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Clifford Brown & Max Roach – «Study In Brown», 1955

// di Francesco Cataldo Verrina //

La figura di Clifford Brown è rimasta molto a lungo nell’ombra, pur avendo esercitato un’enorme influenza sui più importanti trombettisti del suo tempo e non solo. Una breve carriera stroncata anzitempo da una morte prematura ed un’esigua attività lo fecero lentamente scivolare e retrocedere in seconda fila, mentre i riflettori si accendevano su altri protagonisti, collocandolo in una specie di limbo abitato da miti ed eroi dalla sorte avversa e lasciato in sospensione, particolarmente nei tardi anni ’50 e ’60, quando la fiorente fucina bop e post-bop sembrava sfornare talenti a getto continuo. Il nome di Clifford Brown rimase vivo solo nella memoria di certi critici che lo usavano, di tanto in tanto, come metro di paragone e dei tanti appassionati che avevano conosciuto le sue prodezze in tempo reale. È notorio che l’industria discografica tenda a mettere in primo piano sempre l’ultimo nato, il nuovo gioiello di famiglia o il fenomeno emergente, mentre il tempo diventa come aria rarefatta, diradandosi intorno a chi non può più testimoniare in vita la propria presenza sul mercato. Appena le luci ed i riflettori intorno al sacro verbo del bop cominciarono a spegnersi, dagli anni ’70 in avanti, ci fu una sorta di viaggio a ritroso nel tempo ed una rilettura più approfondita di taluni fenomeni. Non che Clifford Brown non fosse mai stato considerato, ma forse non lo era stato abbastanza.

Oggi grazie ad una divulgazione diversificata ed a vari livelli la figura di Brown ha trovato la giusta valorizzazione, merito anche delle numerose pubblicazioni a suo nome immesse sul mercato, sia in CD che in vinile, spesso inediti e raccolte. In svariate pubblicazioni editoriali viene trattato con dovizia di particolati, più come un musicista innovativo, un artista che seppe immaginare il futuro jazz prima di altri e non come un semplice esecutore di talento o la mancata promessa sottratta anzitempo al mondo del bop. Per lungo tempo abbiamo avuto il sentore che la continua commiserazione per una vita spezzata potesse far accantonare l’idea di una meticolosa analisi della produzione del trombettista, la quale ne avrebbe dovuto garantire l’avvaloramento in quanto musicista di pregio, spostando il baricentro della discussione sull’aspetto prevalentemente tecnico e sonoro, rispetto alla reiterata narrazione sulla precarietà dell’esistenza umana. Talune uscite editoriali, nonché il Web, ne hanno amplificato il mito, trasformandolo in un leggendario eroe della grande epopea del bop, la cui vita fu spezzata da un tragico incidente stradale insieme a quella del suo inseparabile amico, il pianista Richie Powell, fratello del più noto Bud. Il primo passo importante, relativo alla ricostruzione del fenomeno sotto il profilo musicale, riguarda le ristampe dei suoi album più rappresentativi, ma è grazie alle varie piattaforme digitali, che la fama del trombettista si è allargata a dismisura presso un pubblico assai più vasto di quello riferibile ai soli appassionati di jazz degli anni ’50. Elementi di spicco nella storia del jazz moderno, da Lee Morgan a Freddie Hubbard, da Donald Byrd a Wynton Marsalis, perfino lo stesso Miles Davis, si sono sempre inchinati davanti all’innato talento di Clifford Brown.

L’incontro ed il sodalizio con Max Roach determinò una prima rivoluzione nell’ambito del bop, che altrimenti sarebbe rimasto incapsulato nel primigenio stile anni ’40. In soli due anni, l’accoppiata Brown-Roach gettò le basi per il futuro sviluppo dell’hard bop e del post-bop. Il quello scorcio di anni Cinquanta, molti appassionati di jazz ed una certa stampa progressista avevano già cominciato ad intravedere un modello evolutivo e non convenzionale nella progettualità dei due sodali, tanto è vero che, nel 1955, mentre i musicisti si preparavano al set, scribacchiando e appuntando su carta qualche idea, stilando e fissando gli accordi da eseguire, prima che i macchinari venissero azionati, il responsabile della Emarcy Records comunicò ai musicisti coinvolti che i dirigenti dell’etichetta avevano deciso di dare il titolo di «A Study in Brown» alla nuova pubblicazione, ossia al prodotto dell’imminente seduta di registrazione in studio; quasi che, da lì in avanti, chiunque avesse inteso misurarsi su un terreno bop non convenzionale, avrebbe dovuto considerare le intuizioni di Brown e Roach, alla medesima stregua di un case study. Così avvenne: l’album, attualmente considerato fra i Top 100 del jazz di ogni epoca, diventò una sorta di prontuario e di indicatore di direzione per tutti i musicisti dell’epoca, fissando i punti programmatici dell’hard bop. I primi a recepire le nuove istanze lanciate del tandem Brown-Roach furono personaggi come Art Blakey, Sonny Rollins e Miles Davis, soprattutto quest’ultimo intravide nella modalità esecutiva del trombettista, fatta di impeto, ma anche di una grazia signorile, una via di fuga dallo stretto cunicolo del bop che lo aveva legato in prima battuta a Charlie Parker e Dizzy Gillespie. Quel tocco aristocratico ed elegante, rifinito al limite della perfezione, che rendeva le note leggibili una per una, appariva anche come un simil-cool a trazione anteriore.

