GIANNI MORELENBAUM GUALBERTO: CONVERSAZIONE CON GUIDO MICHELONE, JAZZ E NON SOLO

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// di Guido Michelone//

D. Così, a bruciapelo chi è Gianni Morelenbaum Gualberto?

R. Non sono Federico Moccia, ecco. E, dunque, non posso paragonarmi a Jack London, né scrivere una tesi di laurea su me stesso. A parte gli scherzi, sono un americanista, più di ogni altra plausibile definizione. Le Americhe, la loro storia e la loro cultura sono state il mio interesse primario, non solo perché nato in Brasile, dove ho vissuto fino a tutta la mia adolescenza e dove continuo a tornare. Vasto programma, come si dice, e non esauribile in una vita. Vi è però una logica che unisce il continente americano nelle sue tre aree principali, anche se talvolta può non evidenziarsi con chiarezza: l’elemento anglosassone, l’elemento ispanico e quello africano vi hanno interagito per secoli, riflettendo peraltro anche dinamiche sviluppatesi in Europa. Solo il Brasile ha avuto uno sviluppo a parte, largamente condizionato dalla presenza africana, a causa della sua “separatezza” dell’impero spagnolo, sancita del trattato di Tordesillas: vastissimo territorio segnato assai tardivamente, rispetto alla sua scoperta nel 1500 da parte del navigatore lusitano Pedro Álvares Cabral, dalla presenza portoghese e, perciò, nel suo prolungato stato di abbandono, capace di sviluppare un contesto culturale assai ramificato quanto originale ma che, ciononostante, presenta non pochi punti di contatto con alcuni tratti della cultura africano-americana.

D. Se non erro le tue radici sono per così dire multietniche…

R. Sono nato in una famiglia in cui si mescolavano presenze angolane, francesi, spagnole, portoghesi, polacche, ucraine ed ebraiche. Le radici fortemente socialiste del Bund, Algemeyner Yidisher Arbeter-bund in Lite, Poyln un Rusland, il sindacato ebraico diffuso nell’Est europeo e nell’impero russo, facevano parte della tradizione materna, mio padre nutriva idee socialiste ma venate di un nazionalismo panamericano che definirei bolivarista: i miei studi, fin da ragazzo, sono stati contrassegnati perciò dall’aspirazione alla liberazione delle Americhe dal giogo culturale europeo. Il jazz, sotto questo profilo, è stato fondamentale nell’offrirmi una chiave d’accesso, un’idea di libertà costruita su concezioni linguistiche prevalentemente extra-europee. Per quanto il continente latino-americano abbia avuto un rapporto complesso con un vicino di casa ingombrante come gli Stati Uniti, il modello culturale più stimolante, interessante, dinamico rimane quello del laboratorio poli-etnico e poli-culturale statunitense e la sua progressiva capacità di forgiare, pur fra resistenze violente, una cultura nazionale in grado, a poco a poco, di elaborare e comprendere ed espandere le sue innumerevoli fonti. In una nazione contrassegnata dagli hyphenated-American, il tanto chiacchierato melting pot comincia a manifestarsi adesso e trova una controparte attiva nella teoria dell’Antropofagia brasiliana, risposta democratica al peso e alle resistenze esercitati dalla cosiddetta hispanidad, definita da Américo Castro e altro côté di provenienza europea di cui, nelle Americhe, dobbiamo imparare a tagliare gli artigli, eredità di un colonialismo feroce. Non si tratta di cancellare (la cancel culture è una manifestazione iconoclastica emotivamente comprensibile ma necessariamente transitoria), bensì di contenere e di evitare il sussistere di una prevaricazione sedimentata della quale il neo-colonialismo vorrebbe approfittare.

D. Mi racconti ora il primo ricordo che hai della musica?

R. In famiglia, soprattutto dal lato materno ma non solo, lo studio della musica, soprattutto accademica, era comune, per maschi e femmine. Sono cresciuto in una casa dove vi erano una grande biblioteca e una grande discoteca, espressioni di gusti assai diversi (mia madre di gran lunga più versata nella tradizione culturale yiddish e anglo-americana, mio padre un appassionato della musica brasiliana e del jazz), forse, nebulosamente, il primo ricordo ad avere un valore emotivo è l’ascolto di un 78 giri assai amato da mio padre, un’interpretazione di Blue Orchids di Hoagy Carmichael da parte di Benny Goodman con Louise Tobin.

