// di Guido Michelone //
Franco Piana è uno dei grandi jazzisti italiani e alla tromba un solista assai originale, con pochi eguali, erede aggiornatissimo della tradizione ‘californiana’ eredita in famiglia, visto che sin da giovane ascolta il jazz del massimo ensemble dell’epoca, quel Basso-Valdambrini Quintet che diverrà spesso ‘Plus Dino Piana’, ossia il padre al trombone, padre ulttranovantenne con il quale ancora di recente Franco realizza album stupendi come Seasons, Reflections, Seven. Quella che segue è una recentissima inedita chiacchierata con Franco che si conferma persona di grande spessore sotto ogni punto di vista.
D.Franco, ci racconti brevemente la tua vita di musicista?
R. Ho iniziato a 16 anni suonando in quintetto con mio padre, poi ho frequentato il corso di jazz tenuto dal M. Giorgio Gaslini al Conservatorio di S. Cecilia e quindi ho iniziato a suonare nei gruppi che si stavano formando a Roma alla fine degli anni ‘70: Grande Elenco Musicisti di Tommaso Vittorini e la Jazz Studio Big Band di Alberto Corvini. Nel frattempo ho studiato, con il M° Giancarlo Gazzani, arrangiamento ed orchestrazione per Big Band e grazie ad Alberto Corvini ho iniziato a scrivere per Jazz Orchestra. Nei primi anni Ottanta, ho avuto il privilegio di far parte del Sestetto PianaValdambrini e devo dire che quest’esperienza è stata per me molto importante, una vera scuola. Ho imparato con loro il rigore di suonare in sezione, ma allo stesso tempo la libertà nell’ improvvisazione. Mio padre ed Oscar erano moto puntigliosi sulla precisione delle esecuzioni, sul suono e sull’intonazione, ma lasciavano giustamente molta libertà alla componente improvvisativa.
D. Se non erro, Franco, nel 1982 sei entrato a far parte della mitica orchestra della Rai…
R. E anche questa è stata un’esperienza molto formativa. Ho avuto infatti l’opportunità di collaborare, oltre che come trombettista, anche come arrangiatore con Maestri come Bruno Canfora, Gianni Ferrio ed Armando Trovajoli. Proprio con quest’ultimo ho collaborato a lungo alla realizzazione di un cd a lui dedicato, arrangiando le sue composizioni più importanti: “Omaggio ad Armando Trovajoli” Dino & Franco Piana Jazz Orchestra. Anche questa rimane per me un’esperienza indelebile, così come quelle con Bob Brookmeyer, Mel Lewis (che ha avuto la bontà di commissionarmi due arrangiamenti per la sua orchestra), Bob Mintzer e Chet Baker, uno dei miei idoli. In una trasmissione radiofonica, curata da Adriano Mazzoletti, ho avuto l’onore di suonare con lui, fu una grande emozione! Negli ultimi anni ho realizzato quattro cd con il Dino & Franco Piana Ensemble (pubblicati dall’etichetta italiana Alfa Music), che contengono mie composizioni e arrangiamenti e che mi hanno dato davvero grandi soddisfazioni. Di un paio di anni fa è invece il disco “Al gir dal bughi” , registrato con mio padre e l’amico Enrico Rava. Ora collaboro stabilmente con la bravissima pianista e compositrice Stefania Tallini, con la quale ho realizzato l’album “E se domani” (sempre per Alfa Music) e con cui svolgo una intensa attività concertistica.
D. Facile o difficile, per te, nel jazz, essere il figlio del grande Dino Piana?
R. All’inizio difficile, perché sentivo la responsabilità di essere all’altezza della situazione. Pensa, a soli vent’anni circa, mi trovavo a suonare con mio padre, ma anche con Oscar Valdambrini, Gianni Basso, Franco Cerri, Dusko Goykovich e tanti altri grandissimi musicisti. Potrai capire quindi l’impegno e la dedizione che mettevo in questo confronto continuo con artisti di quel calibro. Poi, grazie anche ai loro incoraggiamenti, è aumentata la fiducia e la consapevolezza che nel Jazz non devi rincorrere nessuno, ma solo cercare profondamente te stesso e la tua identità artistica.
D. Parliamo del tuo strumento, la tromba: come e quando l’hai approcciata?
R. A circa 6 anni. Prima me la costruivo con il Lego imitandone il suono con la voce, cosicché mio padre ha pensato bene di regalarmene una vera. Fu una grandissima emozione per me avere finalmente lo strumento che sognavo di suonare!
D. Quali sono i trombettisti a cui ti sei ispirato e quali riconosci fondamentali per la storia del Jazz?
R. I trombettisti a cui mi sono ispirato sono stati: Chet Baker, Miles Davis e Clifford Brown. E ovviamente anche quelli fondamentali per la storia del Jazz: Louis Armstrong, Roy Eldridge, Dizzy Gillespie, Miles Davis.
