Guido Michelone intervista Frank Bergerot, il francese, tra i decani della critica jazz

// di Guido Michelone //
Storico collaboratore di rinomate riviste francesi come Jazz Hot e Jazzman il settantenne Franck Bergerot fino al 2020 è redattore capo della più illustre fra le testate di musica sincopata ovvero Franck Bergerot, oltre essere in parallelo collaboratore assiduo di Monde de la musique per quanto concerne free, bebop, swing e dintorni. A livello bibliografico è famoso in patria per l’ottimo We Want Miles (Skira), su Davis, al quale già in passato dedica il più didascalico Miles Davis (Le Seuil), oltre opere più generali da Le jazz dans tous ses états (Larousse) in collaborazione con Arnaud Merlin, all’Épopée du jazz (Gallimard), in due volumi, di cui, stranamente, solo uno (il secondo sulla modernità) viene tradotto e pubblicato in Italia da Electa. Nei recenti decenni Bergerot trova pure il tempo per l’insegnamento come docente di Storia del Jazz presso la Bill Evans Piano Academy e al CIM Paris école de jazz et de musiques actuelles. Fondamentali risultano anche i corsi da lui tenuti in una materia ignota in Italia e definibile come “Discologia” con la Media X (Université de Paris X – Nanterre). L’intervista, inedita in lingua italiana e pubblicata in lingua francese nella dispensa universitaria France, jazz masculin féminin risale al 2020 nei giorni dell’imminente pensionamento per il Frank giornalista professionista, nonché scrittore e critico musicale.
D. Chi è in tre parole Franck Bergerot?
R. Un appassionato di musica che ha avuto l’opportunità, il kpòriuviolegio di vivere circa trent’anni con il mestiere del giornalista specializzato prima a «Jazzman» poi con «Jazz Magazine», ora da ‘pensionato attivo’.
D. Ma come ti definiresti esattamente? Critico, giornalista, musicologo, scrittore o altro ancora?
R. Jazz critic, comesi dice negli Stati Uniti, buon osservatore dei fatti musicali, in particolare del jazz, di cui conosco bene la storia e ancora in dettaglio l’attualità francese nelle parti emergenti durante questi ultimi quarant’anni; nutro inoltre un gusto assai pronunciato per le musiche di tradizione orale, in generale, senza necessarie indicazioni.
D. Ci puoi allora parlare, sia pur brevemente, della tua esperienza ‘musicale’ da quando eri piccolo fino a oggi?
R. Brevemente? Sarà difficile ma ci provo! Dai miei primissimi ricordi alle mie ultime cronache di concerti recensioni o alle mie ultime recensioni discografiche (ne ho dovute scrivere a migliaia!), occorrerebbe un libro, da momento che io sono pure assai eclettico, spaziando da King Oliver ad Ambrose Akinmusire, dall’accordéon musette parigino al flauto shakuhachi, passando per l’ascolto, lo studio della storia della musica, la lettura di dozzine di libri sul jazz: in questo momento ho sulla mia scrivania una pila di volumi da ‘evadere’ tra cui la biografia di Mary Lou Williams scritta da Linda Dahl, il Bud Powell di Peter Pullman, il John McLaughlin di Colin Harper, l’American Popular Song di Alec Wilder. Inoltre da parte mia c’è, nel corso del tempo, anche la pratica di diversi strumenti per differenti stili musicali da perfetto dilettante: chitarra folk, banjo a cinque corde, violino e cornamusa irlandesi, sassofono: pratiche mediocri abbandonate da alcuni lustri ma che comunque fanno parte del mio bagaglio culturale.
D. Frank, hai un ricordo preciso delle musiche da te ascoltate quando eri bambino?
R. Gli Hot Five di Louis Armstong, le facciate Columbia di Sidney Bechet del 1947 e l’album Newport 1958 di Duke Ellington che mio padre aveva regalato alla mamma agli inizi degli anni Sessanta. E poi gli EP a 25 cm della collezione Jazz splendidamente diretta da Boris Vian. Li conoscevo tutti a memoria. Inoltre c’erano anche le sinfonie di Beethoven che ascoltavo seduto a gambe incrociate vicino all’altoparlante del giradischi, imitando il direttore d’orchestra.
D. Riassumendo, cos’è per te, Frank Bergerot, la musica?
R. Un’arte dell’ineffabile. Sarà perché io deploro il fatto che il mondo della cultura oggi non la rispetti più, se non nella forma infestata dalle parole, dimenticando o disprezzando tutta la musica strumentale.
D. E invece cosa rappresenta per te il jazz?
R. Un’arte la cui definizione non cessa d’evolversi lungo il filo della propria storia e spero proprio che questa storia non finisca mai!
D. Chi sono per te i ‘maestri’ nel jazz? Ma non dirmene più di dieci!
R. Francamente detesto rispondere a questo genere di domande perché il jazz è troppo grande per questa stessa domanda. Se proprio ci tieni, i primi quattro che mi vengono in mente ora, così, d’acchito, senza pensarci troppo, sono Miles Davis, Lee Konitz, Jim Hall, Wes Montgomery…
D. Nemmeno i tre maestri nella storia del jazz in Francia?
R. Stessa reticenza… perché tra dieci minuti non sarà la stessa cosa e nemmeno dieci minuti dopo ancora. Ma nella tua domanda precedente, mi hai autorizzato a una certa soggettività. Ora, chiedendomi ‘tre maestri nella storia del jazz in Francia’ mi induci invece a una sorta di oggettività storica. Allora Django Reinhardt, Martial Solal, André Hodeir… Ma, a parte Django, è tutto molto soggettivo: Solal mi rimanda a uno dei miei primi concerti jazz che ho ascoltato e Annalivia Plurabelle di Hodeir a uno dei miei primi dischi (tra l’altro con Solal).
D. Allora, a questo punto, mi sembra quasi in utile o superfluo che tu mi sveli quelli che sono in assoluto i due-tre dischi più belli della storia del Jazz?
R. È sempre lo stesso problema. Ma potrei dirti i tre dischi che ti ho menzionato parlando della mia infanzia, a proposito dei primissimi ricordi che ho del jazz e dunque Armstrong, Bechet, Ellington, ai quali aggiungerei Nefertiti di Miles Davis, Tribute to Cole Porter di Lee Konitz e Red Mitchell, Alone Again di Paul Bley e un mare di altri.
D. Vale l’identico ragionamento per i dischi che ritieni fondamentali nel jazz francese?
R. Certo, metterei su tutte le incisioni di Django Reinhardt del 1947 e poi il disco che Andy Emler non ha ancora registrato.
D. C’è un momento clou nella tua carriera? Un periodo op un aspetto che ritieni il ‘più bello’?
R. Forse la pensione che sta per iniziare. Finalmente è arrivato il momento di tornare rilassato nei club e di scrivere senza limiti di tempo nel consegnare l’articolo.
D. Fra le centinaia di pezzi che hai pubblicato ce ne sarà uno a cui ti senti maggiormente affezionato?
R. Spero di scriverlo un giorno, prima o poi.
D. Esistono, secondo te, stretti rapporti tra il jazz e la politica?
R. Evidentemente sì. Ma questo non è una buona ragione per fargli dire qualunque cosa.
D. Come se la passava il jazz in France prima della pandemia?
R. Andava molto bene, mi sorprende ancora ogni giorno. Sempre più giovani e sempre più numerosi, i musicisti sono coraggiosi perché a loro il pubblico non gli sta bene, basta guardare il colore dei capelli e il disprezzo nei confronti nel nuovo jazz da parte delle élite culturali che controllano i media.