D. Quali sono i motivi che ti hanno spinto a occuparti di musica e in particolare di classica e di jazz?

R. Come dicevo prima, la musica era abitualmente frequentata in famiglia (una mia zia acquisita per parte di padre, Guiomar Novaes, era stata peraltro una grande pianista). Crescendo in Brasile negli anni Sessanta e Settanta, nel pieno di una dittatura militare, la curiosità e la crescita culturale erano antidoti indispensabili nei confronti del regime. I miei studi sono stati del tutto accademici, il mio primo “innamoramento”, che dura a tutt’oggi, fu per Brahms. Non ho mai pensato di fare lo strumentista (ero un pianista indiscutibilmente mediocre), i miei interessi erano prevalentemente storici. Quanto al jazz, lo avevo frequentato sin da piccolo; in seguito, immergendomi nelle culture americane e statunitensi, la conoscenza si fece approfondita e, soprattutto direi, obbligatoria. Il jazz è una delle chiavi più significative per decodificare parte del Novecento musicale, americano e non. D’altronde, tutta la tradizione africano-americana riveste un ruolo di assoluto rilievo per lo studio delle tradizioni degli Stati Uniti.

D. Sei forse l’unico a ‘sapere’ tanto di jazz ‘quanto’ di classica: come mai questa ‘lacuna’ da parte degli altri?

R. Immagino che, aldilà delle proprie inclinazioni, dipenda da come ci si pone nei confronti di certa materia. È difficile decifrare il cosiddetto “jazz” senza recepire il suo effetto “contaminante” sull’accademia americana. Oggi come oggi, l’interazione fra musica improvvisata, jazz, tradizioni africano-americane (dal soul allo hip hop) e musica accademica americana (e non solo) è così frequente, intensa, radicata da escludere la possibilità di ‘leggere’ certi fenomeni senza avere una cognizione lessicale ampia.

D. Il ‘testo’ per il jazz è il disco?

R. Con buona pace di Croce e del crocianesimo che pervade certi atteggiamenti reazionari dell’arretrata critica musicale italiana, direi di sì, con tutti i rischi, i dubbi e gli interrogativi del caso (esiste veramente un’arte improvvisativa di valore compositivo? Come definire un assolo significativo che, per sua natura, tende alla fine a essere la codifica formale di una serie di segmenti sperimentati più volte dal vivo?). Ovviamente, la conoscenza diretta sul campo, anche a distanza di decenni o più, non può essere trascurata. Così come la preparazione storica e culturale è indispensabile, non meno di quella musicale e musicologica. Difficile, che so, faccio esempi a caso, analizzare certe forme musicali del Sud degli Stati Uniti senza avere letto una nota di Faulkner, Styron, Purdy o Lafcadio Hearn. Ha senso parlare dei fenomeni culturali africano-americani in ambito musicale senza conoscere una riga di James Rosamond Johnson, Langston Hughes o Zora Neale Hurston o James Baldwin? Ma persino Chester Himes è indispensabile. Come si fa a trattare buona parte degli standard senza avere approfondito il teatro di Broadway? Stiamo parlando di un’entità culturale che, con tutte le sue diramazioni, vanta ormai tre secoli di vita e più, senza voler toccare il suo sconfinato passato. Ma non è un problema solo italiano.