D. Parliamo ora in generale del Jazz. Cos’è il Jazz per Franco Piana?
R. È come un viaggio dentro me stesso, una forma d’espressione molto profonda che mi permettere di esprimermi. Ma non sempre riesco a farlo come vorrei, perché questo dipende da molti fattori: la tromba o il flicorno sono strumenti molto “fisici”, per cui basta che il labbro non sia in perfette condizioni o che l’emotività sia alta, ed ecco che non si riesce a dire quello che vorresti…e tutto ciò può diventare davvero frustante, a volte!
D. In quale preciso momento e in che modo ti sei avvicinato al Jazz?
R. Ricordo perfettamente quando a circa cinque anni ascoltavo i dischi con mio padre, che mi piacevano e mi emozionavano tantissimo! Al punto che poi, quando lui usciva, me li facevo mettere da mia madre e li ascoltavo tutto il giorno. Proprio attraverso questi ascolti continui, avevo imparato tutti i soli dei musicisti dell’orchestra di Count Basie e li canticchiavo mentre giocavo, come molta naturalezza e fluidità, come se per me fosse una cosa normale. Mi divertivo da morire, questo era il mio gioco più importante! Mio padre un giorno tornò a casa e mi ascoltò, non immaginando minimamente ciò che avrebbe scoperto: aveva un figlio che “scattava” con una precisione e uno swing incredibili! Per poco non svenne!
D. Quanto gioca l’improvvisazione nel tuo Jazz?
R. Ha un ruolo fondamentale, si chiudono gli occhi e si cerca la frase, una piccola ispirazione su cui impostare il solo… Ma, come dicevo prima, non sempre questo si riesce a trovare e allora subentra l’esperienza, la pratica di tanti anni, che ti permette comunque di tenere un livello alto. Ma quando questa cosa accade sicuramente mi diverto meno e provo meno soddisfazione.
D. Cosa significa per te l’improvvisazione musicale?
R. Significa trovare la libertà nel rigore: gli standard sono costruiti su un giro armonico che bisogna assolutamente rispettare. Questo significa studio dell’armonia, degli accordi, delle scale, del fraseggio, ma poi bisogna usare tutto questo con la massima libertà e portare tutto nell’espressività musicale e jazzistica. E in questo l’improvvisazione diventa ricerca e rischio continui. Quando si riesce a far confluire queste componenti in un linguaggio musicale libero, si è già a buon punto! Tra l’altro in questo periodo, come ho detto, sto suonando con la bravissima Stefania Tallini che mi ha introdotto all’improvvisazione libera, totale, istantanea senza vincoli armonici, ritmici o melodici. Questa è per me una scoperta entusiasmante e molto stimolante, perché mi porta su una strada che non avevo mai percorso prima e nella quale – nonostante la totale libertà – sono necessari comunque il rigore, l’ascolto reciproco, la sintonia, l’interplay e il senso della forma, ma in un modo totalmente diverso. E’ come dipingere un affresco in due, le pennellate devono essere in simbiosi, altrimenti il quadro sarà insignificante.
D. A cosa pensi quando suoni o improvvisi?
R. Penso a cercare un’ispirazione, da dentro di me in primis, ma a volte anche a partire da una frase lasciata dal musicista che mi precede, per esempio, che poi posso sviluppare tra rimandi e stimoli, nel continuo scambio con l’altro.
D. Pensi che il jazz si debba occupare di politica o della realtà sociale?
R. Il Jazz è una vera forma d’arte, tra le più importanti del ‘900 direi, ed in quanto tale è anche politica e sociale. Naturalmente intendo la “politica” nella sua forma più alta, dove l’artista è sempre creatore del “bello”, ma anche orienta la sua arte a partire dalle proprie esperienze nella società in cui vive. Ci sono dei veri capolavori in tal senso, ad esempio la meravigliosa Suite di Duke Ellington “Black, Brown & Beige,” “Alabama” di John Coltrane, “Peace Piece”di Bill Evans, solo per citarne alcuni.
D. Come vedi la situazione del Jazz (ma anche più in generale della musica, dell’arte, della cultura) oggi in Italia?
R. Trovo che, per quanto riguarda il Jazz la situazione sia abbastanza controversa: i dischi non si vendono più ed i social network hanno preso il posto della radio ed in parte della televisione, ed è tutto più frammentato. Però aumentano i Festival del Jazz e vedo il pubblico sempre più appassionato. Per quanto riguarda i musicisti trovo che oggi ci sia una preparazione tecnica sorprendente ed anche una buona progettualità da parte dei più giovani, ma credo che il coraggio di ricercare debba venire soprattutto dalla consapevolezza e dalla conoscenza delle nostre radici e delle radici del Jazz e ciò non sempre è riscontrabile, a mio avviso. Un discorso, questo, che comunque ritengo possa adattarsi totalmente all’arte e alla cultura in generale.
Bellissima intervista al mio caro amico e paesano Franco, che conosco sin da ragazzo ,quante estate passate insieme,grazie a lui e al Dino ho conosciuto il Jazz, grandi artisti della musica.
Guido Michelone è un perfetto anfitrione, sa come estrapolare il meglio dai propri intervistati.