Marcello Piras: la mia idea del jazz è cambiata molto

// di Guido Michelone //
Potremmo definire Marcello Piras oggi quale autorevole studioso, a livello internazionale, delle musiche di discendenza africana nel mondo. Tuttavia, in Italia, per chi ama il jazz viene ancor oggi ricordato per la monografia John Coltrane. Un sax sulle vette e negli abissi dell’io (Stampa Alternativa, 1993), per il pionieristico cd-rom Il jazz. I dischi, i musicisti, gli stili(Editori Riuniti, 1998) e per il volume di analisi Dentro le note. Il jazz al microscopio (Arcana, 2015) che raccoglie i migliori fra le decine di saggi apparsi su enciclopedie e periodici. Fondamentale resta altresì la sua traduzione dei volumi di Gunther Schuller Early Jazz e The Swing Era, nonché l’edizione moderna in lingua spagnola del Gabinetto armonico di Filippo Bonanni. Oltre al lavoro presso il Center for Black Music Research di Chicago, Marcello Piras è stato direttore esecutivo della collana di edizioni critiche Musa (Music of the United States of America) presso la University of Michigan. Attualmente, come spiega egli stesso in quest’intervista esclusiva, vive in Messico, dove si occupa della musica barocca coloniale e lavora a una storia afrocentrica della musica in cui confluiscono i contributi di paleontologia, evoluzionismo, filogenesi dell’encefalo, linguistica comparata e archeologia.
D In tre parole, chi è Marcello Piras?
R Musicologo. Storico. Pioniere.
D Raccontaci in breve la tua attività professionale.
R Non è facile raccontarla in breve perché è lunga. È cominciata mezzo secolo fa preciso. Il mio primo articolo pubblicato a stampa e regolarmente retribuito, una recensione del Perigeo, risale all’8 gennaio 1974; oggi, mentre ti rispondo, è il 6 gennaio 2024. In questo lungo periodo ho fatto tante cose. All’inizio il cronista: scrivevo per varie testate. Quasi subito ho iniziato a insegnare, e in realtà ho sempre avuto la vocazione per l’insegnamento: è la cosa che ho fatto di più, più spesso, più a lungo, forse con più passione. Adesso vivo in Messico e qui scrivo, produco come sempre, ricerco, faccio traduzioni, non solo da e in inglese ma anche da e in spagnolo; e il lavoro di traduttore è uno di quelli che pure faccio con più continuità e anche questo ha una lunga storia; tra l’altro non è limitato al jazz, anzi con il jazz c’entra pochissimo. Molte persone sono sorprese di scoprire che la Società Editrice di Musicologia, quando pubblica ad esempio i mottetti del quattrocentista Franchino Gaffurio con un saggio musicologico di introduzione, lo pubblica con la traduzione inglese del sottoscritto. Ma il fatto è che io ho sempre avuto interessi musicali che vanno molto molto al di là del jazz e anzi, negli ultimi anni, li ho coltivati persino di più. Continuo l’insegnamento in una scuola privata qui a Puebla, in Messico, dove mi sono trasferito nel 2006 e continuo a elaborare le idee che poi man mano vado pubblicando in una bibliografia che ormai è piuttosto voluminosa.
D A che età e come hai scoperto il jazz?
R Non c’è stata nessuna età, il jazz era dentro casa quando sono nato; sia mia madre Anna, sia mio padre Massimo in misura minore, avevano frequentato persone che avevano già interesse per il jazz fin dagli anni Trenta. Sono nato a Roma nel 1957 e a Roma la situazione del jazz è stata particolare, perché prima della guerra se ne faceva molto meno che in altre città d’Italia, come Milano o Torino. È la ragione non è, come molti credono, il regime fascista, ma i Patti Lateranensi. Quando gli americani sono arrivati nel 1944, coloro che avevano coltivato il jazz in maniera più o meno riservata vennero allo scoperto e si formò una sorta di primo nucleo di pionieri della rinascita del jazz a Roma. Tra questi vi erano persone che erano amici di mia madre e di mio zio Marcello, in particolare i due fratelli Peppino D’Intino (batterista della Roman New Orleans Jazz Band) e Rodolfo D’Intino, che era giornalista e ha lavorato per anni alla RAI. Pure amici di famiglia erano altri due fratelli: Riccardo Capasso, che è stato poi per anni giornalista di Paese Sera, dirigente RAI, professore universitario, e Roberto Capasso, che si è occupato e ha scritto di jazz per tantissimo tempo (Roberto, fra l’altro, era il mio avvocato). Queste persone si frequentavano fra loro, avevano dischi, che magari, comprati da uno, finivano a casa di un altro; a casa nostra finirono alcuni 78 giri, qualche long playing, uno di George Shearing e uno di Ziggy Elman: a due anni già ascoltavo jazz. Poi, nel corso dell’infanzia, ho ascoltato soprattutto musica classica, perché a questo mi hanno portato le dispense settimanali dei Fratelli Fabbri Editori che mio padre mi comprava regolarmente e che mi hanno consentito di farmi un’idea – se si vuole – sommaria, da collezionista, ma completa della musica occidentale dal gregoriano fino alle avanguardie. Verso i 12 anni ho riscoperto il jazz e mi sono accorto che lo conoscevo già; e da quel momento me ne sono occupato sempre. A 17 anni non compiuti, come detto, ho scritto il primo articolo.
