Il Free Jazz raccontato nel nuovo libro di Francesco Cataldo Verrina, «FREE JAZZ: Dischi, Anarchia & Libertà». Intervista di Guido Michelone all’autore
// di Guido Michelone //
È da poco uscito il nuovo libro del nostro illustre collega, un poderoso che in 384 fitte pagine sviscera un argomento per molti ancora ostico o persino ostile: il Free Jazz. Ma la tenacia con cui l’Autore porta avanti le proprie giuste idee non può non incuriosire o addirittura convincere i più refrattari jazzofili non solo della bontà di quest’opera saggistica ma anche dell’oggettivo valore artistico di un capitolo fondamentale nella storia della comunità e della musica africano-americana, come egli stesso spiega in quest’inedito dialogo tra due sostenitori del Free Jazz di Ornette Coleman, Archie Shepp, Albert Ayler, Pharoah Sanders, Cecil Taylor, John Coltrane, Don Cherry, Gato Barbieri e tanti altri.
(Michelone) Partiamo dal titolo: hai scelto giustamente l’espressione FREE JAZZ: ma cosa ne pensi degli altri modi con cui in America e in Europa hanno chiamato questa musica? Ad esempio New Thing, Avant Garde, jazz atonale, jazz sperimentale?
(Verrina) Le definizioni servono solo agli enciclopedisti e non hanno alcun valore pratico, specie sotto il profilo strumentale e sonoro. Si parla di musica non di cruciverba. Come chiarimento, nel libro ci sono una trentina di pagine in cui si piega la differenza tra free jazz e avanguardia. Fenomeni come gli Art Ensemble Of Chicago sono avanguardia a prescindere, anche dal punto di vista estetico-formale. In sintesi avanguardia è tutto ciò che si pone su un orizzonte nuovo rispetto ad un vissuto precedente: Charlie Parker è avanguardia rispetto a Louis Armstrong, ma non è free jazz, così come possono essere sperimentali tutti i jazzisti animati da un perenne mutatis mutandis, non necessariamente free. Il termine New Thing non è assolutamente sinonimo di free jazz, ma assume delle connotazioni politiche localizzate in un certo ambito sociale, soprattutto legate al movimento per i diritti civili e alle lotte degli africano-americani sostenute da un certo numero di artisti, direttamente coinvolti nei vari movimenti come Archie Shepp. Ad esempio, Ornette e Trane non hanno mai manifestato interesse per la politica, al massimo di solidarietà nei confronti dei «fratelli neri». Il termine free jazz si usa per comodità e nasce dal titolo di un disco di Ornette Coleman, «Free Jazz”, il quale ebbe subito fortuna, forse perché sintetizzava meglio di altre locuzioni l’idea di questa forma musicale.
(Michelone) Rimaniamo sempre sul titolo., o meglio sul sottotitolo: tre parole chiave per comprendere la struttura e il senso del libro. Cominciamo dalla prima: dischi. Ritieni che lo studio della discografia sia l’unica via percorribile per lo studio e la conoscenza della jazz e della sua storia?
(Verrina) Esistono approcci differenti alla materia. Lo studio della discografica è fondamentale ma non è l’unica via percorribile, per quanto imprescindibile. Nel caso del mio libro ho analizzato anche i fenomeni connessi, l’evoluzione del bop, la beat generation, l’arrivo della cultura antagonista ed il travaso del popolo del rock nel jazz, per evidenti affinità elettive e per quel comune senso di intolleranza e di insofferenza verso il potere ed il sistema tout-court. Alcuni artisti, dai precursori agli attuatori ed i loro dischi costituisco una sorta di ossatura che regge l’intera narrazione. Non si può essere studiosi, scrittori o critici letterari o cinematografici senza conoscere i libri o i film, ma in Italia, a proposito di jazz, spesso si ragiona all’ingrosso e si tralasciano i dettagli secondo il detto «in medio stat virtus», che spesso finisce per diventare «in mediocritas stat virtus», la non trattazione e la poca conoscenza delle discografie, se non per salti quantici, nel nostro paese costituisce un annoso problema.
(Michelone) Anarchia, la seconda parola del sottotitolo, sembra annunciare una tua visione ben precisa, ponendo il free jazz in una dimensione sia politica sia artistico-musicale dove sembra realizzarsi un’utopia da molti ricercata proprio nella migliore stagione del free (gli anni ’60). Vuoi precisare meglio questo tuo assunto?
