THE GERRY MULLIGAN QUARTET CON «WHAT IS THERE TO SAY?», SI FA PRESTO A DIRE COOL JAZZ! (COLUMBIA, 1959)

// di Francesco Cataldo Verrina //
Gerry Mulligan è stato un musicista unico ed a tratti atipico, un perfetto raccordo tra un bop moderato ed una forma di cool jazz, sovente legato alle istanze del cosiddetto West Coast Jazz. Scorrendo, però, la sua nutrita discografia, ci accorgiamo che Gerry Mulligan non ha mai nascosto la sua innata blackness e la sua naturale inclinazione a misurarsi ad armi pari con la nomenclatura del jazz afro-americano del dopoguerra: celebri i suoi duetti, soprattutto è facile constatare che nelle sue opere, al netto della tipologia di ensemble, non c’è mai una netta separazione fra i vari stilemi jazzistici. Il sassofonista newyorkese è stato uno dei pochi bianchi entrato nell’empireo del jazz del Novecento ed universalmente accettato, soprattutto, all’unanimità, gli si riconosce una sorta di unicità e di dominio assoluto su uno strumento ingombrante come il sax baritono, che Gerry suonava con estrema leggerezza e naturalezza; perfetto conoscitore dell’armonia e fine arrangiatore, egli riusciva a stare musicalmente al fianco di chiunque, mentre la sua destrezza nel suonare, quale conseguenza dei trascorsi pianistici, apriva opportunità infinite al suo voluminoso sax.
Mulligan aveva tono dolce e fluente, era un musicista serio, garbato che non amava l’eccessiva dissertazione critica sulla musica jazz, che a suo modo di vedere, poteva rovinare l’esperienza dell”ascolto: « Le persone che parlano molto di jazz – questo potrebbe essere il problema di base – non sembrano divertirsi nell’ascoltarlo. Mi sembra che tutto il super-intellettualismo sulla tecnica, la mancanza di risposta all’emozione e al vero significato del jazz stiano rovinando il divertimento sia per gli ascoltatori che per i musicisti». Mulligan lo scriveva nel 1959, ma la sua osservazione, per quanto di parte, potrebbe essre condivisibile, poiché il baritonista è stato spesso vittima di categorizzazioni nette e schematica come ad esempio quella che sosteneva avesse catturato il suono della costa occidentale e quel particolare tipo di impostazione ritmica, soprattutto di esserne uno dei maggiori propulsori, etichetta che lo stesso Mulligan sconfessò dopo qualche tempo. Qualcuno lo indicava come un sostenitore, insieme a Warne Marsh ed altri, delle teorie della scuola di Tristano secondo cui la sezione ritmica dovesse dettare un tempo costante lasciando all’improvvisatore di turno il compito di muoversi liberamente. Quando nel 1959 usci «What Is There To Say?» («Che c’è da dire?) giustamente considerato uno degli album più riusciti del baritonista, alcuni lo misero in contrasto con «Portrait In Jazz» di Bill Evans, in cui la sezione ritmica operava alla pari dello strumento principale, senza una vera gerarchizzazione e con un sovvertimento di ruoli e dove il contrabbassista Scott LaFaro diventava una sorta di timoniere trascinando il trio alla medesima stregua del pianoforte.
È chiaro che la pochezza e lo schematismo di una certa critica bianca di fine anni Cinquanta, soprattutto oggi ex-post, lasci alquanto a desiderare. L’album di Mulligan non rappresentava una rivoluzione come quella evansiana, ma non era per nulla un disco con un solista padre-padrone dominante ed una retroguardia ritmica passiva. Sarebbe, ad esempio, bastato ascoltare con attenzione l’incipit di «News From Newport», dove il tema viene annunciato dal contrabbasso di Bill Crow e capire che neppure la batteria di Dave Baley fosse così seduta in attesa di disposizioni da parte del capo, così come l’interplay tra il baritono e la tromba di Art farmer fosse piuttosto dinamico. In massima parte l’improvvisazione creativa è ottimamente bilanciata dall’intesa fra i quattro musicisti. Il quartetto pianoless, tromba, baritono, basso e batteria, non era una novità per Mulligan e nel suo score personale costituiva una delle formule più riuscite a partire 1952, quando aveva accanto Chet Baker, perfetto sodale ed alter ego. Tutti i lavori di Mulligan, in cui dominano le sue composizioni, sono un’alternanza di momenti agro-dolci. Nello specifico ci sono brani quasi sussurrati ed ovattati come «Festive Minor» e momenti tensiottivi come la brillante «As Catch Can» o come la già citata «News From Newport» o «Blueport» dove il kit del batterista scuote le coscienze ed il baritonista diventa l’epitome dello swing; per contro l’immancabile «My funny Valentine», un assioma nel repertorio di Mulligan, viene proposta in una versione raffinata, eterea, quasi serafica. La sessione segnò anche il debutto di «Utter Chaos», che sarebbe diventato uno degli standard più amati del musicista newyorkese, dove il leader giocò quasi un ruolo di supporto rispetto a Farmer. La mancanza del comping pianistico impose sia Mulligan che a Farmer la necessita ti reggere il ritmo e la melodia in egual misura. Tra cool e bop, i due strumenti a fiato si alternarono con interplay serrati e assoli personali e distintivi.
L’album fu registrato nel dicembre 1958 e nel gennaio 1959 un periodo di grandi fermenti nel mondo del jazz e fu il debutto come band-leader del baritonista per la Columbia con la produzione di Teo Macero. Come dicevamo, Mulligan aveva operato con quartetti senza pianoforte, dapprima con Chet Baker come partner in prima linea e successivamente con Art Farmer e Bob Brookmeyer come sostituti di Baker, ma l’incontro con Farmer in «What Is There To Say?» ha una marcia in più: la sinergia e l’interscambio tra baritono e tromba sono mercuriali e ben dosati; Farmer non funge mai da «contenditore», ma da compensatore e rifinitore, diluendo e ravvivando a tratti la linea guida del sax baritono per sua natura gravoso; la loro sincronia è così immacolata che spesso non si nota nemmeno la transizione tra i due strumenti. Il quartetto è uniformemente eccellente e, come sempre accadeva nelle aggregazioni di Mulligan, i componimenti scelti sono estremamente melodici e splendidamente eseguiti. Bastano le battute iniziali della title-track, «What Is there To Say?» per capire che il fruitore si trova di fronte ad allineamento astrale perfetto, il quale tradotto in musica significa che il risultato totale è di gran lunga superiore alla somma delle singole parti. Tra gli appassionati di jazz, si discute spesso su chi sia il pianista o il sassofonista tenore più rappresentativo, soprattutto si suddivide la musica in categorie: swing, hard bop, avanguardia, cool, ecc. Ma ci sono pochi dubbi sul fatto che Gerry Mulligan sia stato il miglior sassofonista baritono di tutti i tempi.
