tbt-170408-la-bouef-brothers

// di Gianni Morelenbaum Gualberto //

I fratelli gemelli Remy e Pascal Le Boeuf sono musicisti di notevole individualità, alla capacità strumentale (ricordo che Remy è un contraltista, Pascal è un pianista) uniscono non trascurabili doti compositive, particolarmente in evidenza in due recenti incisioni: Ritual Being, a nome del pianista e Hush, a nome dei due fratelli, lavori assai diversi fra di loro (come evidentemente diversi sono gli interessi dei due artisti) ma accomunati in larga parte da una sensibilità affine. Essendo californiani e notando la preponderanza di parti scritte in ambedue le opere, verrebbe facile rievocare l’estetismo para-accademico prediletto negli anni Cinquanta da taluni improvvisatori e arrangiatori della West Coast e altrettanto istintivo verrebbe da pensare a certe forme di Third Stream oggi, peraltro, di gran lunga più agili e interessanti dei pur blasonati e spesso goffi esperimenti di un tempo. Vi è invece assai di più, in queste composizioni estremamente liriche, sofisticate, eppure viscerali, lontane sia dal vecchio e provinciale eurocentrismo che dalla nuova dominazione culturale che il vitale afrocentrismo lascia presagire.

In Ritual Being, giro d’orizzonte sulla nostra coazione a ritualizzare e persino a sacralizzare certe serialità dei nostri comportamenti, Pascal Le Boeuf scrive con grande ingegnosità per una combinazione strumentale tradizionale (un trio in cui lo affianca la contrabbassista Linda May Han Oh e il batterista Justin Brown, e nel quale si inseriscono Remy Le Boeuf e il tenorista Ben Wendel) che dialoga in modo tutt’altro che banale o convenzionale con un gruppi di archi (Fractured Quartet, Shattered Glass) e solisti accademici ma di grande versatilità come i violinisti Sara Caswell e Todd Reynolds, la violista Jessica Meyer e il violoncellista Nick Photinos. Il pianista non è nuovo a questo tipo di formule strumentali (penso, ad esempio, all’album Imaginist, in cui i due fratelli lavorano affiancati dallo splendido JACK Quartet) e la sua pratica appare chiara dalla disinvoltura con cui tratta gli archi, pur senza possedere una specifica preparazione in materia. Forse proprio per questo il gioco gli riesce bene: egli evita di imitare sonorità accademiche e tratta invece gli strumenti con una scrittura aggressiva e spesso fortemente ritmica (a queste pagine non vengono mai a mancare dinamismo e groove), come se essi sostituissero in qualche modo una formazione di fiati. Al contempo, tratti timbricamente delicati affiorano, con un che di cinematografico che pare ereditare brevi tratti minimalisti e una ricchezza melodica dalle diverse origini, come nella splendida, opulentemente lirica composizione Wanderlust, in cui sono riconoscibili brandelli di citazioni da Dave Brubeck. Se le voci dei due sassofonisti sembrano aggiungere una veste fonica più tradizionalmente memore della musica improvvisata, come ad esempio nelle quattro elegiache sezioni di Rituals of Change, le diverse pagine percorrono un linguaggio che esplora più vernacoli con estrema raffinatezza e con una sensibilità compositiva particolarmente ricettiva, non estranea a un approccio organico che caratterizza altri compositori californiani come Gabriella Smith e Steven McKey (che Pascal Le Boeuf, non casualmente, cita come fonti d’ispirazione assieme a Elliot Cole, Donnacha Dennehy, Michael Gordon, Jennifer Higdon, Julia Wolfe, Samuel Barber e Juri Seo). Nella superba, conclusiva composizione, Family of Others, si traggono le conclusioni attraverso una sorta di sintesi, di riassunto che rende affascinantemente omogeneo il connubio fra più influenze, più ricordi, più frequentazioni, più interessi, più rituali.

PS: Nell’album da poco pubblicato a nome dei due fratelli, Hush, è riscontrabile la stessa capacità di rendere omogeneo e organico il rapporto fra numerose diversità, ed è altrettanto notevole la capacità compositiva dei due gemelli. La tensione avvertibile in Ritual Being si stempera, invece, in un groove costante di spiccata rilassatezza e flessibilità: pagine che respirano a fondo ma su corte distanze, miniature, bozzetti, intervalli, pause scritti con mano maestra e un notevole senso della tradizione che guarda a una aggraziata rilettura del post-bop californiano (come sembrano evidenziare la sonorità e il fraseggio di Rémy Le Boeuf e Dayna Stephens) di squisita fattura timbrica. Musica senza fretta, affidata ad un’abile microfonazione e dalle dinamiche ricche di sfumature quanto di controllo: il mezzoforte di rado viene superato, talune delizie compositive (come Arrivals, Oblique Two-step, Vignette n. 25), inequivocabilmente ma squisitamente estetizzanti, vengono semplicemente mormorate, bisbigliate a fior di labbra in un intimismo mai estenuato, bensì denso di idee e suggestioni e che talvolta riecheggia la lirica stasi di un altro autore californiano come Harold Budd, talaltra la coralità inconfondibile, dinamica ed estatica, di Meredith Monk (si ascolti una pagina come Apollo), alla quale Pascal Le Boeuf fa esplicito riferimento. Sono pagine chiaroscurali, ricche di contrappunto, dalla filigrana ricca e dal sapore “antico” eppure di spirito integralmente contemporaneo, in cui talvolta sembra di cogliere in controluce, come in Walk Downs, la cristallina essenzialità di Paul Desmond: nonostante dinamiche tenute attentamente sotto controllo, la varietà di sfumature è impressionante, affidata com’è ad un interplay fra strumentisti sopraffini, dal quale emerge non poco la pertinenza del contributo di Linda May Han Oh.

Nel carattere malinconicamente danzante di alcuni lavori si avverte pure un romanticismo virile che pare evocare la letteratura hard-boiled d’antan non come narrazione di una conquista maschile del potere, bensì come costruzione di un mondo in cui il romanticismo, l’elemento sentimentale definito romantico e la narrazione strutturata del romanzo funzionano come alternative all’asprezza del cambiamento sociale e culturale. Hush racconta un’epoca o, più semplicemente, la re-immagina come parte fondante di un linguaggio squisitamente contemporaneo. Senza nostalgie, ma con un interesse vivamente poetico: un nuovo incontro dopo un lungo addio.

Pascal Le Boeuf: pianoforte, composizioni | Friction Quartet: Kevin Rogers, Otis Harriel: violino; Taija Warbelow: viola; Doug Machiz: violoncello | Shattered Glass: Katherine Liccardo, Ravenna Lipchik: violino; Michael Davis: viola; Luke Krafka: violoncello; Max Jacob: contrabbasso | Linda May Han Oh: contrabbasso; Justin Brown: batteria; Remy Le Boeuf: sassofono contralto; Ben Wendel: sassofono tenore; Todd Reynolds, Sara Caswell, Charles Yang: violino; Jessica Meyer: viola; Nick Photinos: violoncello; Kelli Kathman: flauto.Inciso in varie date fra l’11 maggio 2016 al 14 giugno 2019. Pubblicato il 1° settembre 2023. Soundspore Records SS202302

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *