«BLUES FOR THE FISHERMAN», UNO DEI CAPOLAVORI DI ART PEPPER DA RISCOPRIRE
«Blues For Fhe Fisherman» è a tutti gli effetti un lavoro di Art Pepper come band-leader ma, per motivi contrattuali, venne attribuito inizialmente al pianista Milcho Leviev.
// di Francesco Cataldo Verrina //
«Blues for the Fisherman» sottolinea definitivamente l’abbandono da parte di Pepper di alcuni moduli espressivi tipici del jazz californiano. Analizzandone oculatamente la parte terminale della carriera, si comprende come l’audacia e la marcata espressività del sassofonista fughino qualsiasi idea di un Pepper officiante per conto della congrega jazzistica del Pacifico. Nelle due tormentate notti londinesi al Ronnie Scott Club, l’altoista fa esplodere tutto il suo sturm und drang, smentendo ogni aspettativa di una performance leccata, cool o semifredda e seppellendo un ammasso di luoghi comuni sulla sua genetica appartenenza al West Coast Jazz. Il contraltista interagisce con il pubblico, si diverte, parla, ne percepisce il calore ed il consenso, ricambiando gli avventori con la stessa moneta. L’ambiente accogliente e ricettivo favorisce il modo di suonare di Pepper, che diventa vivace e generoso, magnificato dalla sinergica telepatia stabilita con il suo line-up.
Art era un musicista che non si risparmiava mai davanti al pubblico, ma in tale circostanza sembrava volesse dare di più. Pepper dimostrò di essere vivo ed attivo, in costante contatto con la sua musa ispiratrice, agganciò immediatamente il suo stile alla modernità, forte dell’influenza di Coltrane, sbaragliando ogni aspirante al trono del sax alto in ambito post-bop; soprattutto fu inarrestabile accumulando una mole di concerti e di dischi impressionante: suonò, compose, registrò e viaggiò senza sosta come se quei quindici anni d’interruzione non ci fossero mai stati. «Blues For The Fisherman» offre la rara opportunità di ascoltare due set completi ripresi in un locale, senza interruzioni, compresi gli scambi di battute con il pubblico. Fisherman era il defunto Chris Fisherman. Questo tale viene presentato come un uomo d’affari, un fuorilegge e una specie di maneggione tuttofare, il quale, facendosi passare per avvocato, era riuscito a tirare Pepper fuori dai guai per una bega legale per via di una piccola dose di cocaina, convincendo un assistente del procuratore distrettuale che il caso in oggetto fosse inconsistente e che doveva essere archiviato.
La storia di queste registrazioni è alquanto singolare. Forse ingenuamente o proditoriamente, il 27 e 28 giugno 1980, i proprietari del Mole Jazz Record Store pensarono di riprendere le performance di Pepper e compagni al Ronnie Scott Club di Londra, per poi pubblicarle su una loro fantomatica etichetta, senza contare che il vincolante contratto di Pepper con la Galaxy Records ne impediva la pubblicazione a suo nome che, inoltre, non permetteva l’immissione sul mercato di qualsiasi composizione del contraltista precedentemente registrata per la stessa Galaxy. Per dire una banalità: fatta la legge, trovato l’inganno. Così fu subito messo in atto un escamotage e quelle performance vennero date alle stampe a nome del pianista Milcho Leviev, con il titolo di «Blues For The Fisherman» (Mole, 1980) e «True Blues» (Mole, 1981). I quattro set delle due serate recuperati dalla Widow’s Taste aggiungono un tassello importante alla discografia di Art Pepper. La serie «Blues For The Fisherman» offre la rara opportunità di ascoltare due date complete e ininterrotte in un club, comprese le battute con il pubblico, in cui Pepper racconta del 1944 quando era stato assegnato alla polizia militare americana di stanza a Londra, ironizzando in maniera colorata: «dalla Carnegie Hall a San Quentin», ma soprattutto il contraltista non trattiene l’emozione e non fa mistero di essere sinceramente stato preso alla sprovvista dalla calorosa accoglienza dei sostenitori britannici.
Un club gremito di gente lo aiutava in parte a smaltire il nervosismo quando si trattava di registrare le serate. Art temeva di suonare in locali semivuoti. Spesso aveva l’incubo di trovarsi ad un concerto con tre persone sedute ai tavoli e mezze addormentate. Fortunatamente nelle due esibizioni di giugno, il Ronnie Scott Club straripava di gente, con grande gioia di Pepper. Le performance londinesi sono una radiografia profonda dell’arte di un jazzista che non nascondeva mai i limiti umani e terreni. Raramente Pepper appare come un musicista tout-court che suona con finalità ludiche, ma è sempre un uomo che, suonando, racconta la vita descrivendone gioie e dolori attraverso le note del suo strumento. In particolare, negli ultimi passaggi della carriera, il sassofonista dosa perfettamente componimenti originali e standard, alcuni dei quali erano diventati talmente suoi, al punto da essersi incarnati nella sua essenza narrativa. In soldoni, si potrebbe dire che certi classici, come li suonava lui, non li aveva mai suonati nessun altro. In effetti il contraltista e la sezione ritmica che lo accompagna al Ronnie Scott Club, il pianista Milcho Leviev più Tony Dumas e Carl Burnett al basso e alla batteria, non si attardano solo su pezzi evergreen, piuttosto dimostrano di essere un quartetto ben addestrato ad un repertorio misto basato, in massima parte, sui concepimenti creativi del band-leader, come «Ophelia», «Make A List» o «Red Car».
Anche composizioni provenienti da terze parti, quali «Sad A Little Bit» di Milcho Leviev o «A Song For Richard» del trombettista Joe Gordon sono ben incastrate nel portfolio del quartetto; così come il trattamento di bellezza apportato ad alcuni standard familiari come «What’s New», «Stardust», «Goodbye» e perfino ‘Rhythm-A-Ning’ di Monk, li restituisce al mondo rigenerati e ringiovaniti. Addirittura Pepper rispolvera il vecchio clarinetto, per una briosa corsa attraverso «Anthropology» ed una piacevole passeggiata su «In A Mellow Tone». Ad esempio in «Blues For Blanche», il sassofonista si muove sul piano inclinato della contemporaneità del jazz, giocando sull’attualità della melodia con un’improvvisazione irregolare, ma senza oltrepassare mai il confine del disordine destrutturato. C’è la rapidità del miglior Parker, ma anche la scioltezza espressiva di Coltrane e l’esoterismo di Shorter; soprattutto c’è Pepper con la sua personalità e nella sua forma mentis, capace di spaziare su un territorio libero senza perdere le coordinate del blues. Il contraltista cattura alla perfezione il nucleo vitale di «Rhythm-A-Ning», il manifesto monkiano suonato da tanti ed in molte salse, ma Art riesce a farne qualcosa di personale distillando, in alcuni passaggi, gruppi di note alimentate da un tono sofferente, tanto da rasentare un grido. Dal canto suo, il pianista Milcho Leviev segue la forma ma aumenta la durezza del gioco deviando per un breve tratto dalla melodia e dal ritmo di base. Di particolare rilievo sono «Red Car» riproposta nella solita veste gospel-funk, «Goodbye» di Gordon Jenkins consegnata quasi con un mood alla Parker, e «Blues For The Fisherman», l’inevitabile tributo al caro amico e «avvocato».
Tratto dal libro «Art Pepper. Sul filo dell’Alta Tensione» di Francesco Cataldo Verrina, Kriterius Edizioni, 2022