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// di Marcello Marinelli //

Uno dei musicisti che ho più amato nel tempo, in alcuni momenti della mia vita, il più amato. Nonostante la sua piccola statura, era un gigante, un gigante della musica, della musica jazz e jazz-elettrico o fusion, quando le etichette musicali siano limitanti per definire un musicista di altissimo livello. Tra i tanti concerti che vidi, uno mi rimase particolarmente impresso; era il 27 marzo del 1987, al Tenda a strisce di Roma.

Ero in compagnia di un mio caro amico, un amico appassionato di jazz, soprattutto della fase classica mainstream del jazz, quella che per intenderci andava dal Be Bop all’Hard Bop e mal sopportava la svolta elettrica del grande sassofonista con i Weather Report e men che meno la fase post Weather Report, degli album solisti come Atlantis, Phanton Navigator e Joy Reader. Decise comunque di venire a vedere dal vivo il grande sassofonista. Andammo al concerto e dalle prime battute cominciò a sciorinare tutta una serie di battute truci contro il sassofonista. Questo mio caro amico è un amante della provocazione e delle battute fulminanti; una di queste fu, in quell’occasione, durante l’esibizione, “Je attizzerei contro una muta de Doberman”. Io incurante di quell’affermazione, che mi faceva comunque ridere, nonostante la violenza e la radicalità e la gratuità di quell’affermazione, ma detta da lui che amava lo sberleffo ai limiti dell’irriverenza la consideravo una ‘boutade’ a cui ero abituato, considerata la sua eccentricità. Era un intransigente fan del periodo aureo del jazz e non ammetteva strade diverse. Io al contrario e praticamente all’opposto amavo tutti gli sviluppi del musicista anche quelli più recenti e quella sera di marzo del 1987 mentre il sax soprano, che in quel periodo il grande sassofonista prediligeva, disegnava a livello sonoro linee sinuose, eleganti ed intense che mi arrivavano dritte al cuore e a tutti gli altri organi di cui era composto il mio corpo, compresa la milza e la cistifellea, che in genere non vengono considerati organi che presiedono alle ricezioni di emozioni.

La voce del sax soprano di Shorter era talmente bella e cristallina e la sua improvvisazione così ispirata che durante l’esecuzione di un brano, mi pare fosse “The last silk hat” tratto dal disco ‘Atlantis’, la sensazione che provai e che ricordo ancora in maniera vivida, come se fosse adesso, a distanza di tanto tempo, fu una sensazione di assoluta perfezione musicale. Rimasi talmente in bambola ed estasiato che pensai che quell’improvvisazione non dovesse finire mai. Continuai a godere di quegli attimi talmente colpito che comparve il fumetto nella mia testa con la scritta:” Ti prego Wayne Shorter non smettere di improvvisare su questo pezzo, ti prego continua all’infinito” talmente la bellezza che sprigionava e che mi avvolgeva e mi avviluppava in una situazione di godimento mentale e fisico, uno di quei momenti dove l’intensità del godimento e della gratificazione estetica raggiunge vette inimmaginabili. Caro Wayne, la voce dei tuoi sassofoni, con la tua grazia e la tua magnificenza mi ha allietato per tanti anni in tutte le fasi della tua ricca vita musicale e di questo non posso che esserti grato. Ora in questo momento sarai a suonare ‘Infant eyes’ a zonzo per l’universo per deliziare le anime di coloro che vorranno intercettare le tue note. Grazie per la compagnia Wayne!

Wayne Shorter

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