«MONK’S DREAM», IL CAPOLAVORO DI THELONIOUS (COLUMBIA, 1963)

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// di Francesco Cataldo Verrina //

Per comprendere l’evoluzione monkiana e l’importanza di «Monk’s Dream», bisogna calarsi nell’atmosfera del 1963, un anno fatidico per la carriera di Thelonious, ma anche il primo anno di vero calo fisiologico del jazz al livello mondiale. Altri generi ed altri linguaggi sonori cominciavano a contendergli la scena, il mercato discografico e l’universo giovanile. Non è che il jazz fosse giunto ad un punto di non ritorno: siamo ancora ben lontani dalla crisi endemica dei primi anni Settanta. Si pensi che nel 1963, giunsero sul marcato altri album seminali come «The Black Saint And The Sinner Lady» di Charles Mingus, ma il jazz non era più l’unico fenomeno dominante sul mercato discografico, specie negli interessi dei giovani, sia bianchi che neri, i quali iniziavano a guardavano con molto interesse al soul, al rock, al funk, all’R&B, ed in Europa, come in America, ai gruppi inglesi legati alla British Invasion, ai Beatles e alla nascita del cosiddetto Mersey Beat.

In verità non era in declino il livello produttivo e qualitativo del jazz ma erano altri stili, altri artisti ed altre etichette ad entrare a gamba tesa nella corsa finale per gli «AOTY», i cosiddetti Album Of The Year, proponendo nuovi contenuti e idoli stagionali che entravano in collisione e in competizione con con i vecchi leoni del jazz. Approfittando del dominio assoluto del soul e dell’R&B, in USA ed in molti paesi di lingua inglese, trionfarono le formazioni al femminile come The Ronettes, Martha And The Vandellas, The Tammys, The Crystals, The Supremes, le quali pubblicarono singoli di successo a raffica conquistando posizioni di rilievo in tutte le charts. Non a caso, quando i Beatles giunsero sul suolo americano, chiesero come gruppo di apertura per i loro concerti proprio le Supremes. La Motown dominava incontrastata con The Sound OF Young America ed una fucina di hits a presa rapida che sembrava inarrestabile, mentre proseguivano nella loro espansione il Southern e il Chicago Soul, così come un altro derivato del pop/soul/gospel, il Blue-Eyed Soul, che andava ad occupare un posto paritario sul mercato. ll 1963 fu legato alla nascita del Garage Rock, precursore d’avanguardia del Proto-Punk, nonché all’album della svolta di di Bob Dylan, mentre il successo di Mongo Santamaria favorì l’esplosione del Boogaloo e la contaminazione di ritmi esotici con il soul-jazz ballabile dominato dall’uso dell’organo Hammond B3.

Siamo comunque ancora lungi dalla disfatta del jazz, innumerevoli capolavori dovranno ancora arrivare per completare l’albo d’oro del jazz moderno, ma «Monk’s Dream» fu un disco estremamente condizionato da uno scenario musicale in divenire e da un mercato in ebollizione, che non consentiva alcuna distrazione neppure agli artisti jazz più impegnati o più affermati. Perfino un personaggio sui generis ed incontrollabile come Monk ebbe poco margine di manovra dopo la firma del contratto con la Columbia Records, una major che pagava bene gli ingaggi ma che non accettava tentennamenti, stranezze, alzate d’ingegno ed insuccessi da chicchessia. Fortuna volle che «Monk’s Dream» divenne in assoluto il maggior successo in termini di vendite per l’irrequieto Thelonious contribuendo alla sua apparizione sulla copertina del Times Magazine nel 1964. Fissato su nastro alla fine del 1962 sotto l’egida di Teo Macero, ed originariamente pubblicato nel 1963, l’album segnò una passaggio decisivo nella carriera del Monaco, che aveva precedentemente registrato per la Blue Note, la Prestige e la Riverside, le quali gli avevano consentito un’ampia libertà espressiva ma guadagni talvolta miseri ed incompatibili con la nomea del personaggio. Del resto il Monaco, a causa della sua malattia, si era assentato a lungo dalle scene barcamenandosi in un’attività discografica e concertistica a macchia di leopardo che non lo ripagò mai completamente del suo talento. «Monk’s Dream» segno l’inizio di un periodo commercialmente ed artisticamente propizio, anche se non durò più di tanto, dove il pianista potette contare su alcuni affetti stabili, Charlie Rouse al sax tenore, John Ore al contrabbasso e Frankie Dunlop alla batteria, con cui costituì il quartetto più equilibrato della sua carriera, soprattutto più adatto alle regole d’ingaggio della sua musica.

Dopo l’ultima registrazione che nel 1958 segnò la fine della sua permanenza al Five Spot Café, mentre era ancora sotto contratto con la Riverside, Thelonious Monk aveva dato inizio ad un’odissea di viaggi e di album dal vivo. In questo periodo ebbe anche qualche problema con la giustizia, soprattutto a causa delle discriminazioni razziali perpetrate dalla polizia. Prima di lasciare New York nel 1959, effettuò una registrazione alla Town Hall con una mini-orchestra, da cui nacque un album in cui comparve per la prima volta il sassofonista tenore Charlie Rouse. A questo punto Monk volò in California, dove era ricoverata la moglie, ed in quell’occasione registrò due album «Thelonious Alone In San Francisco» (1959) in piano solo e «Thelonious Monk At The Blackhawk» (1960) in sestetto (nel quale cominciò ad emergere la figura di Rouse), prima di iniziare un estenuante tour europeo, soprattutto in Francia e in Italia, dove realizzò alcune registrazioni live, da cui venenro ricavati due ottimi album: «Monk In France» e «Thelonious Monk In Italy», entrambi del 1961. Ciononostante, i rapporti con la Riverside andarono progressivamente deteriorandosi: il pianista si sentiva sfruttato e sottopagato. Nel 1962 Monk riuscì finalmente a liberarsi della Riverside firmando con la Columbia, ma per quanto le condizioni fossero contrattualmente vantaggiose, Monk dovette quasi azzerarsi e ricominciare daccapo. L’occasione era ghiotta: lasciarsi un passato difficile dietro le spalle e cominciare una nuova avventura proficua sia in termini economici che artistici.