D Dei lavori (studi e ricerche) da te intrapresi quali ritieni siano i più gratificanti o esemplari per il tuo contributo alla cultura jazzistica?
R In primo luogo considero come molto qualificanti alcuni saggi che con la cultura del jazz hanno a che fare solo tangenzialmente: uno è Cretese sarà lei, quello sull’identità del musico della Grecia antica Mesomede, che è reperibile nel sito academia.edu. Poi ce ne sono due su Scott Joplin, pure reperibili su Internet, ma in lingua inglese. Tengo quindi molto a un saggio che è passato praticamente inosservato – forse perché l’ho scritto in spagnolo – che mette in rapporto Jelly Roll Morton con i suoi antenati musicali a Cuba. Siccome sono tutte aree di indagine che con il jazz non hanno direttamente a che vedere – anche se poi i legami, se uno li va a cercare, li trova – il mondo del jazz ci ha fatto poco caso. Io però mi sento soprattutto rappresentato dal saggio su Mesomede: è quello che dà, secondo me, l’idea più corretta di chi sia Marcello Piras, perché chi mi conosce solo attraverso la feritoia del jazz ne ha una visione inevitabilmente ristretta e distorta.
D Su cosa stai lavorando ora [gennaio 2024] e nei prossimi mesi?
R A tante cose: in primo luogo, come sappiamo, Adriano Mazzoletti ci ha lasciato. Dopo i due volumi della sua storia del jazz in Italia aveva completato il terzo, che era già in fase di lavorazione quando è mancato. Negli ultimi tempi io sono stato in strettissimo – anche se solo telefonico – contatto con Adriano, perché sono riuscito almeno, non dico a finire il lavoro di editing, redazionale, che era stato mio nel primo e secondo volume ed è mio anche nel terzo volume, ma almeno il lavoro redazionale del corpo centrale del testo, cioè appendici escluse. Adesso ho in mano le appendici e ho questa responsabilità sul groppone: far uscire il libro nella forma il più possibile fedele a ciò che Adriano aveva desiderato. Poi sto scrivendo da tempo un libro su Scott Joplin, che ho dovuto fermare a poco dalla fine per dare priorità ad altri lavori, tra cui il libro di Adriano, ma che spero di concludere presto. È un testo fortemente innovativo, sia su Joplin, sia in termini di metodo: ci sono notizie biografiche inedite, scoperte nuove, eccetera. Queste sono soltanto alcune delle attività che sto svolgendo.
D Che idea hai del jazz quale espressione artistica e culturale?
R La mia idea del jazz è cambiata molto nel corso della mia vita: quando ho cominciato ero un principiante, condividevo le opinioni correnti del jazz, quelle che sono tali ancora oggi. Adesso non le condivido più. Mi sono allontanato enormemente dal sentire comune del mondo del jazz. A questo ha contribuito anche l’esperienza in Messico, che d’altra parte avevo preparato con le cose che avevo fatto in Italia, in particolare con l’attività dell’associazione S. I. S. M. A. dal 1992 al 2000 e con il Festival S. I. S. M. A. di Pescara “La musica colta afroamericana” dal 1994. Soprattutto il lavoro del festival è stato preliminare a spingermi verso le mie posizioni attuali e anche a spingermi a trasferirmi in Messico. Sono qui perché qui posso studiare ciò che è avvenuto prima del jazz e che non è la storia che comunemente si crede. Penso quindi che oggi il jazz come espressione artistica e culturale sia molto meno un prodotto degli Stati Uniti di quanto finora si sia creduto. Gli Stati Uniti hanno posto soprattutto limiti al linguaggio del jazz. Credo che sia fondamentalmente un prodotto d’importazione che gli Stati Uniti hanno ricevuto dai Caraibi con un altro nome, con altri ritmi e hanno poi adattato al contesto americano; e questo adattamento è stato, per molti versi, più una limitazione e una censura che non un arricchimento. Ormai considero il jazz come una sorta di corpo estraneo nella storia musicale degli Stati Uniti. La storia musicale degli Stati Uniti è un’altra: in essa il minstrel show di metà Ottocento si ricollega in modo perfettamente logico al rock della seconda metà del Novecento. Il jazz sta nel mezzo ed è come un meteorite piovuto da Marte. Gli americani non lo hanno creato, lo hanno subìto, spesso senza capirlo.
