Claudio Donà della Caligola Records: «abbiamo ormai più musicisti che pubblico»
// di Guido Michelone //
D Così, a bruciapelo in tre parole chi è Claudio Donà?
R Non so se basteranno tre parole… Un grande appassionato di jazz e di musica in generale, innanzitutto. Ho affrontato il jazz da diversi punti di vista, mai uno alla volta, né meno di due contemporaneamente. Ho organizzato il primo concerto nel 1974 con l’OMCI di Renato Geremia nel liceo dove mi ero diplomato. a Mestre. Poco prima, in estate, ero andato con mio fratello e due amici alla seconda edizione di Umbria Jazz, allora itinerante, rimanendo folgorato da Charles Mingus. Ho quindi cominciato a scrivere per delle testate locali ed a condurre programmi musicali per una radio privata, fino ad arrivare a collaborare nel 1978 con la prestigiosa rivista Musica Jazz, e dal 1980 con il quotidiano Il Gazzettino, allora il più diffuso nel Trivento. Sono stati trent’anni di recensioni e interviste, da giornalista pubblicista, ma senza mai trascurare l’organizzazione di concerti, dal 1983 all’interno dell’associazione Caligola. L’etichetta è nata quindi nel 1994. L’occasione mi è stata offerta da Marcello Tonolo, che mi ha passato una registrazione della Keptorchestra con ospite Steve Lacy, appena rifiutata da Materiali Sonori. Non me la sono lasciata scappare. L’obiettivo era quello di lasciare qualcosa di più duraturo e meno effimero dei pur bellissimi concerti che sino ad allora avevo organizzato. Con l’invito ricevuto nel 2005 da Marco Tamburini ad insegnare Storia del Jazz al Conservatorio di Rovigo, l’attività è addirittura quadruplicata. Ma dal 2010 ho interrotto l’attività giornalistica e da qualche anno sto drasticamente riducendo anche quella di organizzatore di concerti. Rimangono l’etichetta ed il conservatorio, cui sono ancora molto legato. Non tutti sanno però che ho portato avanti le mie passioni senza mai lasciare la mia principale attività lavorativa in un Istituto di Credito, terminata nel 2018 con il raggiungimento dell’agognata pensione.
D E in altre tre parole cos’è Caligola Records?
R Caligola Records – che occupa ormai gran parte della mia giornata – è il modo in cui riesco meglio ad esprimere oggi la mia passione per il jazz. Nata nel 1994 quasi per caso con «Sweet Sixteen», il già citato disco di Keptorchestra con Lacy, l’etichetta è stata fino al 2003 una label di High Tide, società dell’editore Toni Tasinato, che allora distribuiva i cataloghi Enja e Dreyfus. Dopo nove anni e quaranta dischi Caligola è finalmente diventata un’etichetta indipendente, oltre che editore musicale. In trent’anni abbiamo collezionato oltre 350 produzioni discografiche, e nel 2011 abbiamo creato una seconda label, Gutenberg Music, che si occupa di canzone d’autore, blues, rock ed etnica. Qui abbiamo pubblicato, fra gli altri, Max Manfredi, Ustmamo, Djana Sissoko, un reading della poetessa Patrizia Valduga, e siamo riusciti a vincere il Premio Tenco nel 2012 con il cantautore Cristiano Angelini (migliore “opera prima”).
D Ci spieghi ora più diffusamente in cosa consiste il tuo lavoro in ambito jazzistico?