(Verrina) Come ho avuto modo di spiegare ampiamente nel libro, il termine anarchia è riferito soprattutto al completo svincolo dal sistema armonico tradizionale, a forme espanse di costruzione sonora oltre quelli che erano i tempi del classico formato a canzone ad un concetto d’improvvisazione tutt’altro che canonica. Il fatto che il free jazz abbia avuto il massimo sviluppo durante una stagione politica piuttosto caotica e movimentata – l’ho già chiarito prima parlando di New Thing – è del tutto casuale e marginale. Ciò non significa che il jazz (libero o mainstream) di quegli anni non appoggiasse la causa dei neri, Malcom X o Martin Luther King, ma non furono i movimenti di protesta a dettare le strutture ritmico-armoniche o le regole d’ingaggio adottate dal free-jazz. Ho tentato perfino di chiarire che nel free jazz, come nel jazz in genere, non esista un’improvvisazione davvero improvvisata, un pensiero oltretutto condiviso con il musicologo Gianni Morelenbaum Gualberto durante uno scambio di opinioni avuto con lui e posto in appendice al libro.
(Michelone) Collegata ad anarchia c’è forse anche la parola libertà, anche se nell’America bianca essa acquista spesso significati opposti: basti pensare al concetto di libertà per la destra statunitense già allora (ad esempio far la guerra in Vietnam per portare la libertà ai vietnamiti a prescindere dalla loro volontà). In che senso tu rapporti alla libertà al free e anche più in generale al jazz medesimo?
(Verrina) Il jazz è l’essenza stessa della libertà. Esso nasce all’interno di un melting-pot di razze, in cui predominavano gli africano-americani, ma comunque gli ultimi della scala sociale, in un’America plutocratica e separatista. Il jazz è fin da dagli albori l’antitesi sonora al mondo dei WASP, dei benpensanti, dei conservatori e dei reazionari, facendosi strada con la sua sfrontatezza, il non rispetto della sintassi sonora eurodotta, la sua corporalità, la sua istigazione a balli e movenze quasi tribali. Con l’arrivo del bebop il jazz fa un salto in avanti: si passa dall’estetica del movimento, dalla fisicità al pensiero. I boppers cercano una loro dimensione intellettuale, tentando di svincolarsi dal potere contenitivo dei bianchi, e sono soprattutto i musicisti di colore, amatissimi dai poeti della beat generation, a dettare le regole del gioco. Il free jazz è un continuum del percorso iniziato nell’immediato dopoguerra. Per quanto posa sembrare strano, il free jazz fu più una rivoluzione verso l’interno che non verso l’esterno. Quando Ornette Coleman si presentò al Five Spot con il suo sassofono di plastica non intendeva mettere in discussione l’apparato politico euro-settentrionale o quello USA, ma solo il sistema accordale e la classica compliance tra armonia e melodia.
(Michelone) Free Jazz vuol letteralmente dire ‘jazz libero’, ma ricordo un articolo su Musica Jazz negli anni Settanta il cui titolo era «Free jazz non poi tanto libero» in cui l’autore metteva giustamente in risalto le ascendenze blues nei dischi di Ornette Coleman, Archie Shepp, John Coltrane.
(Verrina) Non so chi sia stato il genio della lampada in questo caso, ma mi sembra un’affermazione alquanto banale. Non esiste alcuna forma di espressione jazzistica che possa prescindere dalla scale di blues e dalla cosiddette blue notes. Il nodo gordiano si scioglie nel momento in cui si capisce che cosa sia realmente il free jazz, che non è il demonio, il caos primordiale, un rito apotropaico o un orgia dionisiaca, ma è solamente una rivoluzione armonica: detto in soldoni melodia ed armonia non agiscono più secondo i dettami del sistema tonale euro-dotto. Ad abundantiam, il free jazz è un’evoluzione del post-bop modale, il cui il metodo armonico europeo era stato già soppiantato dall’uso di sistemi accordali praticati nelle musiche antiche o nelle culture altre (quelle che spesso vengono definite primitive). Una delle caratteristiche preponderanti del free jazz è proprio il terzomondismo, non solo politico, ma anche ritmico-armonico. Nello specifico la Grande Madre Africa diviene il punto di riferimento di molti musicisti. Ricordiamo ad esempio Don Cherry o Pharoah Sanders. Nel momento di massima divulgazione e di virulenza espressiva dei fenomeni nell’ambito del free jazz cominciarono a confluire molti artisti africani, orientali e di cultura ispanico-latina. Un outsider argentino come Gato barbieri, negli anni Settanta, divenne una delle punte d’eccellenza del genere free.
(Michelone) Cosa pensi di chi vuol fare risalire le origini del Free non tanto da uno sviluppo dell’hard bop nero, quanto alle ricerche di precursori bianchi come Lennie Tristano con «Digression» (1948) o Shelly Manne con «Minor Apprehension» (1959) e «Un Poco Loco» (1956); per non parlare del trio Giuffre-Bley-Swallow (tra il ’60 e il ’61) o degli europei Giorgio Gaslini e Joe Harriott?
