WYNTON MARSALIS CON «BLACK CODES (FROM THE UNDERGROUND)». CODICI DI COMPORTAMENTO MORALE E ARTISTICO (COLUMBIA, 1985)
// di Francesco Cataldo Verrina //
I musicisti jazz, in particolare gli Afro-Americani, nel ventesimo secolo avevano creato una forma d’arte tipicamente «americana», unica e con ripercussioni planetarie. Wynton Marsalis era irritato dal fatto che l’industria culturale, i media e l’establishment musicale non solo dimostrassero poco rispetto per questa tradizione, ma che addirittura stessero cospirando per soffocare quella che era stata l’espressione artistica più importante di tutta la storia degli Stati uniti, nonché il riscatto morale di un popolo che per decenni aveva dovuto subire angherie, privazioni e sopraffazioni. I «Codici Neri», titolo dell’album, rimandano ad una triste pagina di storia, quando nell’America razzista e segregazionista dell’Ottocento i neri venivano spogliati per legge di tutto i loro averi, ma per Marsalis, in questo suo viaggio musicale, quei codici rappresentarono tutto ciò che potesse privare e limitare la libertà espressiva e l’integrità dell’individuo, in quanto uomo più che artista. In quello scorcio di anni ’80, il suo volto campeggiava sulla copertina della rivista Time, che lo definiva come «il capo cantiere della nuova era del jazz». Erano anni in cui le sue virulente dichiarazioni su politica, questioni sociali, musica e personaggi a vario titolo arrivavano a raffica, quasi giornalmente. Il che gli procurò folte schiere di sostenitori, ma anche molti detrattori che lo accusavano di conservatorismo.
I «Black Codes», divennero dunque una parafrasi sonora per spiegare un concetto originario assai più complesso ed una forma di sofisticato affresco jazz post-moderno, che affonda le radici nella lunga tradizione del bop e del cool, in cui la tromba si erge alla stregua di un predicatore sul pulpito e scandisce note potenti che, come una voce umana, arringa la folla sulle questioni razziali e sulla controversa storia degli Afro-Americani, con un sassofono-fratello che gli fa da sponda ed il sostegno di una sezione ritmica dal carattere deciso, la quale diventa il telaio fondamentale per un potente veicolo musicale targato Marsalis; il modo in cui i sidemen coinvolti nel progetto negoziano una gamma di ritmi, assoli e raffiche di accordi, dispiegati con molta più ambizione rispetto al classico bop, diventa propedeutico all’esplorazione sonora della tromba del band-leader. Il risultato, al netto di ogni congettura storico-politica, è un album che unisce bellezza e rabbia, oscurità e luce, accessibilità e complessità, tanto da essere considerato all’unanimità il miglior disco che Marsalis abbia realizzato. Wynton entrò a gamba tesa in quel caotico clima pseudo-jazz rappresentato dai Weather Report e da altri promotori della fusion, nonché da esploratori di suoni come Anthony Braxton. Il lavoro del giovane trombettista marcava pesantemente un territorio, agognando un ritorno a quel jazz suonato prima che egli nascesse, soprattutto con l’intento di ristabilire un certo ordine.