D. In che senso non soltanto italico?

R. La stessa critica e musicologia americane hanno dato frutti in larga parte irrilevanti, fatte salve alcune eccezioni. Anzi, spesso e volentieri gli americani si sono mostrati più superficiali degli europei, più portati al dare per scontato, poco inclini ad una lettura veramente approfondita di certi contesti socio-antropologici e, perciò, presi dall’analisi musicale più drasticamente eurocentrica e più insensibile nei confronti di determinate istanze storiche ed etniche, come l’analisi schenkeriana. D’altronde, ancora ci si accapiglia sul valore delle valutazioni di Theodor Adorno sul jazz e la musica popolare, senza realizzare che si tratta di materiale di scarto, duramente insensibile e, in fondo, ignorante della stessa società americana e, soprattutto, delle realtà africano-americane. In Adorno vi è un’inconsapevole ma sprezzante vena colonialista, alimentata da una lettura marxista rigidamente ignara delle realtà extra-europee. Il problema è che ancora oggi l’Europa non ha saputo o voluto leggere la sua decentralità e si comporta culturalmente come se ancora tutti dovessero misurarsi con l’unica arte possibile, quella bianca europea. Vi è meraviglia, curiosità, ma poco di veramente consapevole: la concezione razzista dell’’esotico’ permane anche in interlocutori apparentemente più aperti e più scevri da pregiudizi e stereotipi. Tutto, dall’arte alla sessualità, viene giudicato secondo i canoni del gusto occidentale, meglio ancora europeo: il complesso del dottor Pangloss è un qualcosa che nel contesto al di fuori dell’Europa va combattuto fortemente, ancorché possa provocare danni collaterali.

D. Ci puoi parlare della tua esperienza professionale?

R. Non avendo velleità strumentali, mi sono chiesto abbastanza presto cosa potevo fare con quanto andavo apprendendo giorno dopo giorno. Non volevo essere solo un topo di biblioteca né, riconosco, un didatta, anche se un minimo di legge del contrappasso mi ha portato a ricoprire il ruolo di docente. L’incontro casuale con Aldo Sinesio, allora patron della Horo Records, mi portò a frequentare concretamente il jazz e, poi, professionalmente, come produttore esecutivo di una serie di incisioni di Sun Ra, Steve Lacy, Max Roach, Ran Blake, Archie Shepp, M. E. V., Freddie Hubbard e altri. Un altro incontro casuale, con Roman Vlad, mi portò a lavorare al Teatro dell’Opera di Roma, prima come co-responsabile delle Attività Decentrate, poi come Assistente del Sovrintendente. In tale veste organizzai (erano i tempi di Renato Nicolini) il primo festival di jazz tenutosi in un teatro d’opera: vi parteciparono Sonny Rollins e Tony Williams, Tommy Flanagan, Betty Carter, Mel Tormé, George Shearing, Stéphane Grappelli, Marcus Belgrave, Curtis Fuller, Roy Brooks, Dave Burrell, Max Roach con il World Saxophone Quartet, Ran Blake con Lee Konitz, Anthony Braxton, George Russell. La stampa mi accusò di voler ‘normalizzare’ il jazz, Marco Molendini su «Il Messaggero» mi attribuì la curiosa idea di ricoprire il corpo del jazz con uno smoking. Folclorismi forse inevitabili nel 1978.

D. Puoi però vantare una prestigiosa collaborazione con un celebre musicista statunitense…

R. Un’altra conoscenza casuale, con Leonard Bernstein, mi portò per cinque anni a New York. Ritornato in Italia con un terzo matrimonio, italiano per l’appunto, ho collaborato lungamente con la RAI, ho lavorato al Teatro Bellini di Catania, ho diretto per ventidue anni la rassegna “Aperitivo in Concerto” al Teatro Manzoni di Milano, ho curato varie rassegne, soprattutto ho molto letto e ascoltato, ho imparato a fare tesoro del talento altrui, a gioirne e a goderne. Divulgare il talento di altri è stata la mia principale attività professionale, direi. Oggi ho preso a scrivere, sono al lavoro su di un ponderoso tomo sui rapporti fra musica e coscienza etnica negli Stati Uniti. Arrivato a quasi 68 anni devo imparare ancora molto, non ce la farò mai, ma quel poco che ho imparato lo metto a disposizione.

D. Ma cos’è per te il jazz (emotivamente e artisticamente)?

R. Il primo, fondamentale, cosciente, rivoluzionario momento di distacco artistico delle Americhe dal colonialismo e imperialismo europeo. L’affermarsi di sistemi policulturali e polietnici che oggi si apprestano a delineare, nelle Americhe e in Asia, il futuro culturale del XXI secolo, ha inizio a cavallo fra Ottocento e Novecento, nel ribollire delle Americhe.

D. Tra i moltissimi dischi che hai ascoltato ce ne è uno a cui sei particolarmente affezionato, al di là dei ‘soliti’ classici (Kind Of Blue, A Love Supreme, ecc.)?

