La sintesi materica e spirituale un sistema compositivo, esecutivo ed improvvisativo figlio del suo tempo per tecnica e tecnologia, ma imbevuto di credenze, movenze e sapienze antiche, quali risorse immarcescibili tese allo sviluppo di una forma et deforma mentis jazz nell’accezione più larga del termine, la quale fa appello al primo modello di espressione umana: il ritmo in tutta la sua potenza comunicazionale.
// di Francesco Cataldo Verrina //
La percezione del suono è un fatto del tutto personale, così nella natura umana diventa un elemento unico ed inequivocabile come le impronte digitali. Potremmo affermare senza tema di smentita, ad esempio, che il jazz e i derivati dai vernacoli africano-americani o ispirati alle culture del Sud del mondo siano «battenti», mentre i generi legati alle musiche euro-colte siano «scivolosi» e che le musiche ritmiche, sincopate e terzomondiste crescano in altezza, a differenza di quelle legate alla tradizione classica che si gonfiano il larghezza. Apparentemente potrebbero essere solo suggestioni e musicologicamente parlando, piuttosto fantasiose. Del resto il nostro motto è: scribitur ad narrandum, non at probandum. Esiste, però, sia una percezione audiotattile della musica che una fruizione cerebrale, laddove il costrutto sonoro intervenga sul quadro emozionale, per contro il coinvolgimento può essere esclusivamente di natura fisica. In tal caso, sin dalle prime battute con un termine moderno e piuttosto sintetico, potremmo definire «M.E.T.E. / Music Enlightens The Earth», edito dall’etichetta Dodicilune, come un disco essenzialmente «groove». C’è, però, molto di più. Il lavoro di Riccardo Di Gianni chitarra acustica o elettrica e sitar, Ludovico d’Apollo contrabbasso o basso fretless e Elias Farina batteria o doundoun si sostanzia come un concept assolutamente originale nella costruzione.
La chitarra è uno strumento duplice: melodico e ritmico-armonico che, in questa sua seconda specifica, è in grado di trasformarsi in uno strumento percussivo al pari del basso, della batteria et similia che costituiscono la cinta muraria dei ogni architettura sonora, nonché l’ultimo avamposto a presidio della quadratura del tempo e dello spazio. Il disco di Farina, Di Gianni e D’Apollo è un lavoro tubolare che batte, ribatte e controbatte con un asset ritmico che spazia dagli angiporti urbani delle metropoli americane fitto di contrafforti funkified, sfiorando le città del Nordeuropa, per poi rifugiarsi nelle poliritmie terzomondiste che guardano verso i quattro punti cardinali dello scibile sonoro. Tra le pieghe delle sei composizioni inedite proposte dal triunvirato, le melodie sono un corollario sovrapposto ad una progressione ritmica e battente insaziabile che divora piacevolmente l’ascoltatore dalla prima all’ultima nota trascinandolo in una spirale implacabile e con una forte induzione al movimento fisico. Si va oltre il concetto di danza o di ballo moderno e consumistico. Il flusso ritmico diventa a tratti una trance sciamanica, esternata attraverso un inedito impianto fusion-jazz, assemblato con una dinamica in divenire, la quale si ciba di elementi a volte afro-centrici ed orientali, altre volte più connessi al rock, ma segnati da una ritualità di forte afflato esecutivo e di impatto fisico, che evoca immagini veloci eseguite con una tecnica di montaggio cinematografico di tipo fast-motion. «La Musica è Arte e come tale offre la possibilità di accedere ad uno spazio immenso nel quale immergersi con i sensi e al di là di essi: i suoni fusi nell’unità dell’opera musicale permettono di abbattere i limiti dell’io, azzerando luoghi e tempo», spiegano i tre musicisti nelle note di copertina. «Perché la Musica è qualcosa di universale e trasversale che trascende le categorie e i generi, supera le barriere e le diversità permettendoci di esistere senza distinzioni. Come artisti abbiamo un compito ben preciso, avere il coraggio di cercare nuove sonorità che espandano l’universo musicale in una sorta di «silenzio liquido» dal quale è possibile percepire un’infinità di suoni».
Le composizioni che costituiscono l’album non disdegnano il sincretismo delle tante «religioni» ritmiche, anzi ne evocano taluni aspetti e sembrano alludere ad una riarticolazione delle stesse con una visione più contemporanea tesa alla ricerca di un nuovo epicentro espressivo: «Saraswati in Bamako» e «Almost 9 beats» ne sono una dimostrazione lampante. Il trio compone e improvvisa, decostruisce, ricostruisce e sintetizza differenti moduli stilistici, dove scale indiane, ritmi africani, jazz, funk e prog si fondono in un unico esperanto sonoro, in cui elementi vernacolari del passato tendono la mano a formule sintattiche contemporanee nella forma, ma non sempre e nella sostanza. Basta analizzare, sia pur fugacemente «At The End Of June», «Charukeshi», «Shivranjani» e «Scarabeo» metodologicamente infarcite di elementi derivanti dai Raga tipici della musica classica indiana, da intendersi quali colori dell’anima o espressione sonora di un’emozione. In questo quadro le rievocazioni di taluni retaggi sembrano indicare un modulo in grado di scandire l’esistenza ed il viver quotidiano più a colpi di cassa e di tamburo o di corde slappate e pizzicate che non di effettistica surrogata e surrettizia, fornendo così fornendo una cornice più equa e reale per potere immaginare un’umanità collettiva, priva di barriere architettoniche e culturali. Il curriculum dei tre attanti sulla scena ed i loro trascorsi professionali parlano chiaro: «M.E.T.E. / Music Enlightens The Earth», registrato il 28 e il 29 gennaio 2023 presso il Maya Music studio di Torino, è la sintesi materica e spirituale un sistema compositivo, esecutivo ed improvvisativo figlio del suo tempo per tecnica e tecnologia, ma imbevuto di credenze, movenze e sapienze antiche, quali risorse immarcescibili tese allo sviluppo di una forma et deforma mentis jazz nell’accezione più larga del termine, la quale fa appello al primo modello di espressione umana: il ritmo in tutta la sua potenza comunicazionale.