Sicuro delle riconosciute qualità artistiche, Marsalis si mostrò determinato a condurre con zelo la sua battaglia. Solo per questa determinazione, a prescindere dai critici che in ambito musicale lo consideravano un neo-conservatore, l’opera degli anni ’80 di Marsalis merita un posto fra i grandi eventi del jazz. Musicisti di tutto il mondo in quel momento (compresa una generazione di giovani britannici neri come Courtney Pine) s’ispirarono sia al suono del trombettista che alla sua autorità carismatica, riconoscendo il valore della tradizione e la battaglia culturale promossa da Marsalis, convinto sin dall’adolescenza, che quel miscuglio tossico di grossolano melting pop industriale e commerciale e le cervellotiche avanguardie del jazz sperimentale stessero consegnando una preziosa tradizione agli archivi. Wynton era il rampollo eletto di una dinastia di musicisti di New Orleans che comprendeva i fratelli Branford (sassofono), Delfeayo (trombone) e Jason (batteria), il cui patriarca era Ellis Marsalis, pianista, insegnante e collaboratore di Ornette Coleman negli anni ’50. Wynton si era distinto fin da bambino nelle orchestre classiche di New Orleans e, quando giunse a New York nel 1979 per studiare alla Juilliard School, si aggregò alla band di Sweeney Todd, spolverando una tecnica non comune. Dopo aver suonato con i Jazz Messengers di Art Blakey, già ai tempi del college, partì in tour con una tribute band dedicata a Miles Davis, insieme Herbie Hancock, Ron Carter e Tony Williams. Il tono, la tecnica e il senso della forma e della direzione narrativa di Marsalis inizialmente ricordavano il lirismo introspettivo di Miles Davis degli anni ’50 e dei primi anni ’60, nonché il suono levigato e lo slancio ritmico di Clifford Brown. Nel 1987 venne nominato direttore del programma jazz al Lincoln Center di New York, definito «una delle 25 persone più influenti degli Stati Uniti» da Time, ed inserito nella lista di Life dei «50 più influenti baby-boomers». «Black Codes» è indubbiamente il miglior disco di Wynton Marsalis con suo fratello Branford che raddoppia, suonando tenore e soprano, emulando spesso Wayne Shorter, mentre la sezione ritmica, formata dal pianista Kenny Kirkland, dal bassista Charnett Moffett e dal batterista Jeff Watts, suona vagamente come il famoso Hancock-Carter-Williams trio. Wynton venne percepito dalla critica, forse a torto, come leader di quella che sembrava essenzialmente una riedizione del Miles Davis Quintet degli anni ’60. In buona sostanza questo manipolo di giovani musicisti scelse di esplorare il jazz acustico e di apportare alcune innovazioni al moderno stile mainstream e pre-fusion. Siamo nel 1986 e Marsalis, in quel periodo, aveva pochi rivali e concorrenti diretti.
L’album si apre con la title-track, «Black Codes», un corposo hard bop, sotteso da una ritmica funkoide, dove Wynton è abilissimo nelle fughe improvvisative, i suoi assoli sono lunghi e fantasiosi, ben strutturati ed organici, ma quando accorcia i tempi sembrano lame taglienti. A metà del guado, il piano concede un attimo di tregua, mentre Branford imbraccia il soprano con l’intento di assecondare il fratello, ma prende qualche via traversa, sembrerebbe smarrito, ma in verità si concede pochi secondi di libera uscita pensando a Coltrane e giustapponendo frasi corte a scatti veloci in verticale e lunghe piste ondulate. Nell’ultimo tratto di strada il pianoforte di Kirkland si ritaglia il suo memento di gloria con un fraseggio preciso ed una forte e netta pressione sui tasti, alla McCoy Tyner, mentre dalle sue note schizzano melodie come una violenta pioggia che si abbatte su un mare in tempesta. «For Wee Folks» è una ballata ambivalente e sotterranea. Dopo un abbrivio letteralmente in sordina, il vero sound comincia a venire allo scoperto come un serpente sinuoso che esce dalla tana. Il sax, il piano e soprattutto la tromba di Wynton si muovono in successione con un’eleganza formale su cui poggia un multistrato di emozioni, mente Watts mantiene i piatti delicatamente spazzolati. Il flusso sonoro, ben presto, si trasforma in un ingranaggio un po’ più mosso rispetto all’intro, anche se non supera mai la velocità di crociera. La mente corre veloce al quintetto di Miles Davis. Nessuno scimmiotta volontariamente qualcuno, sebbene lo stile tintinnante di Herbie Hancock possa essere associato all’assolo di Kirkland, mentre l’interazione tra i due ottoni di famiglia emana un vago sapore Davis-Shorter. Dopo una ricamata progressione pianistica, Branford mette mani al tenore per alcuni rapidi fraseggi, mentre l’intrigante tromba del geniale fratello, silenziata dalla sordina, lascia che il percorso si concluda come era iniziato, quasi a sparire in un cunicolo sotterraneo di sonorità appena accennate; «Delfeayo’s Dilemma» nasce dal nome del fratello trombonista; qui si ritorna a camminare su un bollente e lavico terreno boppish, rinfrescato da qualche divagazione cool, con una sezione ritmica dal temperamento focoso che, supportata dal piano, spinge dapprima un giro di tromba fatto di fughe, ma senza uscire dal perimetro consentito, quindi il sax di Branford che esegue il suo compito in maniera impeccabile, ma forse in maniera troppo contenuta ed in netto contrasto con la veloce entrata in scena. I tasti del piano sembrano invasati e riprendono il tema iniziale lanciato da Wynton.
