Mirko Onofrio Large Jazz Ensemble con «Leon In Jazz», l’opera lirica come fertile humus del jazz
//di Francesco Cataldo Verrina //
Ci siamo sempre chiesti perché da parte dei jazzisti italiani, nell’arco di cent’anni di storia, non sia stato mai definito e creato una sorta di ItalianSongBook, un piccolo libro dei sogni (non facile da circoscrivere data l’enormità del giacimento melodico del nostro paese) a cui attingere per poter adattare alle dinamiche del jazz i classici della canzone popolare italiana, napoletana o del bel canto. A mio avviso esistono due ordini di problemi o di remore: in primi, è stato sempre più facile per chicchessia seguire pedissequamente le orme e gli schemi tracciati dai jazzisti americani ed afro-americani che, nel corso dei decenni e durante tutte le fasi evolutive del jazz, hanno fatto incetta del repertorio di Gershwin, Porter, Kern e molti altri, al massimo qualcuno si è spinto verso taluni evergreen della tradizione francese o ispanica; in seconda istanza, esiste un’idea tutta italiana, secondo cui certe forme espressive debbano essere tenute separate, senza invasioni di campo e su differenti piani d’importanza relativa. Gli ambienti eurocolti, tranne rare eccezioni, hanno guardato per lungo tempo con diffidenza al jazz, al suo linguaggio diretto, talvolta fisico, crudo, anti-sentimentale, grezzo e poco ligio alla regolarità sintattica; così come molti jazzisti hanno considerato la popular-song italica come qualcosa di troppo semplice, fortemente autoctona e troppo radicata nel folklore locale.
Prima di entrare nel merito del progetto di Mirko Onofrio Large Jazz Ensemble, ritengo che sia importante fare alcune riflessioni. Va da sé che qualunque composizione possa essere adattata al vernacolo jazzistico attraverso opportune variazioni ritmico-armoniche e tramite l’uso di strumenti in grado di conferire talune accentazioni al parenchima sonoro. Sono convinto, altresì, che se i jazzisti italiani avessero, sin dall’inizio, scrutato tra le pieghe del nostro centenario patrimonio musicale avrebbero tracciato una «via al jazz» (terza o quarta) del tutto originale ed autonoma. Si dice che nel jazz non sia tanto importante che cosa si suoni, ma come si suona. Nel corso delle varie stagioni evolutive abbiamo sentito composizioni jazz in tempi pari, tempi dispari, che riecheggiavano melodie ispaniche, balcaniche, africane, greche, scandinave, orientali. A questo punto la domanda sorge spontanea: perché non italiane? Negli ultimi anni tanti tabù accademici sono caduti, la rigidità conservatoriale anche da noi ha iniziato a cedere al principio dei vasi comunicanti fra stilemi musicali. Ci sono tanti jazzisti in Italia che si fregiano spesso dell’etichetta di jazz mediterraneo, ma in realtà non si capisce che cosa sia di preciso, se non l’anticamera di produzioni prive di vis compositiva, sovente infarcite di melodie melliflue dal sapore antico. Un’altra annosa e reiterata mania di tanti jazzisti nostrani è il «brasilismo», ossia il ritenere che un certo repertorio legato al samba o alla bossa nova sia più adattabile al jazz o migliore, ad esempio, di molti classici della canzone italiana, dell’operetta o della tradizione napoletana, ignorando completamente l’opera lirica, la musica barocca, perfino i canti gregoriani (un perfetto esempio di modale ante-litteram) É pur vero che oggi il termine jazz viene utilizzato per descrivere forme surreali di ibridazione, lontane dalla normative della musica improvvisata americana ed africano-americana. Si parla parecchio di diaspore umane da un continente all’altro, le quali determinerebbero, contaminazioni, mescolanze e fenomeni d’inculturazione tout-court: si pensi a quanto accade in Inghilterra dove la scena, sedicente jazz, è dominata da un meticciato sonoro fatto di reggae, hip-hop e ritmi nigeriani. Sono convinto però che le nuove frontiere jazzistiche o para-jazzistiche del terzo millennio, dopo che una certa scuola di pensiero ha tentato di affogarle nelle melmose acque di sonorità scandinavo-germaniche, quasi da sala d’attesa, evirate completamente degli attributi swing e blues, non debbano essere solo il terzomondismo, le diaspore balcaniche o il tropicalismo da «Pedro me cala la palpebra».
