«Anni di «sostituzione»: Tony Rusconi intervistato da Guido Michelone

// di Guido Michelone //
Mi ricordo bene Tony Rusconi quando io giovanissimo inizio a occuparmi di jazz seriamente leggendo libri e soprattutto riviste come i mensili «Musica Jazz» e «Ritmo» da un lato, «Gong», «Muzak» e «Musica80» dall’altro che, all’epoca simboleggiano visioni radicalmente opposte: le prime due rappresentano l’ortodossia jazzistica (sostanzialmente adagiata sull’hard bop, benché aperte a discutere di free) le restanti i movimenti giovanili (e il rifiuto del ‘jazz di papà’, nonostante qualche successiva revisione). I soli a mettere quasi tutti d’accordo sono i giovani jazzmen milanesi – i protagonisti poi del mitico Concerto della Statale, poi edito su doppio LP – per ragioni anche qui antipodi che: i batteristi ‘conservatori’ plaudono all’aderenza, ai canoni coltraniani, i ‘fricchettoni’ invece sono contenti della vicinanza politica. Tony Rusconi all’epoca è un po’ sul crinale perché il suo OMCI propone l’album Contro dalle valenze rivoluzionarie tanto nelle forme quanto nei contenuti, un po’ come fanno in parallelo Gaetano Liguori o Guido Mazzon.
A distanza di oltre un quarantennio chiedo subito a Tony se, con il senno di poi, siano davvero formidabili (come titola Mario Capanna un libro di memorie) quegli anni Settanta, quando fonda l’OMCI, Organico di Musica Creativa e Improvvisata con Renato Geremia ai fiati e Mauro Periotto al contrabbasso: «Non formidabili ma importanti in quanto artisticamente parlando hanno portato ad un cambio radicale nel modo di suonare e di comporre. Sono stati anni di ‘sostituzione’, di cambiamento di concezione, non di trasversalità o revival come accade oggi. Sopratutto nel ritmo, che con una velocità impressionante, quasi Futurista, cambiava il rapporto con gli altri strumenti e obbligava anche i solisti e i compositori a fare cose diverse. Senza falsa modestia l’OMCI è stato per l’Italia una bomba. Lo hanno ravvisato sia il successo internazionale (rimosso dall’imperante revisionismo culturale) che gli addetti ai lavori in quanto eravamo a metà tra il free americano e le nuove concezioni europee. Anni importanti perché esisteva un rapporto diffuso con la territorialità. Oggi tutto ciò è diventato virtualità mediatica. Certo ho avuto la fortuna di esserci. Era la mia generazione. Una vera fortuna conquistata a caro prezzo».
Suonando soprattutto con gli esponenti dei radicalismo europeo, tento di capire assieme a Tony cosa muti via via nel jazz e nei tradizionali ruoli di solista e accompagnatore: «Pur essendo tra i più giovani, il tempo storico era quello. E per i percussionisti è stato un modo di provocare o accettare la natura dell’emancipazione ( non c’è nella musica improvvisata e nel jazz in generale nessun cambiamento se non cambia la concezione ritmica. Ma non muta niente se non hai l’interplay intellettuale con i partner). È stato un modo di cambiare la concezione ritmica senza dimenticare il ritmo. Un po’ come praticavano Lacy o Rutherford, Parker e Mengelberg ecc. ecc.. Non occorreva pensare di abbandonare ideologicamente il ritmo per entropia degli stili ( questo lo aggiungo io). Ma di accogliere e trasformare. Senza negare niente e nessuno. Mica facile!!! Oggi non è così. Gli artisti si preoccupano di ‘comunicare’ e di ‘esserci’. Quindi di fare revival e di imitare, cosa che paga sempre, perché il già detto al pubblico di oggi piace molto ( ma anche agli assessori e agli organizzatori). Sono stati educati a questo no? Per fortuna non è sempre così. Centro e margine. Poi il margine ritorna al centro trionfante, non minoritario usando anche le tradizioni ma senza stili ed epoche precise».
Il tal senso per Tony la batteria nei momenti topici diventa «(…) una sorta di emancipazione del ritmo che accoglie parametri di suono. Insieme questi elementi mi fanno assumere un atteggiamento artigianale verso i materiali di cui ho bisogno. E comincio lo studio con questi. Normalmente provo moltissimo studiando appunto i ‘momenti topici’. Ma ho suonato anche lo stile di Detroit e il rock! Ho fatto l’orchestrale a lungo». E qui forse interviene per lui la lezione dei grandi batteristi afroamericani nella linea Kenny Clarke, Max Roach, Art Blakey, Elvin Jones, Billy Higgins, che va dal bop al free: «Per le percussioni ecco una parte dello studio a cui mi riferivo. Possiamo noi praticare live quelle musiche senza fare del banale revival? Poi per me che mi occupo di composizione c’è un’ulteriore dose… In loro ci sono i germi della modernità. Aggiungiamo pure Philly Jo Jones, gli ellingtoniani e Roy Haynes. L’elenco comunque sarebbe più lungo».
Fra le produzioni recenti esiste per Tony un DVD – Il tempo dell’acqua, il tempo della musica (2009) – con lui e il chitarrista inglese Fred Frith, dove c’è la batteria ma set di percussioni: «Conoscendo meglio il filmato davo io i tempi dei cambi e degli stacchi cercando di cambiare situazione ogni volta all’interno del tappeto sonoro di Fred che non è un improvvisatore canonico ma è un compagno di avventura con il quale mi sono trovato a meraviglia. Quindi Suono, ritmo e combinazioni aeree istantanee. Al contrario non avrei fatto il DVD».