R Come ricordavo prima ho ormai quasi smesso di organizzare concerti. Mi occupo in via quasi esclusiva i Caligola Records. Ricevo settimanalmente proposte di pubblicazioni discografiche da ogni angolo della penisola. Non è mai facile rispondere negativamente a quelle richieste, magari meritevoli, che non riesco a pubblicare. Talvolta, nonostante i margini reddituali siano davvero esigui, Caligola è riuscita ad aiutare dei musicisti a realizzare i loro progetti. È successo con Marco Tamburini, Marcello Tonolo, Claudio Cojaniz, ma anche con Paolo Botti, Cristiano Calcagnile, Baba Sissoko, Rachel Gould e mio fratello Massimo, jazzista oltre che affermato filosofo… Il più delle volte invece mi limito a scegliere fra i molti master che continuo a ricevere, per poi affrontare insieme al musicista ogni aspetto relativo alla pubblicazione del disco, dalla grafica alla sua promozione. Devo confessare che l’attività didattica che continuo a svolgere al Conservatorio di Rovigo mi è stata d’aiuto. Lì ho scoperto, per esempio, talenti come Zoe Pia, Roberto De Nittis, Luca Zennaro e Manuel Caliumi, solo per fare qualche nome, fra i più interessanti jazzisti italiani degli ultimi anni.
D Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?
R Il nonno materno, abruzzese, suonava il basso tuba nella banda municipale di Venezia, che poi il Comune ha deciso di sciogliere. I miei genitori mi portavano spesso, da bambino, ai concerti che la banda teneva ogni domenica mattina in piazza San Marco. Qualche volta mio zio, che lavorava alla Fenice (prima come orchestrale – suonava il controfagotto – poi nella produzione), mi passava i biglietti per assiste alle opere e ai concerti. Lì ho ascoltato Sarah Vaughan, Oscar Peterson, i Giants of Jazz con Gillespie e Monk. Ma c’è stata prima, da adolescente, la scoperta del rock… I Beatles e i Rolling Stones naturalmente, ma anche il soul (Otis Redding, Aretha Franklin), i Cream, John Mayall e Jimi Hendrix. I primi due dischi (45 giri) acquistati con i miei risparmi sono stati 29 Settembre, dell’Equipe 84, e Save Me, dei Trinity con Julie Driscoll (diventata poi signora Tippett). Il primo concerto rock a cui ho assistito risale al 1972: mi accompagnò mio padre, perché non avevo ancora la patente, e mi aspettò tutta la sera fuori dal Bocciodromo di Treviso, dove si esibivano i Jethro Tull di «Aqualung», fra i miei miti di allora.
D Quali sono i motivi che ti hanno spinto a frequentare il mondo del jazz?
R Non ci sono stati dei motivi precisi, né è stata una scelta improvvisa. Si è trattato piuttosto di un progressivo avvicinamento, durato quattro anni, dal 1971 al 1974. Passare dal rock al blues, e quindi al rock–jazz anglosassone (Soft Machine, Nucleus), è stato più semplice del previsto. Subito dopo è venuto il Miles Davis elettrico di «Bitches Brew», ma anche Gato Barbieri e Archie Shepp. Con le prime trasmissioni fatte per una radio libera locale (fenomeno legato agli anni ’70) sono andato quindi alla scoperta delle radici di quei musicisti ed ho iniziato ad approfondire la storia del jazz. Dal 1973 compero abitualmente la rivista Musica Jazz, che fino agli anni ‘90 era l’unico modo per rimanere aggiornati. La sigla della mia prima trasmissione radiofonica è stata The Blues Walk, del quintetto Brown–Roach. Nel 1976 ho iniziato a scrivere.
D Ma cos’è per te il jazz?
R Una musica che unisce tutte le musiche. Una perfetta sintesi di passato, presente e futuro, radicata nella sua tradizione ma allo stesso tempo visionaria come poche altre. Un ponte che unisce culture apparentemente lontane, ma anche, come nessun’altra, le figure del compositore e dell’interprete, grazie all’improvvisazione. Da circa mezzo secolo è la mia grande e principale passione, senza di cui mi sentirei forse meno felice. La musica classica era nella mia famiglia, il rock è stato parte della mia adolescenza: il jazz ha saputo unire in modo mirabile queste due radici in un’unica pianta.
D Hai notato differenze esistenziali tra jazzisti europei e quelli americani lavorandoci gomito a gomito?