La precoce estrosità di Brown, supportata dalle alchimie percussive di Max Roach, con pochi album gettò le basi su cui poggerà molto del jazz degli anni a venire, anche se molti riconoscimenti non andarono nella giusta direzione: un funerale eccellente con tanto di celebrazioni, commemorazioni a vario titolo e qualche canzone scritta in suo onore sembravano più un voler seppellire sotto un cumulo di lacrimoso nostalgismo la figura di Clifford Brown, piuttosto che tenerla viva ed avvicinarla all’attualità del jazz. Volendo essere pragmatici, con una punta di cinismo, si potrebbe parlare di mors tua, vita mea, sostenendo che la scomparsa di Brown abbia, involontariamente, spianato la strada all’avanzata di altri trombettisti meno dotati di lui, a cui sarebbe toccato un differente destino ed una diversa collocazione nella storia del jazz moderno. Procedendo sempre per paradossi: il miglior tributo a Clifford Brown non è suonare, come molti fanno, «I Remember Clifford». In effetti, non è raro trovare in tanti dischi, specie di esordienti, una rilettura di questa struggente ballata scritta da Benny Golson; meglio sarebbe riprendere una composizione del trombettista ed eseguirla secondo le indicazioni insite nella struttura stessa del brano. Suonare «I Remember Clifford», per quanto pregevole possa essere la rimembranza, diventa come recitare una preghiera senza conoscere il santo a cui è dedicata. «I Remember Clifford» fu scritta anche sotto forma di canzone con tanto di testo, di cui un frammento potrebbe essere la migliore chiave di lettura: «So somebody tell me how / How can we ever day for certain /Someone that played / Like Clifford Brown could play…», dove il senso di queste parole può essere sintetizzato in un dubbio non ancora del completamente fugato a distanza di oltre sessant’anni, ossia avremo mai la certezza che qualcuno potrà suonare come Clifford Brown avrebbe suonato? Fu grazie all’incontro con Max Roach, che la personalità artistica di Clifford Brown emergerà il tutta la sua adamantina lucentezza creativa ed espressiva.

Sin dalla sua prima apparizione ufficiale nel 1940, ancorché sedicenne, durante alcune serate con l’orchestra di Duke Ellington, Max Roach rappresenta una delle icone del jazz moderno per antonomasia, entrando di diritto nel Pantheon di quelle divinità elette che si ergono sulla moltitudine, nonché membro onorario della ristretta congregazione di artisti che hanno cambiato il corso degli eventi nell’ambito del bebop, partecipando a dischi ed eventi epocali e dettando le nuove regole d’ingaggio ai coevi ed ai succedanei. Max Roach è stato una sorta di mutante genetico, caratterizzato da un perenne mutatis mutandis. È difficile immaginare Max Roach come un semplice batterista, avulso da ogni implicazione politica e dalla forza del pensiero che ne hanno sempre determinato e condizionato il cammino, imprimendo alle parole ed a certe prese di posizione la stessa energia propulsiva dei suoi rullanti e dei suoi scroscianti assoli. La poliritmia di Roach non si fermava alla sola batteria, ma l’atto percussivo multi-pattern si sviluppava attraverso un flusso di idee progressive costantemente proiettate in avanti.

