali o tirare nuove perle di saggezza dal suo cilindro magico. Il recente album «Beyond This Place» è una summa, un ponte fra tradizione ed innovazione fortificato da un line-up trans-generazionale, in cui si distinguono il veterano del vibrafono Steve Nelson e l’astro nascente del sassofono contralto Immanuel Wilkins, apprezzato dal pianista per la sua giovanile temerarietà e perché in grado di suonare certe ballate, che lo stesso Barron considera un crogiolo labirintico per qualsiasi musicista. Dice il pianista: «Credo che il modo di suonare di Immanuel e Steve sia una buona combinazione. Non suonano mai in modo simile. Immanuel può essere focoso ed imprevedibile. Steve è più stabile e avveduto. Immanuel ha 20 anni, Steve è vicino ai 70, quindi c’è una grande differenza. La musica e il modo di suonare sono ovviamente influenzati dalla loro età e dalle loro esperienze (…) Quando si è giovani si vuole suonare sempre tutto. Dizzy una volta mi disse: invecchiando, imparerai che cosa non suonare». Per contro, l’abituale e consolidata retroguardia ritmica composta dal bassista Kiyoshi Kitagawa e dal batterista Johnathan Blake, garantiscono al convoglio di non deragliare mai e di confluire costantemente al nucleo gravitazionale del progetto: i due approfondiscono i dettagli narrativi ed impreziosiscono le mosse di ogni solista, mentre i soffici voicings e l’ambientazione urbana dettata da Barron diventano progressivamente coinvolgenti, così come l’apporto ed il calibrato mallettare del rodato vibrafono di Steve Nelson. Entrambi s’insinuano nelle pieghe profonde delle composizioni, ne catturano l’atmosfera e ne espandono il filo narrativo. I momenti più salienti del disco nascono, però, dall’incontro fra il contralto di Wilkins, 26 anni, ed il piano di Barron, che quest’anno ne compie 81: l’effluvio spigoloso e pungente del sassofonista si mescola alle delicate progressioni accordali del pianista completandone l’idea, penetrando gli strati armonici ed incastrandosi perfettamente nel vibrante apporto di Nelson.
Questo nuovo album è soprattutto la prova inconfutabile del potere dello spazio. Sia sui componimenti originali che sugli standard i cinque sodali valorizzano l’arte della sottrazione, della pausa creativa e del silenzio in una dimensione che appare talvolta intima e riflessiva, mai però sonnolenta e rilassata. Il quintetto apre i battenti del disco con una personale e delicata revisione dell’intramontabile «The Nearness Of You» di Washington e Carmichael, introdotta in modo fluido dal pianoforte e dal sassofono, e successivamente rafforzata dalle rotolanti linee di basso e dalle incisive pennellate del kit percussivo. La combinazione strumentale mette in evidenza la parentela artistica tra Barron e Wilkins, due modernisti lungimiranti con una tecnica impeccabile, rispettosi della storia del jazz, ma non eccessivamente preoccupati di scrutare troppo nello specchietto retrovisore, così la dichiarazione marcatamente soulful di Wilkins aggiunge un’aura di palpabile attualità all’intero costrutto sonoro, mentre Barron con il suo comping sorgivo sembra suggerirgli: «Non avere fretta, prenditi il tuo tempo». Altri due classici campeggiano nella track-list dell’album: «Softly As In A Morning Sunrise», locupletato da un sinergico duetto piano-batteria, in cui Barron decostruisce e ricostruisce la sua narrazione allungando la melodia fino al punto di rottura e «We See» di Monk, adattata e tradotta senza soluzione di continuità nell’idioma più congeniale al duo piano-sax. A parte talune influenze monkiane, dai tasti del piano sembrano emergere progressivamente tutte le influenze di Barron che egli descrive cosi: «La mia più grande influenza pianistica è stata Tommy Flanagan. Quando ero alle scuole medie, mi sono innamorato di lui. E il motivo per cui me ne sono innamorato, prima di tutto, è dovuto al suo tocco leggero e delicato, quindi al modo in cui eseguiva gli assoli e le linee armoniche, nonché il sapiente uso dello spazio. In altre parole, quando suonava raccontava una storia. Non ascoltavi solo un mucchio di note a raffica. Ci sono tante cose che ho imparato da Tommy Flanagan ed Hank Jones, per esempio, come trattare lo spazio tra una nota e l’altra».
Il cuore pulsante dell’album – se preferite il centro emotivo – scaturisce dai cinque originali che abbracciano l’intero arco degli oltre cinquant’anni di carriera del pianista. «Sunset», pubblicato su Muse nel 1973, è contenuto in «Sunset to Dawn» disco d’esordio come band-leader, all’epoca veniva interpretato attraverso i vortici risonanti di un Fender Rhodes, ma qui, nella dimensione acustica, la melodia raggiunge la piena essenza incalzata dal sinuoso groove della mano sinistra di Barron. Al contrario, «Scratch» evidenzia dissonanze vagamente monkish, mentre il quintetto si spinge al limite dell’astrazione distillando un ardente post-bop che, sottolineando le accentuazioni ritmiche, oscilla impulsivamente con disinvolta maestria. Il ritmo è sontuoso, mentre gli assoli sono privi di attrito e ricchi di tensione. L’inflessione latina di «Innocence», brano che dà il titolo ad un album del 1978 registrato con il sassofonista Sonny Fortune, cova ancora in chiave modale minore, ma viene rivitalizzato dall’approccio esuberante di Wilkins e dal contributo dinamico di Blake, mentre «Tragic Magic», un omaggio al defunto Tommy Flanagan, si dipana sul pulsante swing del walking-bass e sulle prodezze del batterista, il quale contribuisce con una sua composizione, «Blues On Stratford Road», calata in un habitat fumoso e rilassato. La title-track, «Beyond This Place« si sostanzia come una ballata di ispirazione gospel che riflette il pianismo raffinato e la sensibilità melodica di Barron, a cui Blake aggiunge una ventata di calore liberandosi al di sopra del tempo convenzionale stabilito dalla partitura. Nel complesso, l’album segna il gradito ritorno di Barron, marcato da stimolanti scambi conversazionali e da un’ottima musicalità d’insieme. Rilevante appare il connubio tra una forma di jazz relativamente classica ed modernità derivativa, quale risultante di un lavoro collettivo e multi-generazionale, proposto però attraverso un linguaggio misurato e mai spinto verso l’impossibile o il sensazionalismo.