R Sì, gli americani, anche i più creativi, sono molto legati alle radici della loro musica, la sentono come parte di una tradizione che parte dal blues ed ancor prima dall’Africa. Riescono ad unire l’attitudine all’arte ed il senso dello spettacolo senza porsi problemi; capisci subito che il jazz è l’essenza della loro vita. Questo unisce i musicisti dell’Art Ensemble of Chicago a Kenny Barron, Ornette Coleman a McCoy Tyner, Anthony Braxton a Dizzy Gillespie. Si sentono tutti parte di una comunità. Gli europei (non tutti, ma in gran parte) hanno un approccio più intellettuale, quello di chi è arrivato al jazz dopo averlo scelto fra le molte musiche possibili… Ci sono naturalmente le eccezioni, che come sempre confermano la regola: Uri Caine nel primo caso, Enrico Rava nel secondo, tanto per fare due esempi…
D Ci racconti qualche episodio curioso che ti è accaduto in tutti i tuoi anni di attività jazzistica?
R Sono troppi e con l’età la memoria comincia a non funzionare più come prima. Più che di episodi curiosi si tratta di alcuni bei ricordi. 1987: il ricostituito quartetto di Ornette Coleman (con Don Cherry, Charlie Haden a Billy Higgins) suona al Teatro Toniolo di Mestre, ed il giorno dopo ha un day off. Il gruppo mi chiede di visitare Venezia. Insieme a loro ed agli amici di Caligola passo un’indimenticabile giornata a zonzo per il centro storico lagunare, in giro “a cicchetti” per osterie, in vaporetto, e poi a bere un caffè nel leggendario Florian di Piazza San Marco. Mi viene in mente poi il concerto dello Standard Trio di Keith Jarrett al Teatro Malibran di Venezia, da settimane tutto esaurito. Era il 2001 e Jarrett era reduce da una delle sue “crisi di affaticamento”, che l’aveva tenuto fermo un paio d’anni. Il primo tempo è durato meno di trenta minuti; è stata una sofferenza, e temevamo che il pianista potesse interrompere da un momento all’altro il concerto e ci trovassimo quindi costretti a rimborsare i biglietti. Ma dopo l’intervallo, come per incantesimo, il pianista si è sciolto, ha preso per le mani il trio con un’energia ed una creatività straordinarie. Il secondo tempo è durato ben più di un’ora. L’aria, in palcoscenico, sembrava elettrica. Alla fine, dopo l’estasi. è arrivata la delusione… Nessun autografo, nemmeno per noi organizzatori, con le scuse del manager. Jarrett è letteralmente scappato via perché sotto c’era un motoscafo che l’aspettava per portarlo all’aeroporto Marco Polo, da dove sarebbe volato con un aereo privato a Nizza, per raggiungere la suite dov’era solito soggiornare durante i suoi tour europei. L’ultimo ricordo risale al 1988 e riguarda Miles Davis, che si esibiva alla Fenice al termine di un lungo e faticosissimo tour europeo (l’avevamo già organizzato una prima volta nel 1986, in terraferma: oltre due ore di musica ed un concerto splendido). Alla Fenice invece, dopo appena un’ora Miles esce dal palcoscenico e la band rimane sola, suona per oltre dieci minuti, aspettando il leader che non rientra più. Poi esce di scena. Il concerto finisce così, con il trombettista chiuso nel camerino, a cercare di mitigare con i massaggi di un fisioterapista dei dolorosissimi crampi alla gamba, proprio quella dell’anca operata due volte.
D Qual è stato finora per te il momento più bello delle tue carriere?
R Non saprei, sono tanti i momenti belli. Ma ne voglio ricordare almeno due. Come critico forse la recensione fatta per Musica Jazz del doppio concerto a Roma di Miles Davis nel 1982, il suo primo tour europeo dopo il rientro. Parlo al telefono con Pino Candini che, sentendomi entusiasta, mi invita a scrivere liberamente un resoconto delle due serate. Il mese dopo trovo la mia recensione a fianco di quella di un collega che, a differenza mia, ha criticato piuttosto aspramente il rientro di Davis. Allora si usava così. Quarant’anni dopo è stata altrettanto grande la soddisfazione di esser riuscito a far pubblicare il libro con Cd «Note sui Sillabari», omaggio a Goffredo Parise di Vitaliano Trevisan, morto purtroppo poco prima che uscisse il libro. Quel lavoro, un melologo – prodotto da Caligola fra il 2007 e il 2009 con lo stesso Trevisan e la Thelonious Monk Big Band che eseguiva musiche di Marcello Tonolo e Stefano Bellon, ha trovato nel 2023 un nuovo allestimento con voce recitante e trio jazz, diretto sempre da Tonolo. Abbiamo fatto sin qui undici rappresentazioni – mai lo avrei sognato un anno fa – fuori dai circuiti teatrali istituzionali e da quelli del jazz. Mi piacerebbe che questo lavoro potesse girare ancora: è un riuscitissimo connubio fra parole e musica, a tratti magico.