L’idea di musica progressiva in perenne divenire appare ben chiara nelle sue parole, da cui emergono dei convincimenti, che potrebbero tornare assai istruttivi ed utili a quanti, accecati dall’euro-centrismo, non hanno mai concepito la musica afro-americana come un unicum evolutivo, dove tutto si lega, tutto muta con un meccanismo che non distrugge, ma si trasforma, assumendo le sembianze di una nuova creatività. Una possibile visione della sua idea di jazz è riassunta in ciò che Max Roach replicò a quanti osarono rimproverarlo (lui che aveva suonato con Charlie Parker), di aver lavorato in duo con musicisti come Anthony Braxton. Il batterista non tardò a far sentire la sua voce squillante: «Una persona come Anthony Braxton è più simile a Parker di una che suoni come Charlie Parker. Bird era creativo e differente, e guardava in sé stesso, cercando le motivazioni del proprio agire. Sapeva quanto Hodges, Benny Carter e tutti gli altri avessero fatto. Quelle erano le fondamenta, e Bird costruì su quelle. Oggi ci sono alcuni come Phil Woods che preservano la tradizione, e poi ci sono quelli che spingono più oltre, che perpetuano il continuum cercandovi cose. Cecil Taylor è più simile ad Art Tatum di uno che suoni come Tatum. Magari non sempre tutto questo viene fuori, ma significa creatività».

L’album «Study in Brown» si apre con la classica «Cherokee», titolo riferito ad una grande tribù di nativi nordamericani. Già nell’intro emerge un’insolita particolarità: Max Roach batte cassa e rullanti in modo da simulare una scena ambientata in villaggio indiano, creando un suono quasi tribale, seguito sulla stessa lunghezza d’onda da Powell, Land e Brown, ovvero pianoforte, sassofono e tromba, che forniscono il punto d’attacco. Dopo un breve innesto di sassofono da parte di Harold Land, Brown distilla un assolo a velocità disumana, con note perfettamente eseguite e ben articolate. Powell fa un’apparizione quasi fulminea, per lasciare spazio ad un sostanzioso assolo di batteria di Roach. Da più parti si è propensi a sostenere che tale versione di «Cherokee», sia il miglior adattamento mai realizzato per questo standard. A seguire «Jacqui», una riuscitissima composizione di Richie Powell dalla struttura aperta, che permette a tutti i sodali di avere un momento di gloria. L’assolo di Brown, a velocità contenuta, è un esercizio millimetrico, fluido ed articolato, mentre Harold Land tenta di innestare nel parenchima sonoro qualche sprazzo di genialità non contemplata dalla partitura, dal canto suo Roach si muove in larghezza con una progressione ritmica assai espansa. L’autore del pezzo, Richie Powell si prende il lusso di inserire nel tema delle variazioni melodiche estemporanee, mentre il contrabbassista George Morrow fornisce un ottimo drive con un movimento arcuato. «Swingin» si sostanzia come la traccia più tradizionale dell’album suonata all’unisono da Land e Brown e caratterizzata da una forte coralità sostenuta dal potente martellamento di Roach.

«Land’s End», composizione di Harlod Land, mostra un approccio blues venato di soul. Dopo un regolare passaggio di pianoforte accompagnato dal basso di Morrow, Brown irrompe con un dinoccolato fraseggio di tromba, seguito dal sassofono di Land, che si libera in un brillante assolo, quindi i due procedono all’unisono con Roach che delimita il perimetro dalla retroguardia a colpi di bacchetta magica. «George’s Dilemma», a firma Clifford Brown, è uno dei pezzi più innovativi della storia dell’hard bop, vuoi per la complessità degli arrangiamenti, vuoi per la varietà di idee che mette in campo. Max Roach lo descrive «come una storia d’amore tra ritmi afro-cubani e jazz». La struttura ricorda «A Night In Tunisia», sia nella melodia che nella componente armonica. Dopo un intro di percussioni, accompagnate dal basso usato da Morrow con colpi secchi alla stregua di un tamburo, l’assolo di Brown squarcia le onde sonore con una progressione da manuale, mentre Land cerca di clonarne il movimento sviluppando un’atmosfera itinerante verso mondi esotici e lontani. «George’s Dilemma» esemplifica e traccia un nuovo modulo compositivo ed improvvisativo nell’ambito dell’hard bop. «Sandu» è un componimento di Clifford Brown dall’aria scanzonata, in cui spicca il lavoro percussivo di Max Roach, accompagnato da un ritmo di basso caldo e profondo fornito da Morrow. «Gerkin For Perkin» è un breve componimento dalla struttura blues che non supera i tre minuti, mentre sullo standard «If I Love Again» viene effettuato un ottimo lavoro di make-up ringiovanente. L’album si conclude con «Take the “A” Train», dove Powell e Roach simulano, con i rispettivi strumenti, il suono di un treno metropolitano che attraversa Manhattan, caratterizzato da un preambolo rock-progressive. «A Study in Brown» si caratterizza come un contenitore esemplare di risorse armoniche e schemi ritmici, tanto da essere diventato un dei punti di riferimento accademici dell’hard bop di tutti i tempi.

Clifford Brown

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