R. Potrei citarne decine, forse centinaia e, ovviamente, di più generi musicali. Come gusto del tutto personale, citerei Money Jungle di Duke Ellington, con Charles Mingus e Max Roach.

D. E tra i dischi jazz italiani che hai ascoltato quale porteresti sull’isola deserta?

R. The Pilgrim and the Stars di Enrico Rava.

D. Domanda banale, ma necessaria: come se la passa oggi il jazz italiano?

R. Come tutto il jazz europeo: male. Premesso che in un Paese dalle strutture sociali in crisi, dall’economia rallentata da oltre un decennio, dal tradizionale disprezzo per la cultura e per chi la rappresenta, dall’indifferenza verso l’insegnamento musicale, dalle tendenze autarchiche (vedasi come il soi-disant Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano batte e ribatte sull’importanza di una cultura centripeta, presa dall’adorazione di icone del passato, esattamente come qualcuno in orbace predicava negli anni Venti e Trenta). Non amo né incoraggio la volgarità delle autocitazioni, ma per essere più comprensibile, riporto uno stralcio da un mio saggio in lavorazione e che tratta del periodo “d’oro” del cosiddetto jazz europeo: “Uno dei segnali dell’arretramento culturale delle ex-avanguardie europee è stato, fra i tanti, la perdita di contatto con il jazz quale arte di preponderanti origini africano-americane e inconfondibilmente americana. Nella volontà alquanto ipocrita di voler sfuggire a un temuto “colonialismo all’incontrario” (un effetto inevitabile del contrappasso), dettato dall’astio verso i vincitori della Seconda Guerra Mondiale che non dimostravano di voler tornare pacificamente e rispettosamente a cuccia, molti legami proficui e meditati venivano tagliati brutalmente (lasciando, allora sì, praterie alla conquista brada dei mercati europei senza più alcun filtro culturale). La ricerca di una “via europea” al jazz, che negli anni Sessanta e Settanta aveva iniziato a dare notevoli e originali frutti attraverso un fitto dialogo e scambio fra le sponde dell’Atlantico, è stata stracciata per aderire, senza un adeguato processo di maturazione culturale e politica, ad una “libera improvvisazione” che, seppur costruita diversamente, risultava fonicamente simile -ma strutturalmente assai più debole- alle elaborazioni delle ormai vetuste e consunte avanguardie storiche (un passaggio che agli americani invece doveva servire a liberarsi una volta per tutte dallo sterile servaggio europeo per dare vita ad una propria, autoctona ricerca).

D. Tutto questo d’altronde, manifesta presuntuosamente la debole ‘lettura’di critici e musicisti gli europei?

R. “[Avevano poco o nulla] capito dei nuovi movimenti artistici americani, che erano veramente avanguardia, senza i lacci e i lacciuoli della verbosa autoreferenzialità europea, senza referenti che non fossero africano-americani e che non fossero legati alla situazione politica, sociale e storica americana. La reazione tutta paternalistica dell’intellighenzia europea doveva creare una serie di situazioni temporanee, dai risultati alterni e del tutto incapaci di affrontare l’avvicinarsi della globalizzazione: l’improvvisazione francese, quella olandese, quella tedesca, quella nordica si sono rivelate effimere per quanto occasionalmente più che brillanti grazie a individualità più che a un movimento estetico omogeneo, lasciando soprattutto tracce di un desiderio di neo-colonialismo razzista che ha fatto breccia, ad esempio in Italia, in una generazione di critici e musicologi del tutto velleitarî, mentre lo sforzo più complesso ed economicamente motivato della conservazione si concentrava nei consolatorî prodotti alto-borghesi, kitsch, plastificati del mondo neo-Biedermeier della ECM e affini. Nel frattempo, il “jazz” ritornava a “casa”, negli Stati Uniti, dove riprendeva una vita di stenti e ciononostante fiorente anche in numerose aree eccentriche rispetto a New York. Si riappropriava perciò di una veste “nazionale” che è quanto oggi gli conferisce l’aura internazionale, riflesso del cosmopolitismo e policulturalismo polietnico americano. Il mainstream è ritornato ad essere, pur senza grandi benefici economici, il ritratto musicale par excellence delle metropoli americane, uno dei tanti volti proficui del turismo culturale negli Stati Uniti. Il che, ovviamente, non esclude una vasta ricchezza di fenomeni e di interazioni di cui oggi beneficia soprattutto la nuova musica accademica. Il distacco dalle collaborazioni costanti e quotidiane, pianificate, con i musicisti europei che si davano negli anni Sessanta e Settanta, ha probabilmente causato danni da ambedue le parti, ma l’entità del danno subito dagli improvvisatori europei è incalcolabile. Quanto al mainstream statunitense, esso mantiene una coscienza acutissima della propria traduzione e dei modi per arricchirla quotidianamente, grazie anche e non solo ad una diffusa maestria strumentale ed idiomatica che non conosce rivali, perché in grado di accogliere pure l’enorme, preziosa ricchezza culturale rappresentata dai costanti flussi migratorî in entrata. Direi che questa è, per quanto mi riguarda, la risposta al tuo quesito”.