La B-side inizia con «Phryzzinian Man», un bop classico nel segno di quella tradizione che Wynton amava preservare. Anche in tal caso il piano è fondamentale a creare il classico spartiacque fra gli ottoni. L’arrivo del sax distende gli animi con un fraseggio arioso e controllato e con sprazzi di energia su assoli franosi ed a corto raggio, tanto da ricordare Charlie Parker. Dalle retrovie la sezione ritmica incalza, mentre il basso tenta un felpato assolo, fino alla chiusura della pratica; con «Aural Oasis» si ritorna alla ballata notturna, che offre mille suggestioni. Wynton procede in sordina nel segno del miglior Miles Davis, ma il suo soffio è più irruento e meno spaziato. Il sax soprano di Branford sembra adagiarsi morbido sul tappeto ritmico fornito dalla retroguardia. L’arrivo del piano crea un’atmosfera decadente, quindi ancora la tromba in sordina che, per l’atto finale, spalma miele millefiori sulle orecchie dell’ascoltatore; «Chambers of Tain», nuovamente su di giri con l’inossidabile hard bop, proposto con inizio strombazzato ed a fanfara. Sembra un tuffo negli ’50 e Wynton invasato dal fantasma di Dizzy Gillespie; i suoi movimenti sullo strumento sono arrembanti e scavano in molte direzioni dilatando la melodia. L’ingresso di Branford al tenore infuoca ancora di più la scena del delitto. Il suo volo pindarico con il sax richiama la migliore tradizione di Sonny Rollins e Coleman Hawkins, mentre il piano picchia e saltella in puro stile Monk e senza vuoto a rendere. L’assolo di batteria rafforza le convinzioni della band, quando un Kirkland ancora più incalzante sulla tastiera rilancia gli ottoni dei fratelli fino alla chiusura dei battenti; a suggellare l’album con uno stile di cottura in agro-dolce, c’è «Blues», parafrasando i Latini, «nomen omen». Il sangue blues che scorre nelle vene del brano irrora la tromba di Wynton Marsalis che si produce in lunghi e lancinanti assoli, drammatici come il sofferente canto del popolo nero: questa volta c’è più Louis Armstrong e meno Miles Davis. Il Sax di Branford accenna qualche movenza, ma solo per agevolare il prosieguo del fratello nella sua sofferta narrazione.
È facile descrivere Wynton Marsalis come un neoclassicista, spaventato dal futuro ed animato dal desiderio di riportare ordine, proporzione e armonia in un mondo frammentato. Come sosteneva il critico musicale, tradizionalista e accademico, Stanley Crouch: «Il conservatorismo di Wynton Marsalis ha uno scopo ed una valenza. Ci deve pur essere qualcuno che mantiene in piedi i muri della tradizione, solo così sfondarli assume un significato». Dotato di una tecnica superiore a quella di molti suoi antichi influencers, con «Black Codes», Wynton delimita spazio ben preciso in cui il jazz mainstream avrebbe dovuto esprimersi; non solo è il punto più elevato della sua discografia, ma anche una sorta di paradigma ispirativo per chiunque voglia proseguire la tradizione acustica del jazz moderno. Sicuramente fra i cento dischi jazz più importanti di ogni epoca.
Wynton Marsalis