Entrando per la prima volta negli studi della Colombia nell’ottobre e nel novembre di quell’anno, Monk si giocò con attenzione, ma anche con azzardo, tre carte vincenti: Charlie Rouse (sax tenore), John Ore (basso) e Frankie Dunlop (batteria) con costituì il Thelonious Monk Quartet. Nessuno di questi musicisti era molto conosciuto (anche se Rouse aveva cominciato a caratterizzarsi come uomo ideale al fianco del Monaco), per contro l’intesa fu perfetta e «Monk’s Dream» divenne un passaporto per le stelle, tanto che studiosi a vario titolo ed appassionati di jazz hanno sempre considerato questo quartetto il migliore con cui Monk avesse collaborato: la stretta connessione, quasi telepatica che i quattro condivisero, raramente era stata eguagliata in altri contesti dell’attività monkiana. «Monk’s Dream» fu implementato attraverso otto brani, tra cui tre standard ma delle cinque composizioni monkiane solo «Bright Mississippi» costituiva una vera novità, oltremodo carica di significati e di implicazioni, tenendo conto dello scenario politico e sociale del 1963. I cinque originali di Monk comprendono due brani solo piano senza accompagnamento, «Just a Gigolò» e «Body and Soul», nonché «Five Spot Blues» e «Bolivar Blues» entrambi ritmicamente complessi, in cui Rouse e Dunlop dimostrano le loro straordinarie capacità strumentali, inserendo nel costrutto riempimenti estremamente calibrati, senza mai essere bloccati o condizionati dalle giravolte ritmiche del band-leader.

Con l’arrivo alla Columbia sembrava che Monk fosse diventato più concreto cominciando a solidificarsi in uno stile ben preciso, per quanto unico, dissonante, angolato e caotico, cedendo il passo ai manierismi. Laddove in passato le sue idiosincrasie erano inaspettate, costantemente sorprendenti, in grado di spiazzare e sconvolgere ogni preconcetto o disarmare qualunque presunzione, ora stavano diventando eccentricità. Il suo modo di suonare poteva ancora essere insolito, ma l’inatteso stava divenendo prevedibile. Tutto ciò non rappresenta una deminutio capitis se si pensa all’accidentata parabola ascendente del pianista e alle tante difficoltà personali, Soprattutto si rammenti che il meglio del suo repertorio Monk lo aveva composto prima dei trent’anni e che nel 1962 ne aveva quarantacinque, soprattutto da tempo ripeteva i suoi successi proponendoli in formati diversi. Va ricordato, inoltre, che «Monk’s Dream», che da il titolo all’album, fu registrata per la prima volta nel 1952 in «Thelonious Monk Trio». Nella title-track, Monk si aggira per la tastiera, tamponando gli accordi, liberandosi in una convincente sovrapposizione con Rouse e muovendosi con insolita linearità sul groove della batteria di Frankie Dunlop ed il walking del basso di John Ore. In conclusione il pianista-leader sguaina il caratteristico assolo staccato e percussivo, quasi a volerci mettere la firma. La nuova versione «Monk’s Dream» è così complessa che fu necessario fare decine di riprese secondo il metodo più arcaico, (eludendo le filosofie manipolatorie di Teo Macero, che avrebbe potuto incollare e tagliare, ma non lo fece) per giungere a quella gusta: fu scelta l’ottava take. Alla Columbia non badavano a spese e per la realizzazione dell’album furono impiegate quattro sessioni di registrazione, quando nella media, alla Blue Note o alla Riverside, si faceva tutto in una sola. Tuttavia Monk aveva trovato una formula alchemica: il quartetto era idilliaco, sia per la salda coesione e la perfetta interazione, sia le improvvisazioni così perfette che sembravano parti scritte. Alla Columbia non pretesero una manciata di composizioni inedite, piuttosto pensarono ad un format consolidato, Teo Macero era un vecchio marpione, ed il mercato gli diede ragione. La parabola del musicista innovatore indisciplinato e incontenibile, però, con «Monk’s Dream» si concluse.

Il passaggio alla Columbia, che tra l’altro regalò al mondo altre pietre miliari della sua discografia come «Criss Cross» (1963), «Straight No Chaser» e «Underground» (1968) fu una sorta di patto con il diavolo, che intrappolo il Monaco in un di metodo efficace e controllabile, ma lontano anni luce dalle evoluzioni del jazz (erano gli anni di Ornette, Trane, Pharoah, Shepp, ecc.), perdendo il contato con le avanguardie. Non è in discussione la bellezza di certi dischi, i quali, purtroppo, cominciarono ad essere oggetti volanti poco intercettati dal mercato, tanto da buttare nuovamente «il grande vecchio» nell’apatia e nello sconforto, questa volta quasi irreversibile. Non dimentichiamo che Monk, pur non essendo più una delle star del jazz del momento, non scese mai tecnicamente di livello, il fatto di trovarsi finalmente in ottime condizioni economiche gli permise di poter esprimere pienamente sé stesso: un dettaglio non trascurabile. Modificando dei vecchi brani, egli riusci a fare di «Monk’s Dream» la sua opera più riuscita, spingendo i contenuti ai limiti della raffinatezza e del lirismo, smarrendo quel naturale a-sentimentalismo distonico che lo aveva contraddistinto in precedenza.

Thelonious Monk

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