D. E per quanto concerne il ‘nostro’ Paese?

R. Vi sono molti musicisti di merito, in Italia, che non riescono a emergere, altri sono emersi ma senza incidere, altri conducono una bella carriera senza gloria o fantasia, del tutto inserita nei meccanismi dell’insegnamento pubblico. L’Italia può e ha potuto vantare un solo musicista in grado, nonostante le sue pecche o falle (o forse proprio in virtù di esse), di creare un’”italianità” improvvisativa di forza cosmopolita: Enrico Rava. Non tanto grazie a uno strumentismo mai eccelso, quanto alla capacità del musicista di plasmarlo rispetto alle esigenze di mondi nuovi: Rava ha saputo delineare un’estetica propria e originale e articolare un corpus compositivo pregevole, ricco melodicamente nel recupero di una cantabilità tutta italiana, e di una cifra autoriale inconfondibile. Senza per questo creare distacchi con la tradizione improvvisativa di derivazione africano-americana ma, anzi, favorendo un cosmopolitismo fecondo e un costante rapporto con essa. Né prima, né dopo Enrico Rava avverto o intuisco un progetto simile e di tale portata.

D. Per concludere il jazz in Italia è in mano alle ‘conventicole’ come le chiamava Sergio Castellitto nel film Caterina va in città sui poteri mediatici?

R. Il problema riguarda il jazz in modo grave, ma non solo: il mondo concertistico accademico soffre altrettanto, in più afflitto da un numero ancora più alto di nomine di natura politica. L’intero comparto concertistico, anzi direi l’intero comparto culturale italiano è stagnante, culturalmente arretrato, corrotto, in mano a conventicole dedite allo scambismo, al nepotismo, al familismo e al rafforzamento di determinati gruppi di potere di appartenenza (è il caso di buona parte di certo associazionismo, finito a far da collettore e distributore di prebende a solo una certa privilegiata parte di associati). Molti direttori artistici sono parte di una gerarchia geriatrica che poco ha fatto per acculturarsi e aggiornarsi, lasciando campo pressoché interamente libero allo strapotere ancora più ignorante di agenzie italiane di rado abili a far danno di testa propria, preferendo farlo per conto terzi, cioè per le grandi agenzie inglesi e americane (e talune italiane, francesi, austriache). Per le realtà di alto profilo, il nostro mercato è troppo frammentato, parcellizzato, politicizzato per permettere un lavoro costante, di “semina”: si vive, perciò, alla giornata, attraverso una fitta rete di contatti che non di rado implicano vicendevoli ricatti e conflitti di interesse. Non vi è una vera pianificazione, un saper fare sistema, come si usa dire. Il Paese è attraversato così da carrozzoni di Tespi che trasportano i soliti protagonisti (i cosiddetti “morti di fama”) nostrani e stranieri, in un vicendevole e stucchevole sfruttarsi sino ad esaurimento. Il pubblico, ormai anestetizzato da decenni, non reagisce o si fa raggirare con facilità. Il nostro consueto ritardo culturale, che ci trasciniamo da oltre un secolo come Paese, si va allargando, noi siamo tagliati fuori da molte fra le più attuali elaborazioni, non solo musicali. Né sappiamo dialogare con i giovani, cui imponiamo materiali che non hanno rapporto o richiami con loro, guardiamo al passato e mai al futuro. Siamo vecchi e ci rifiutiamo di tenerci almeno in forma.

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