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Lester Young – «The President Plays With The Oscar Peterson Trio», 1957

// di Francesco Cataldo Verrina //

Lester Young, detto il «Presidente», rappresenta un’importante cinghia di trasmissione fra il jazz dell’era pre-bellica, il periodo legato alle big band e quello dell’era bebop. A differenza di altri coevi, Lester riuscì a debordare, a passare il guado e continuare la sua attività assecondando le istanze e gli stilemi imposti dal genere che andava affermandosi. Al pari di Coleman Hawkins, sia pure con modalità di sviluppo e d’impiego diametralmente differenti sullo strumento, va considerato come uno dei padri fondatori del sax moderno. Entrambi operarono delle innovazioni basilari sul sassofono, che con l’arrivo del bop surclasserà perfino la tromba, divenendo lo strumento per eccellenza: Charlie Parker, Sonny Rollins, Dexter Gordon, John Coltrane, Ornette Coleman, solo per citare alcuni dei personaggi che hanno cambiato il corso della storia del jazz acustico.

Young era originario dalla Louisiana, dove imperversava lo stile Kansas City, ma avendo trascorso molto tempo a Minneapolis, era riuscito a staccarsi da alcuni moduli standard divenendo, alla medesima stregua di Coleman Hawkins, uno dei pochissimi sassofonisti tenori a sviluppare un suo personalissimo stile, rimodellando le influenze del passato. Nel corso degli anni furono davvero pochi i tenori che non avessero preso in prestito qualche spicciolo di idea dal «Presidente». Lester era un uomo dall’indole assai mite che amava galleggiare dolcemente sulle ballate lente, anche se mostrava di saper espellere dal mantice bombe di energia cosmica, sia pur controllata. La sua personalità si rifletteva, però, in maniera speculare sul suo modo di suonare; aveva preso l’abitudine di suonare tenendo lo strumento molto inclinato, a volte quasi orizzontale; portava uno strano cappello schiacciato, indossava un lungo cappotto nero che gli arrivava fino alle caviglie e chiamava tutti e tutto lady, uomini, strumenti e oggetti; si era perfino convinto di avere poteri paranormali. Il tono etereo di Young, quell’andamento sempre lineare, ruffiano, quasi annebbiato, ammiccante, ma senza eccessi, soprattutto con un preciso e metronomico senso del tempo, gli hanno fatto guadagnare schiere di devoti seguaci ed imitatori, nonché di incalliti sostenitori. Non mancarono, però, i detrattori.

Molti sostenevano, a torto, che non fosse più in grado di suonare autonomamente, manifestando delle improvvise perdite di lucidità, a causa di una tragica esperienza sotto la vita militare durante la seconda guerra mondiale; mentre risulta vero e comprovato che Young soffrisse di lunghi periodi di depressione e di cadute nell’alcolismo e nella tossicodipendenza, dovuti agli sconvolgenti effetti determinati dalla sua permanenza nell’esercito negli anni del conflitto e che quel nuovo tono, così minimale e controllato, fosse solo il residuo, una minima parte del suo originario modo di suonare sopravvissuto alla destabilizzante esperienza bellica, di cui restano tracce assai frammentarie nelle primitive registrazioni delle grandi orchestre di cui aveva fatto parte.

«The President Plays With The Oscar Peterson Trio» nasce dalla fusione con «Lester Young With The Oscar Peterson Trio», due album registrati entrambi nel novembre del 1952, che testimoniano il contrario del fatto che Young non fosse più all’altezza di suonare in maniera convincente dopo la tragica esperienza militare. A questo punto della sua carriera, Lester stava optando per una semplice sezione ritmica a sostegno delle sue performance dal vivo e delle registrazioni in studio, anziché impelagarsi nell’allestimento di una nutrita big band, sul modello di quelle che lo avevano reso celebre. Il cambio di stile, forse, fu dovuto a fattori anagrafici: mentre invecchiava Young cominciò a concentrarsi maggiormente sulle ballate. Ovviamente, nulla di tutto ciò dimostra che il suo modo di suonare fosse limitato o appannato rispetto a ciò che sapeva esprimere con il sax prima della guerra. L’album in oggetto riesce a confutare e respinge qualsiasi tesi accusatoria o semplice illazione in merito. Ci fu un episodio che lo danneggiò molto, ossia il parere di un autorevole critico dell’epoca, il quale paragonò il modo di suonare di Lester a quello di una «tromba d’auto», stroncandolo ferocemente.