Cantava Lucio Dalla: «Potenza della lirica, dove ogni dramma è un falso, che con un po’ di trucco e con la mimica, puoi diventare un altro». Lucio Dalla, oltremodo, nasceva come jazzista, era un discreto clarinettista e maestro nello scat che esternava come un ironico borbottio. Dalla, pur scrivendo una canzone originale, non fece altro che adattare la forma mentis di una struttura narrativa da aria lirica ad una canzone pop. Il cantautore bolognese l’ha fatto senza doversi giustificare o cercare delle motivazioni surrettizie. Nel frattempo «Caruso» è diventata una delle pop-song melodiche più famose al mondo, grazie anche alle interpretazioni di Pavarotti e Bocelli. É lecito chiedersi se i jazzisti italiani conoscano la «potenza della lirica». Nelle aree d’opera c’è la stessa tensione emotiva e la forza espressiva del jazz, il pathos, i cambi di mood, le variazioni di tempo, i crescendi e soprattutto una tipologia di struttura melodica che nessun’altra forma musicale possiede. L’opera lirica è lo sturm und drang della musica classica europea, la passione trascritta su un pentagramma. Le parole del celebre «Ridi Pagliaccio» di Leoncavallo sono la sintesi della lirica e del jazz al contempo: «Tramuta in lazzi lo spasmo ed il pianto; in una smorfia il singhiozzo il dolor». I jazzisti italiani hanno sempre ignorato tutto questo patrimonio, vuoi per tema di misurarsi con un materiale complesso e ritenuto troppo aulico ed elitario rispetto al jazz, per lungo tempo la musica degli ultimi, nato nelle strade e nei bordelli dei quartieri malfamati e sviluppatosi in contesti popolari e poco alfabetizzati; vuoi per una reale non conoscenza dello scibile e delle potenzialità di sviluppo dell’opera lirica in un contesto jazzistico.
Il progetto di Mirko Onofrio Large Jazz Ensemble, «Leon In Jazz», dedicato alle arie di Ruggero Leoncavallo, peraltro non il più importante e famoso tra autori di musica lirica, in parte conferma talune nostre tesi. Pur non essendo l’unico caso in Italia, fra i jazzisti, a tentare una commistione con il melodramma, «Leon In Jazz» fornisce più di altri lavori simili delle indicazioni ben precise sulle possibilità di compenetrazione e di adattamento della lirica all’idioma jazzistico: vuoi per la scelta del materiale, vuoi per la tipologia di arrangiamento, vuoi per l’impostazione strumentale. Soprattutto «Leon in Jazz» si sostanzia come un concept coraggioso e sontuoso allo stesso tempo, in cui il musicista calabrese ha usato una particolare regola d’ingaggio che fa del suo lavoro sulle composizioni di Leoncavallo un disco jazz in piena regola, al netto di ogni tentativo di giustificare la realizzazione di un prodotto ibrido, con buona pace dei musicologi amanti della «third stream» o degli ambienti accademici. Onofrio, artista geneticamente trasversale e multitasking, studioso dei linguaggi modali, dissonanti ed antitetici al sistema accordale eurodotto, pur rispettando l’intelaiatura armonica dell’impianto melodico-armonico del compositore campano, la plasma secondo una metodologia e una dinamica sincopata e tutt’altro che convenzionale. In taluni momenti ed in alcune partiture, sembra abbia voluto conservare un’aura di classicità soprattutto attraverso l’utilizzo di una sezione archi, che rimane spesso circoscritta ed intrappolata nell’intelaiatura armonica di una vera retroguardia ritmica di tipo jazz: piano, contrabbasso e batteria, a cui fanno eco i fiati, legni, ottoni e ance, che ricordano più una big band che non un orchestra sinfonica; senza contare la decisiva importanza degli innesti dello stesso D’Onofrio al sax e al flauto che rimodellano ulteriormente la materia. Onofrio ha composto ed inserito nell’album un inedito, «Romance Of The Kittens» che ben si amalgama alle più celebri arie di Leoncavallo: «Zazà, Piccola Zingara», «Mattinata, «Vesti la Giubba», «Tu sola a me rimani, O Poesia» e «Chanson D’Amour». Il progetto del Mirko Onofrio Large Jazz Ensemble «Leon In Jazz», edito dalla casa Editrice cosentina Le Pecore Nere, è costituito da un CD e da un Libro arricchito dall’introduzione di Vincenzo Staiano, scrittore, studioso e direttore artistico di Rumori Mediterranei, Festival Internazionale del Jazz di Roccella Jonica e dalla narrazione dello stesso Onofrio che spiega la sofferta genesi del progetto, l’organizzazione delle varie sezioni strumentali all’interno dell’ensemble e lo sviluppo delle singole partiture nel passaggio dalla forma classica della lirica a quella contemporanea del jazz. Un vero e proprio manuale-guida per quanti in ambito jazzistico volessero cimentarsi sul un territorio di scoperta e di ricerca simile, ossia di translitterazione dalla lirica al jazz.