FERDINANDO FARAÒ

// di Guido Michelone //

Conosco abbastanza bene Ferdinando dai tempi della Pollocksuite (2007) quando, un paio d’anni più in là, io e la poetessa Francesca Tini Brunozzi, assieme a un team di esperti, dal filmologo Enrico Terrone al critico Franco Bergoglio, veniamo per così dire ‘incaricati’ di costruire una serie di eventi pluriartistici attorno a una mostra sul pittore Jackson Pollock che, grazie alla Fondazione Guggenheim di Venezia, si tenne per circa tre mesi nella cosiddetta Arca dell’ex Chiesa di san Marco di Vercelli. Ricordo bene che io e Bergoglio siamo i protagonisti di una conferenza sui rapporti tra il jazz e il padre dell’action painting, mentre è Faraò l’assoluto protagonista della sezione musicale. Per lui non è in assoluto la prima suite, giacché tre anni prima c’è una Eschersuite dedicata appunto al grande surrealista olandese, mentre poi arriveranno una Darwinsuite (e tanti altri progetti a tema) e via via con la costituzione della Artchipel Orchestra gli omaggi a Phil Miller, Soft Machine, Lindsay Cooper fino all’apoteosi del 20022 sia con l’album Musiche di Jonathan Coe” sia con lo stesso organico, entrambi votati al primo posto nel referendum di un noto mensile lombardo. In quest’intervista inedita per Doppio Jazz Ferdinando ci racconta un po’ di se stesso attraverso il duplice dono (o virtù) della sin tesi e della precisione.

D. Ferdinando, ci racconti brevemente la tua vita di musicista?

R. Beh è un po’ lunga la storia. In breve diciamo che comincio a muovermi verso la metà degli anni ’70 suonando in vari gruppi per approdare verso la fine di quel decennio al Capolinea di Milano dove comincio a fare esperienza con i musicisti di quell’area. In quel periodo ho preso parte a importanti gruppi come quello di Claudio Fasoli e Tiziana Ghiglioni, che sono stati per me particolarmente formativi. Negli anni seguenti la mia vita da musicista si dipana attraverso un lungo periodo di collaborazioni come sideman, suonando nei club, in un po’ di Festival e in qualche tournée. Nei decenni che seguono ho occasione di registrare diversi dischi, alcuni dei quali anche a mio nome. Poi tredici anni fa ho fondato un’orchestra con un collettivo di musicisti di Milano: l’Artchipel Orchestra, col quale sto continuando a fare delle cose.

D. Facile o difficile, per te, ottenere i premi al top jazz 2022?

R. Considerando la mole di produzione di dischi e i numerosi gruppi e musicisti in continua crescita ed evoluzione penso che il lavoro dei votanti al referendum annuale indetto da Musica Jazz non sia affatto facile. Per quanto mi riguarda invece posso dire che con Artchipel Orchestra facciamo del nostro meglio, impegnandoci a fondo, a prescindere dai riconoscimenti, che intendiamoci ci fanno molto piacere quando arrivano.

D. Parliamo del tuo strumento, la batteria: come, quando e dove hai suonato per la prima volta?

R. Forse in un garage o una cantina… sicuramente con dei miei amici. Ricordo la prima volta che sono stato pagato per suonare: è stato con un gruppo che faceva parte della cooperativa l’Orchestra di Milano, eravamo in Trentino a una festa dell’Unità.

D. Quali sono i batteristi a cui ti sei ispirato e quali riconosci fondamentali nella storia del jazz?

R. Ho ascoltato molto la musica di John Coltrane, Miles Davis, Paul Bley, Bill Evans, Keith Jarrett, Theolonius Monk, Albert Ayler, Eric Dolphy. I batteristi che mi hanno lasciato un segno sono tanti… Elvin Jones, Max Roach, Tony Williams, Roy Haynes, Paul Motian, Jack DeJohnette, Sunny Murray e tra gli europei Tony Oxley, Daniel Humair, Jon Christensen…

D. Discutiamo ora più in generale del jazz. Quando lo hai sentito per la prima volta?

R. Papà aveva molti dischi di jazz in casa ed entrambi i miei genitori erano molto appassionati di questa musica. Il jazz girava spesso nelle mie orecchie, era nell’aria, si respirava. Un giorno mi portarono al concerto dell’orchestra di Duke Ellington, al teatro Lirico di Milano. Quella fu la prima volta che ascoltai jazz dal vivo, avevo 11 anni.

D. In quale preciso momento e in che modo ti sei avvicinato al jazz da musicista?

R. La mia formazione ha seguito un percorso inverso al normale iter. Ho cominciato i primi anni a suonare e a studiare la batteria come autodidatta in modo spontaneo e imitativo ascoltando dai dischi, poi ho frequentato la scuola di Enrico Lucchini e in età matura mi sono diplomato in Conservatorio. Ho “orbitato” intorno al jazz in tutti questi anni e lo faccio tuttora, è uno stato di avvicinamento perenne e costante.

D. Ma che cos’è per te il jazz?

R. Il jazz è un linguaggio con una sua specificità, con dei marcatori che ne definiscono i tratti fondamentali, “confini” però che non sono “impermeabili, anzi… lo dimostra la sua continua evoluzione, il suo dialogo incessante con tutto ciò che gli gira intorno, che si declina in una infinità di modi.

D. Quanto gioca l’improvvisazione nel tuo jazz?

R. Posso ritenermi fortunato di collaborare con musicisti con i quali posso esprimermi in un ambito in cui l’improvvisazione è il punto “cardine”, gioca molto e ricopre un ruolo fondamentale.

D. Che cosa significa per te l’improvvisazione musicale?

R. Immergersi, scomparire e poi riemergere in illimitate variazioni.

D. Tu trovi più a tuo agio a comporre, dirigere o accompagnare?

R. Sono tutte cose che mi coinvolgono profondamente.

D. Pensi che il jazz si debba occupare di politica o della realtà sociale?

R. Il jazz è sempre stato sinonimo di inclusione, apertura, integrazione e accoglienza e non a caso è spesso stato affiancato al tema dei diritti umani.

D. Come vedi la situazione del jazz (ma anche più in generale della musica, dell’arte, della cultura) oggi in Italia?

R. Premesso che abbiamo un patrimonio culturale immenso di musica, arte, pensiero con un panorama di numerosi progetti davvero interessanti mi preme porre una riflessione alla tua domanda. La mia impressione, del tutto personale intendiamoci, è che oggi anche in campo culturale si ponga molta attenzione al “prodotto”. Non voglio demonizzare questa cosa intendiamoci, mi sembra solo che in questo quadro si dia poca importanza e si favoriscano poco i “processi”, cioè quelle realtà in campo artistico, musicale, jazz, che nascono da un libero e spontaneo associazionismo, che sono molto interessanti a mio avviso, soprattutto per il loro valore socioculturale. Non sono poi antitetiche al mercato, si possono anche “alleare” ai valori commerciali e al contempo essere dei volani economici e favorire modelli culturali “altri”, che possano ad esempio fondarsi su realtà “plurali” come quelle delle orchestre.

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