D Con quali modalità anche personali ti rapporti con i tuoi colleghi o con chi comunque lavora al tuo fianco o in contesti similari?
R In realtà mi rapporto poco con i colleghi proprio perché i miei studi mi hanno portato ad allontanarmi dalla visione comune. E poi c’è stato anche un allontanamento fisico: sono in Messico e passo qui nove mesi l’anno, vengo in Italia tre mesi in autunno (di solito settembre, ottobre e novembre), faccio conferenze, poi torno a casa. Io sto bene qui e sono felice qui; l’Italia mi pesa. Quindi ho mantenuto solo pochi legami con persone con le quali i rapporti sono sempre stati buoni, e ho ritenuto valesse la pena continuare a mantenerli. Alcuni sono ex allievi, uno è naturalmente Stefano Zenni, il primo e più importante. Ma ho sempre comunque rapporti ad esempio con Claudio Angeleri a Bergamo, che è una persona con cui mi sono sempre trovato benissimo, e con altri pochi, ben scelti amici. Molte persone care non le ho più viste, per esempio Franco D’Andrea; e sono anni che non sento e non vedo Enrico Pieranunzi: in questo caso si tratta di un’interruzione casuale dovuta a circostanze, le nostre strade non si sono più incrociate, spero di avere occasione di riabbracciarli prima o poi. Per il resto i miei contatti sono più telematici.
D Ritieni che in Italia vi siano spazi interessanti per contribuire alla crescita e allo sviluppo di una vera cultura del jazz e sul jazz?
R Purtroppo no. Se uno spazio dev’essere interessante dal mio punto di vista, dev’essere uno spazio nel quale io possa mettere le mie idee e vederle accettate, o per lo meno trovate stimolanti. Il fatto stesso che abbia interrotto la routine dell’insegnamento in Conservatorio preferendo fare migliaia di chilometri per dare conferenze in giro per l’Italia – che è sicuramente più scomodo – si deve proprio al fatto che ho bisogno come l’aria di dire quello che elaboro mentalmente. Ho bisogno di portare al pubblico le mie ultime idee. Non conosco nessuno spazio preesistente nel quale possa fare questo. In qualche misura, nei limiti dell’orario, posso farlo ad esempio quando Stefano Zenni mi dà occasione di tenere master class al Conservatorio di Bologna. Per il resto è difficile. Preferisco fare conferenze – che a volte hanno poco pubblico – e poter dire la mia, piuttosto che adattarmi a un’organizzazione gestita da altri nella quale poi sarei costretto a stare dentro i limiti altrui. Questo tra l’altro è ciò che mi capitava quando insegnavo a Siena: vi ho insegnato fino al 1998 ed ero riuscito a ritagliarmi un po’ uno spazio nel quale dire le mie cose, ma era comunque uno spazio ristretto, isolato, dove venivano pochissime persone. Alla fine molti discorsi che facevo allora sono diventati finalmente accettati con venti, trent’anni di ritardo e di conseguenza ho patito il fatto di dover costantemente adeguarmi a persone che stavano più indietro di me. È un’esperienza che non voglio più ripetere.
D Come ti rapporti all’oggetto disco anche a livello personale?
R Ho una vasta collezione che sta invecchiando… e che anzitutto ha un’enorme sezione di dischi a 78 giri che risalgono fino agli ultimi anni del XIX secolo. Ho sempre amato i dischi antichi, stanno ancora lì in buon ordine. Trasferendomi a Puebla, ho potuto comprare una casa molto grande con molto spazio. Anche la mia collezione di long playing è sempre lì. Adesso ovviamente utilizzo il digitale: ho scaricato tutto il possibile su mp3 e uso solo quelli pur avendo un impianto hi-fi che al momento non funziona per problemi che sarebbe lungo spiegare. Non sono un fanatico dell’hi-fi, non amo i discorsi sull’hi-fi e in generale i discorsi che trattano la musica tangenzialmente. Se parlo di musica con qualcuno dev’essere un discorso sulla musica e non sul suo impianto.
D Come ultima domanda, forse banale o provocatoria o inutile, ti chiedo un a tua top five o top ten dei jazzmen più amati e, se ti va, dei tre dischi da isola deserta.
R Ho sempre rifiutato questo tipo di classifica anche quando c’era il referendum di Musica Jazz e venivo interpellato… Risposi il primo anno, ma poi dissi a Pino Candini che preferivo non farlo più. E non ho più risposto. La mia concezione della musica è proprio un’altra. Non mi ritrovo in questo tipo di approcci che l’impero dell’anglosfera ha imposto, contribuendo così ad abbassare il livello culturale anziché innalzarlo.