(Verrina) Diciamo che il Free Jazz non è un evoluzione del bop nero, ma un’implosione. Come ho spiegato prima, non è una rivoluzione verso l’esterno, ma verso l’interno. Questo è un dettaglio che a volte sfugge. Ornette Coleman non contestava il Codex Purureus Rossanensis ma le dinamiche tipiche del bebop di fine anni Cinquanta e il rapporto parentale tra armonia e melodia. Tristano è stato un musicista atipico, geniale e inquieto per i suoi tempi, ma sterile, non avendo prodotto una figliolanza artistica o un seguito. Molti dei suoi iniziali collaboratori, come Lee Konitz finirono per contestarlo. Tristano riteneva inutile l’uso della batteria (strumento basilare nel free). Nello specifico «Digression», per quanto avanti, è un lavoro basato su una libera improvvisazione (improvvisazione libera non significa free jazz), ma, per contro, tale flusso improvvisativo è innestato su una struttura armonica ed un tempo prestabilito e preimpostato, in cui non c’è discordanza tra melodia e sistema accordale. Il tutto si regge sul classico contrappunto fra le parti che era la caratteristica del pianista italo-americano, il quale non usava il modale o accordi della scala Lydia, per esempio. Shelly Manne è stato un innovatore dal punto di vista ritmico, nell’uso della batteria, dell’ampliamento del kit e del suo posizionamento. In riferimento a «Poco Loco» del 1956, parliamo di innovazione del kit rimico e di improvvisazione libera: Shelly Manne suona su una batteria a quattro elementi con un tamburello posizionato sul floor tom; nella mano destra stringe un pennello/bacchetta, mentre la mano sinistra è libera e la usa come un conguero. Nella parte improvvisata Charlie Mariano contralto, Stu Williamson tromba, Russ Freeman pianoforte e Leroy Vinegar basso suonano contro tempo (o fuori tempo) rispetto a Manne, che sembrerebbe andare per i fatti suoi (pare che la casa discografica non abbia pagato il fonico, considerando la registrazione sbagliata). Decisamente poco per definirlo un precursore del free jazz. Se così fosse, dovremmo dire che l’inventore del free, ritmicamente parlando, sia stato Max Roach. «Something Else!!!!» di Ornette Coleman, già impostato su concetto di armolodia era uscito nel 1958 e poi perfezionato con «The Shape Of Jazz To Come» registrato nel maggio del 1959. Ribadisco: avanguardia non è sempre sinonimo di free jazz. In merito al trio Giuffre-Bley-Swallow, che nei primi Sessanta produsse dischi free, nulla di ante-litteram, stavano solo seguendo il flusso della corrente o la moda del momento. Gli europei Giorgio Gaslini (spesso votato a commistioni sonore surreali, ibridi di risonanza, direbbe il chimico, ed a forme associative di terza corrente) e Joe Harriott sono stati degli innovatori e degli sperimentatori tout-court, e sarebbero stati avanguardia perfino se il free jazz non fosse mai esistito. In sintesi credo che talune affermazioni siano solo dei tentativi dei «perdenti» eurocentrici, tesi ad esaltare i musicisti bianchi ed a sminuire l’importanza degli africano-americani defraudandone il giacimento creativo.
(Michelone) Infine ai molti jazzofili che non vogliono sentir parlare di Free, quale dischi consiglieresti per avvicinarsi o meglio per superare l’ostacolo che separa l’hard bop da qualcosa di più ardimentoso?
(Verrina) Nel libro parlo spesso di «volo libero», in riferimento a personaggi e dischi che progressivamente cominciarono a prendere le distanze da un certo tipo di bop straight ahead. Ho dedicato un lungo capitolo ai cosiddetti «dirottatori», i quali cominciarono ad agire in difformità rispetto alle regole d’ingaggio tradizionali, spostandosi su un territorio che potremmo definire ipermodale, quindi con un piede già nel territorio sotto la giurisdizione del free jazz. In ogni caso, vanno benissimo i primi quattro dischi di Ornette Coleman, escludendo proprio l’eponimo «Free Jazz», che richiede una preparazione adeguata ed una conoscenza dell’idioma jazzistico più evoluta. Questi lavori ornettiani, legati a semplici strutture blues, non sono particolarmente impegnativi nella fruizione, basta entrare nella dimensione del concetto di dissonanza e di insubordinazione rispetto al vecchio sistema tonale. Da prendere in considerazione alcuni iniziali lavori di Archie Shepp o della fase spirituale dell’ultimo Coltrane, perfino i primi due album di Albert Ayler. Ovviamente, bisogna avere la mente aperta al cambiamento e al desiderio di uscire dalla classica zona comfort.
«Free Jazz: Dischi, Anarchia & Libertà» (Kriterius Edizioni 2023)