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// di Gianluca Giorgi //

Don Bryant, Don’t Give Up On Love (2017)
Poco conosciuto al grande pubblico è una delle firme più importanti della scuderia della prestigiosa etichetta Hi Records, nonché co-autore della celebre “I Can’t Stand The Rain”. Il suo ritorno si deve grazie alla Fat Possum, che dopo aver ristampato nel 2012 l’album d’esordio “Precious Soul” (1969), offre al musicista la possibilità di rispolverare la passione per il soul. Per il musicista il termine soul infatti non identifica un genere musicale ma una condizione spirituale. Ed è con questa nuova vitalità che affronta le dieci tracce dell’album, aiutato da alcuni amici, un progetto che egli dedica alla sua compagna Ann Peebles. La voce ancora perfetta e si stenta a credere che sia solo il suo secondo album in carriera. Il disco si fa ancora più intenso quando Don Bryant pone l’accento su toni più gospel, come in alcun splendide ballate. C’è il rischio che l’effetto-nostalgia prevalga, ma nel caso di “Don’t Give Up On Love” non si tratta di un viaggio nella memoria, questa volta sembra proprio che il tempo si sia fermato. Splendido!

Sugaray Rayford, a The World That We Live In (2017)
È nato in Texas, Smith County per la precisione, ed è un bluesman elettrico nonché songwriter. Ha pubblicato 6 album, 3 prima di questo. Il disco in questione esce per la Blind Faith Records di Luca Sapio, il quale può essere considerato l’ambasciatore italiano del soul; ha cercato Sugaray per portarlo a registrare nel suo studio casalingo rigorosamente analogico al Pigneto di Roma. La registrazione analogica offre un discreto effetto deja-vu e alla Blind Faith sono riusciti a creare un fulminante classico di rhythm’n’blues, malgrado in alcuni casi si indugi con qualche cliché, la voce dinamica e potente non teme confronti e la possiamo avvicinare a quella dell’immenso Solomon Burke. Il disco non va preso perché suona originale o nuovo, cosa peraltro difficile da raggiungere quando si parla di queste musiche, ma perché è un gran bel disco!

Tubby Hayes Quartet, Grits, Beans And Greens: The Lost Fontana Studio Sessions 1969 (2019)
Stiamo vivendo il tempo degli album e delle incisioni perdute, una tendenza che ci sta facendo riscoprire incisioni che altrimenti sarebbero andate perse nel dimenticatoio. Non tutte le uscite sono propriamente riuscite, ma è altrettanto vero che stiamo scoprendo alcuni veri e propri gioielli e questo straordinario disco rientra di diritto fra questi, con un concentrato di temi modali al top della loro capacità di comunicazione. Edward Brian Hayes, soprannominato Tubby, è nato a Londra nel 1935 ed è morto nel 1973, a soli trentotto anni, in seguito ad una malattia aggravata da un fisico minato dall’abuso di eroina. Sassofonista tenore con una tendenza improvvisativa robusta e fluida, influenzata dal mood della sua epoca. In questo disco troviamo un “mainstream evoluto” in una dimensione in cui lo swing e l’approccio modale la fanno da padrone, una dimensione che ancora oggi fa emozionare. Bella incisione!

AHMED ABDUL-MALIK, Spellbound (1964 ristampa 2016)
Ahmed Abdul-Malik è un contrabbassista possente e creativo, con uno spiccato senso progettuale. Conosciuto soprattutto per esser stato il contrabbassista di Thelonious Monk negli anni ’50, oltre che al servizio di altri leader (Art Blakey, Don Byas, Randy Weston, Walt Dickerson). Famoso anche per aver introdotto uno strumento insolito come l’oud (simile ad un liuto corto, di origine araba) e per le aperture musicali a tutto tondo, figlie di un retaggio che parte da origini sudanesi. Nel disco Ahmed fa la scelta di rimanere sullo sfondo, ritagliandosi uno spazio solistico soltanto nel blues finale, un solo per nulla scontato e memore della grande lezione di Charles Mingus. Walter Perkins si conferma il solito maestro, meraviglioso alle spazzole, la presenza dell’oud è appena un colore in più, mai sopra le righe e del tutto consono al clima generale, così come magnifici gli interventi in “Song of Delilah” di violino (Ray Nace anche alla tromba) e flauto (Seldon Powell sottovalutato tenorista). Bella riscoperta, incisione non audiofila comunque ascoltabile della Klimt: unica ristampa in vinile.

Grachan Moncur III, Evolution (Blue Note 1964, ristampa 2022)
Registrato al Rudy Van Gelder Studio il 21 novembre del 1963, con un quintetto (giovani talenti di allora) di tutto rispetto che accompagna il leader, fu pubblicato l’anno seguente. Siamo ancora nel periodo Bop/Hard-Bop Blue Note e si sente, ma il disco pur nella sua “classicità” comincia a far sentire un qualcosa di nuovo e obliquo. Si senta ad esempio il brano che da il titolo all’album, al modo in cui è realizzato, all’orchestrazione: una specie di camerismo di ampie vedute. Poco dopo aver suonato nell’acclamato album di Jackie McLean “One step beyond”, Moncur III assume qui il ruolo di leader e accompagnato dalla maggior parte degli strumentisti che presero parte alle incisioni di “One step beyond”, si prende più spazio come solista. Il disco è composto da quattro lunghi brani, peraltro tutti composti dallo stesso Moncur, complessi nelle loro strutture e vicini alle concezioni avanguardiste dell’epoca, caratterizzati da atmosfere cupe, quasi sinistre. Anche McLean, che prese parte alle sessioni, si cimentò in alcuni degli assoli più anti convenzionali della sua carriera. Grachan Moncur III, dopo essersi fatto le ossa fra il 1959 ed il 1962 suonando con Ray Charles, debuttò come band leader nella prima metà degli anni ’60, con un paio di acclamati lavori su Blue Note per poi cimentarsi con il jazz avanguardista insieme a Jackie McLean. Grachan Moncur III fu uno dei primi trombonisti a cimentarsi con il jazz d’avanguardia.

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