In verità gli stampi espressivi di Young erano innovativi, rispetto a quelli dominanti nella vecchia guardia, ma poco rivoluzionari rispetto alle nuove istanze del jazz moderno (che vedrà come primo vettore Charlie Parker), siamo ancora nell’ambito di un tipo di musica al suo stadio larvale, quando il tradizionale swing stava per cedere il passo al novello bop, soprattutto Lester non fu mai un bopper vero e proprio. Il suo registro sonoro si lega di più ad una sorta di cool ante-litteram; ecco perché venne più alla ribalta il timbro passionale e dalla voce quasi umana del tenore di Coleman Hawkins, mentre furono in pochi ad essere attratti dal fascino sottile di Young, che si esprimeva con un suono ombroso, a volte più smooth, e con un andamento rilassato e indolente. Ma fu la sua vita ad essere dominata dall’indifferenza: amava lasciarsi trasportare dagli eventi e quella musica era l’unico modo con cui riusciva a comunicare con il mondo. Il tempo, però, rende giustizia e lo stile di Lester Young cominciò ad essere amato ed apprezzato soprattutto dai una folta schiera di sassofonisti e strumentisti bianchi, di cui un cospicuo numero andrà a costituire l’ossatura di quella che verrà chiamata scuola West Coast ed, in massima parte, artefici della breve stagione del cool jazz.

«The President Plays With The Oscar Peterson Trio» inizia con «Ad Lib Blues», composta dallo stesso Young. Il Presidente appare più spiritato del solito, mostrando una completa padronanza dello strumento: per un attimo sembra di sentire Charlie Parker. La musica si dirige dove lui vuole, l’improvvisazione è minima, ma non tutto sembra che sia stato deciso a tavolino. Si ha come l’impressione che Young voglia portarsi in avanti rispetto alla sezione ritmica, fluttuando sulla melodia con un tono limpido ed argenteo. I suoi assoli salgono e scendono, apparentemente ignari del resto della compagnia, che comunque non ha difficoltà a sostenere i tempi ed i modi tracciati dal leader, anzi sembra che siano risucchiati nel vortice sonoro disegnato da Young.

La musica è diretta, senza progressioni impegnative o corse sfrenate e fuochi d’artificio. La maggior parte del set procede in modalità Lester Young senza eccessivi scossoni con «I Can Not Get Started», «Tea For Two» e «These Foolish Things», dove, ogni volta, il Presidente apporta alcune variazioni sul tema come piccoli colpi di scena. Il tono lussureggiante di Young si avvolge attorno alle ballate più lente, in particolare «I Can not Get Started», una specialità della casa insieme a «Stardust» altrettanto avvincente; mentre in «On The Sunny Side Of The Street» il sassofono sembra sorridere, coinvolgendo l’ascoltatore con qualche sprazzo di allegria. Lester era noto per il suo voler concedere ampio spazio ai colleghi ed il Peterson trio suona in maniera impeccabile: in primo piano ci sono soprattutto alcuni assoli del chitarrista ospite Barney Kessel, ma questo disco appartiene a Young, contiene tutta la forza pura della sua personalità. Queste session senza di lui difficilmente sarebbero passate alla storia. Nel 1952, quando l’album fu registrato, Lester Young era legato alla big band di Count Basie. Ciò dimostra come il Presidente fosse riuscito a passare agilmente all’era post-swing del piccolo ensemble. Peterson era un brillante pianista con il quale tutti volevano suonare, incarnando la figura del sodale compiacente, comprensivo e tollerante, affiancato da ottimi comprimari come il chitarrista Barney Kessel, il bassista Ray Brown e da J.C Heard alla batteria.

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