D Come vedi la situazione passata e presente della discografia in Italia?
R Guardo con un certo pessimismo sia quella presente che quella futura. La situazione “passata” (i famosi “tempi d’oro” della discografia) purtroppo non l’ho vissuta, se non da ascoltatore ed appassionato. L’etichetta è diventata indipendente forse troppo tardi, nel 2003, quando già iniziava il declino del compact–disc. Oggi i giovani privilegiano lo streaming di singoli brani all’ascolto della musica dal vivo o dell’album completo, che per il jazz rimane fondamentale. C’è sempre meno attenzione da parte dei media, stampa, radio e televisione. Se non fosse per Pino Saulo e Rai Radio Tre oggi il jazz quasi non esisterebbe nei canali pubblici radio-televisivi italiani. Abbiamo ormai più musicisti che pubblico e poi, questo è grave, gran parte dei giovani jazzisti non va ai concerti né ascolta i dischi, nemmeno quelli dei loro maestri. Il ritorno dell’ellepì, che considero un supporto poco “democratico”, non può essere la soluzione. Bisognerebbe riequilibrare, cosa non facile, il rapporto fra produttori–musicisti e piattaforme, che operano in regime di oligopolio. I ricavi aumentano, ma a chi suona e produce musica rimane troppo poco rispetto a quello che viene introitato. Caligola Records senza il lavoro che giornalmente le dedico non riuscirebbe a sopravvivere, ed è un vero peccato, soprattutto in prospettiva, considerata la mia età. Non intravvedo per ora una soluzione; con Adeidj, l’associazione delle etichette indipendenti di jazz cui aderiamo, cerchiamo di porre e di affrontare questi problemi, ma non è semplice. È un compito che spetterà alle nuove generazioni.
D E più in generale della cultura in Italia oggi?
R Anche qui non posso essere ottimista. I media radio-televisivi ed i social non ci aiutano. La critica nei giornali non esiste ormai più, da anni. La rete consente di arrivare oggi a qualsiasi contenuto, ma il problema è avere gli stimoli per andarlo a cercare. Mezzo secolo fa (la nostra generazione ha vissuto davvero un passaggio epocale) ogni nuova scoperta era per noi una conquista. Oggi si può avere tutto con un click, ma proprio per questo nessuno cerca più nulla; è più comodo adagiarsi sul mainstream verso cui spingono i social ed i media. Né la situazione in cui versano l’istruzione e la scuola nel nostro paese può indurre certo all’ottimismo.
D Cosa stai progettando per l’immediato futuro?
R Molti dischi interessanti. Questo per noi è l’anno del trentennale, un anno importante quindi. Fresco della soddisfazione di aver da poco pubblicato uno dei migliori album Caligola degli ultimi anni, «Extended Singularity» (Fulvio Sigurtà, Stefano Onorati, Gabriele Evangelista e Alessandro Paternesi), mi appresto ora a far uscire, sicuramente prima di Natale, un tributo ad uno dei grandi e sottovalutati maestri del jazz italiano, Bruno Tommaso. Bruno ha diretto in studio di registrazione ad Arezzo un largo ensemble ricavato dalla big band di Barga Jazz, festival e primo concorso per arrangiamento in Italia che lui stesso ha contribuito a far nascere. L’album è stato già registrato, si intitolerà «Dagli Appennini alle Madonie» e comprende nove sue composizioni sin qui inedite.