Miles Davis con «Water Babies», il brivido dell’imprevisto (Columbia, 1976)
// di Francesco Cataldo Verrina //
Quando venne pubblicato «Water Babies», Miles Davis era praticamente latitante in una sorta di eremo spirituale, ma alla Columbia pensavano alle cose concrete, quindi qualcuno, come ispirato da una forza sovrannaturale, decise di assemblare delle vecchie session registrate alla fine degli anni ’60 e realizzare un album finito. Il disco si sostanzierà come una delle produzioni più riuscite di quel periodo e superiore a molte delle pubblicazioni davisiane degli anni ’70, senza apparire come un’opera forzata da esigenze di mercato ed artisticamente obsoleta. In sintesi, ci troviamo di fronte ad un album che racchiude un chiaro esempio di transizione da una forma avanzata di hard bop al primo stadio di un’elettronica rudimentale, eseguito da un manipolo di musicisti di rango e magnificato dall’iconica copertine di Corky McCoy.
Del resto, mentre Davis si cullava sugli allori, la Columbia, come già accennato, cercava di monetizzare la nomea del personaggio, che aveva sotto contratto, ma che a quel punto sembrava un peso morto: la pubblicazione dell’album fu assai controversa e, quando uscì ebbe tutto il disappunto, più che la benedizione, del trombettista, il quale non era mai stato uno che si guardava indietro, tanto che la «nuova» pubblicazione di materiale «datato» lo mandò su tutte le furie. Le ultime registrazioni del trombettista, comunque live, si riferivano ai concerti del 1974 in Giappone, pubblicati come «Agharta» e «Pangaea», due doppi set in cui si avverte dolore, disperazione e solitudine, una sorta di strada senza uscita per un musicista eclettico che aveva necessità di reinventarsi continuamente.
Da parte loro, i maggiorenti della casa discografica erano convinti che Miles non sarebbe entrato in studio da lì a poco, quindi preferirono frugare negli archivi. Ad onor del vero, alla Columbia non possedevano tanto materiale inedito da poter riconfezionare al fine incassare la popolarità di un artista in coma creativo, indipendentemente dal contenuto e tenerne vivo il ricordo sul mercato; lo fecero, comunque, con garbo e cognizione di causa, soprattutto andarono sul sicuro, facendo riscoprire il suono dei«favolosi» anni ’60 e di musicisti di caratura superiore. Sul Lato A: Miles Davis (tpt), Wayne Shorter (tnr), Herbie Hancock (pno), Ron Carter (bs), Tony Williams (drs). Lato B, Miles Davis (tpt), Wayne Shorter (tnr) Chick Corea (elp), Herbie Hancock (elp), Dave Holland (bs) Ron Carter (bs) Tony Williams (drs). Pur non essendo «Water Babies» un lavoro specifico di Miles Davis, concepito come tale e collocabile su una linea ed un percorso evolutivo, offre, senza tema di smentita, la misura tracciabile e tangibile del suo genio.
I brani son eseguiti magnificamente e queste sessioni recuperate, alla fine, divennero un raccordo con la sua fase elettrica. Per intenderci, guardando indietro di una decina d’anni e facendo un raffronto con il Miles Davis degli anni ’60, queste performance risultano determinanti nel contesto storico e nella rivoluzionaria transizione verso la fase elettrica. Registrato esattamente, tra il 1967 e il 1968 a New York, con la produzione di Teo Macero, presso lo Studio B della Columbia. «Water Babies» conduce gradatamente l’ascoltatore verso un nuovo mondo, trasportandolo, attraverso una macchina del tempo, nell’eclettico universo davisiano e nei territori fusion, soprattutto al secondo Miles Davis Quintet con Herbie Hancock e Chick Corea al piano elettrico, amalgamati con il background acustico della band. Quattro delle cinque tracce portano in calce la firma di Wayne Shorter , che in quel momento era all’apice dei suoi poteri compositivi. Alcuni superficiali scribacchini dell’epoca etichettarono l’album come una compilation, quasi a volerne sminuire la portata.
Le composizioni del lato A provengono dalle sessioni di «Nefertiti» e «Kilimanjaro» e, sebbene siano state leggermente manipolate, sono ancora validi esempi delle altezze stratosferiche che «quella band» raggiunse nei tardi anni Sessanta. I pezzi della B-side, come già accennato, sono un’importante porta d’accesso ai successivi capolavori del 1969. Sia la title-track che il tributo a Billie Strayhorn, «Sweet Pea», trovano tutti i musicisti in uno stato di grazia, le composizioni si prestano molto al loro assetto strumentale, poiché alquanto down-tempo ed avvolte da una crepuscolare e malinconica atmosfera, dove il tenore di Shorter risulta sinuoso ed intrigante, mentre Miles divide volentieri oneri ed onori con il penetrante piano di Herbie Hancock, il basso di Ron Carter e la batteria di Tony Williams. L’album si sostanzia attraverso altre ottime composizioni come «Capricorn», mentre sulla B-side, con Chick Corea al piano elettrico, Dave Holland al basso e Wayne Shorter al soprano, lo scenario muta quasi completamente attraverso due lunghi titoli: specie in «Two Faced», un’altra gemma scritta da Shorter che si pregia dei contributi quasi minimalisti e sommessi di entrambe le tastiere elettriche, le quali sottendono le brevi e lancinanti corse di Miles; «Dual Mr.Tillman Anthony» è un’ode speciale al batterista Tony Williams.
Da segnalare la traccia aggiuntiva, «Splash» (presente sul CD), della durata di oltre dieci minuti. Al di fuori di ogni forma prematura o ex-post di giudizio, «Water Babies» esprime il richiamo dell’impareggiabile tromba di Miles; è la rappresentazione scenica di una delle migliori escursioni di Chick Corea al piano elettrico, dove il basso di Ron Carter delimita il perimetro e stabilisce i tempi; dal canto suo Wayne Shorter, specie al soprano, indaga i confini esterni delle composizioni, mentre dalla retroguardia giunge l’ennesima lezione di drumming creativo da parte di Tony Williams. Oggi a ragion veduta, possiamo affermare, senza ombra di dubbio, che «Water Babies» sia un altro capolavoro di jazz moderno ed una parte cruciale della mutevole e spettacolare eredità musicale di Miles Davis.