Amiri Baraka e il popolo del blues visto da Marcello Lorrai e Flavio Massarutto
// A cura di Guido Michelone //
Nell’ambito di Udin&Jazz 2023 si è svolto un dibattito di grande rilevanza culturale con due tra i massimi studiosi di jazz che operano in Italia su riviste e quotidiani, colme pure a livello organizzativo: il tema era Amiri Baraka (Leroi Jones) lo studioso afroamericano che tra gli anni Sessantae Duemila, ha spaziato fra poesia e teatro, sociologia e politica, ponendo sempre il jazz e la black music al centro delle proprie riflessione e della sua variegata opera artistica. Questo il resoconto del dialogo fra Luigi Onori e Flavio Massarutto, incentrato soprattutto sul volume Blues People, la cui più recente edizione italiana risale al 2010 come Il popolo del blues. Sociologia degli afroamericani attraverso il jazz a nome Amiri Barakla (Leroi Jones).
Flavio: Come hai scoperto Amiri Baraka e come è stato il primo approccio con isuoi libri?
Marcello: Il popolo del blues è uscito in America nel 1963 e in Italia da Einaudi nel 1968: uno dei primi libri sul jazz che ho letto in assoluto e infatti non mi sono ancora ripreso. Ho iniziato ad ascoltare jazz già nel 1969 quattordicenne e l’ho letto nei primi anni Settanta. Si tratta di un libro spartiacque non solo per me, ma per tutta la cultura moderna. Da allora Il Popolo del blues mi ha stimolato a leggere altri testi della cultura afroamericana dall’Autobiografia di Malcolm X ai testi sul governi statunitensi o sui movimenti rivoluzionari neri. E proprio allora, giovanissimo, ho cominciato a sentire e capire che stavo da una parte ben precisa: quella degli afroamericani.
Flavio: Sappiamo che Amiri Baraka nasce Leroi Jones e decide di cambiare nome negli anni Settanta perché quello è il nome e cognome dei padroni. Culturalmente nasce come poeta – uno dei pochi di colore della beat generation – poi aderisce ai black muslims e al nazionalismo nero, per avvicinarsi alle teorie, alle idee, alla filosofia di Karl Marx. Rappresenta negli anni Sessanta (e oltre) il tipico intellettuale impegnato, che associa all’attività poetico-letteraria quella di saggista, studioso, sociologo, occupandosi altresì di critica musicale e spesso e volentieri esibendosi con noti esponenti del free in spettacoli di jazz poetry. Al di là di questo curriculum quale può essere per te il grande merito del suo Popolo del blues?
Marcello: La prendo a distanza. Siamo adesso circondati da storie del jazz (Ted Gioia, Alyn Shipton, Zweed, eccetera), però, durante i primi Sixties, una storia del jazz non era così scontata. Le prime storie del jazz avvengono per così dire in forma musicale concertistica: nel gennaio del 1938 i newyorchesi assistono a una trionfale serata di Benny Goodman (presso la Carnagie Hall), che può ritenersi l’apice della follia dello swing: un recital aperto da una serie di brani che raccontano le origini del jazz medesimo. Sempre nel 1938 il produttore e discografico John Hammond organizza il concerto From Spiritual to Swing, una sorta di ricostruzione della vicenda della musica afroamericana vista com’era dalle radici fino all’attualità di allora. Sono forse questi due concerti i primi momenti in cui il mondo musicale stesso comincia a riflettere sul jazz e sull’intera musica afroamericana.
Flavio: Ma è in Europa che esce il primo libro sul jazz…
Marcello: Infatti, nel 1926 il francese-belga Schaffer pubblica a Parigi Le jazz che non è propriamente ‘una storia’, bensì un saggio in cui si inizia a far notare i rapporti tra jazz e musica africana. Poi è la volta un altro francese Hughes Panassié (che si ferma al bebop), ma sarà solo negli anni Cinquanta con il bianco Barry Ulanov che i lettori ppssono avere un libro in cui si racconta la storia del jazz come processo evolutivo. Nel 1963 Blues People compie un salto di qualità perché si arriva a un’interpretazione forte: l’esperienza del jazz va vista e capita alla luce dell’esperienza della comunità afroamericana, insomma con la musica nera che agisce nella società americana bianca. Leroi Jones vede in quest’esperienza afroamericana il motore dello sviluppo dell’esperienza jazzistica. Non a caso il libro comincia dicendo che la storia sociale afroamericana si spiega attraverso la luce indotta dall’esperienza musicale afroamericana. E la potenza di illuminazione della realtà americana attraverso il jazz è enorme.
Flavio: Gli eroi e i leader culturali degli afroamericani sono i musicisti e come la dice Amiri Baraka è una fucilata nel vero senso della parola: non era affatto un’immagine retorica. Cosa è invecchiato e cosa è attuale del libro Il popolo del blues?
Marcello: Sono invecchiati sia l’impianto generale del libro sia alcuni giudizi specifici. La parte sull’evoluzione del jazz comprende un confronto dialettico tra le iniziative dei neri e quelle dei bianchi, dove questi ultimi eliminerebbero la dirompenza estetica dei primi. Baraka si riferiva soprattutto al cool jazz degli anni Cinquanta, che era la musica dei collage universitari (dove ad esempio si esibiva spesso il Dave Brubeck Quartet), ma Baraka omette di dire che uno degli studenti che applaudiva il celebre pianista bianco era proprio lui stesso, al quale Brubeck piaceva molto. Alla fine del libro egli parla anche dell’hard bop (ritenuto da molti una ripresa dei neri sull’egemonia jazzistica dei bianchi) che all’epoca non apprezza affatto, ma che, dopo alcuni anni, rivaluterà del tutto. Resta comunque ancor oggi interessante aver visto nel movimento hard bop una dialettica interna al jazz sia nero sia bianco. Quel che conta, alla fine, è che nel libro c’era uno schema interpretativo, che sembra quasi l’esatto contrario rispetto a ciò che scrivono i critici europei propensi a sostenere che oggi tutto il jazz americano sia quasi un dettaglio mentre oggi, negli Stati Uniti, la scena afroamericana in particolare è più viva che mai.
Flavio: Il secondo libro musicale di Baraka, Black Music, è curato da te ed è quindi doveroso chiederti come sia nato.
Marcello: Nato una decina d’anni fa, ma continua ad avere una propria attualità. L’interesse verso Baraka in Italia tocca il picco tra gli anni ‘60 e ‘70 con altri libri di saggi come Sempre più nero (Feltrinelli), Il predicatore morto (Monmdadori), due libri di teatro (rispettivamente Einaudi e Jaca Books), poi più nulla fino agli anni Novanta quando Shake ristampa Il popolo del blues a nome Amiri Baraka, poi Bacchilega pubblica una raccolta dei saggi di autori italiani su di lui con alcuni suoi testi. Da un certo momento in poi dunque l’editoria e la cultura italiane vantano in negativo una gravissima disattenzione verso di lui, che non è stato solo un poeta o uno che ha scritto un fondamentale libro sul sound afroamericano, ma risulta di fatto il più importante intellettuale afroamericano che, fino alla morte, ha fatto discutere la gente, che ha diviso i lettori e i jazzofili, ma a cui tanti devono moltissimo.
Flavio: Ma non c’era solo questo…
Marcello: Certo, c’era il fatto che eravamo fermi al Popolo del blues, altri suoi interventi sulla musica in Italiano non ne esistevano. Allora mi è venuto in mente di prendere varie cose di diversa natura e metterle assieme, per mostrare come il teorico del free jazz, con modalità di scrittura differenti dalla critica musica tradizionale, si mostra attentissimo ad altre musiche, come per esempio Art Tatum da molti giudicato male per l’eccesso di ricchezza stilistica. Black Music è anche un libro dove emerge poi la brillantezza dei generi letterari di Baraka, ad esempio nei saggi con spezzoni di poesie dentro la prosa oppure in quelli dove invece prevale il linguaggio del militante politico, o ancora lo stile di uno che ha letto Ezra Pound, che ha fatto l’intellettuale partendo da autodidatta, che ha sentito da bambino i sermoni in chiesa. In tal senso Black Music risulta anche un bel autoritratto di Baraka medesimo.
Flavio: Sappiamo che per Baraka esistette una frequentazione amicale con musicisti, da Nina Simone a Sun Ra, o che fu editore di una rivista in cui scrivevano solo i neri e i musicisti di proprio pugno (non intervistati come su Down Beat, dunque senza mediazione). Ma in Black Music c’è qualcosa del rapporto fra Baraka e la musica che è rimasto fuori?
Marcello: Non mi pare perché ho scelto, nel presentare i capitoli del libro, un andamento che ripercorresse le vicende della musica afroamericana fin dall’Ottocento a cominciare dai cosiddetti ‘idioti sapienti’, in particolare Slim Tom, ex schiavo pianista straordinario, compositore autodidatta, fenomeno da baraccone, ma una delle prime figure a emergere con nome e cognome, lasciando poi sue composizioni (trascritte da altri) rieseguite oggi su disco da svariati jazzisti. Baraka nel libro si occupa altresì del Miles Davis dell’ultima fase (non amato dalla critica), perché l’ha seguito fin da quando era ragazzino per l’aura e il carisma che il trombettista trasmetteva prima nel quintetto di Parker, poi da solo.