Non solo Jazz: Hard Rock, energia all’ennesima potenza
// di Cinico Bertallot //
Verso la fine degli anni ’60, quasi come naturale progressione dei fasti del blues revival si sviluppò una corrente del rock in cui artisti eterogenei e di diversa levatura artistica potevano essere accomunati per l’impiego di formazioni molto ridotte, di arrangiamenti molto aggressivi e di un aggio piuttosto elevato: l’hard rock, ossia rock duro, pesante, aggressivo. In realtà, le caratteristiche essenziali dell’hard sono già presenti nel rock della meta anni ’60, sia in quello intriso di blues dei Cream, sia in quello psichedelico di Jimi Hendrix che in quello versatile del Jeff Beck Group, per non parlare dei precursori come Who, Yardbirds e Kinks. Comunque, decisamente hard sarà il rock che porterà al successo planetario i Led Zeppelin e, poco dopo, i Deep Purple. Sulle loro orme si mosse un’intera generazione di gruppi roboanti, raramente preparati tecnicamente, ma disposti a bruciare tutte le proprie energie in brani tiratissimi con lunghi assoli caotici di chitarra e striduli vocalismi. Quasi tutti questi gruppi avevano la tendenza ad alleggerire saltuariamente la tensione generata dai loro fragorosi tour de force con romantiche ballad d’impostazione country o folk. Alcuni di essi, considerati minori, hanno lasciayo qualche piccolo ù segno, sia pur fugace, nella storia.
L’hard rock, per sue intrinseche caratteristiche, viene sovente associato a qualcosa di violento e confuso dai profani, dai superficiali, dai tassidermisti e dagli impagliatori, soprattutto viene assimilato all’heavy metal, che ne fu una naturale o innaturale conseguenza, ma che certamente rappresenta ben altra cosa. Non si dimentichi che taluni artisti, per un eccesso di egocentrismo e per una voglia innata di stupire ad ogni costo, hanno lasciato ai ben pensanti molto spazio per le critiche, la messa al bando ed il marchio d’infamia: il caso Black Sabbath, con il leader Ozzy Osborne in testa, sono l’esempio eloquente di una certa degenerazione del fenomeno. All’interno del genere hard, come già anticipato, vengono annoverate anche band e derivati, che hanno siglato importanti pagine della storia della musica giovanile come Led zeppelin e Deep Purple, apportando ad un meccanismo stantio, logoro e statico, un’energia dinamica, fisica e mentale, precedentemente sconosciuta. Per anni ed anni, per intere decadi, il rock era stato lo strumento più potente in mano alle giovani generazioni, per contro la sua elettricità ed il suo potere trasgressivo erano qualcosa di inaccessibile e fuori dalla portata degli adulti che vedevano in esso la perdizione degli adolescenti.
Eppure tutti i miti degli anni Cinquanta e Sessanta ebbero presto anche il benestare del genitori, i quali, sia pur riluttanti, ammisero l’importanza di quegli eroi con chitarre elettriche e rumorose batterie. Elvis Presley, i Beatles, Bob Dylan iniziarono ad essere amati anche da chi aveva raggiunto la maggiore età. Ed è proprio in questo clima distensivo ed assopito, che si infiltrarono nuovi musicisti arrabbiati, armati di distorsori, di enormi impianti con migliaia di watt da scaricare sul pubblico in adorazione: un rock del tutto inedito che, presto, venne chiamato hard proprio per la sua possanza e la sua trascinante spettacolarità Accanto ai capiscuola, ai veri maestri del genere, ci furono molti musicisti desiderosi di dare all’hard rock una violenza impietosa ed una rabbia potente e incontenibile. Il risultato fu eclatante e, sebbene i dischi registrati da questi eroi di serie B (anche se la loro capacità esecutiva non fosse inferiore a quello dei capiscuola) non hanno resistito all’usura del tempo; per contro la loro importanza trovò largo seguito nei concerti dal vivo, dove a volte erano ineguagliabili.
I dischi, come dicevamo, sono duri e grezzi, spesso con delle buone idee di base sviluppate troppo frettolosamente, destinati a ricevere una calda accoglienza appena usciti, ma relegati nel dimenticatoio dopo solo qualche anno di vita. I concerti, invece, hanno regalato emozioni uniche e rappresentato una reale alternativa ad un certo rock garbato e di maniera che aveva finito col chinare troppo presto la testa alle leggi imposte dal mercato discografico. Questi musicisti hard si presentavano al loro pubblico con atteggiamenti aggressivi e, in due ore di spettacolo, tiravano fuori una enorme energia puramente fisica, trascinando il pubblico in un coinvolgimento totale e brutale come non si era mai visto. Molto era legato ad una scenografia imponente con impianti enormi, dai quali la musica usciva prepotente, e con luci esasperate che coloravano il palco, a cui si aggiungevano fumi, salti, urla e sbattimenti vari che i musicisti elargivano come diabolici officianti. Inghilterra e Stati Uniti, nel giro di due anni, proprio intorno all’arrivo degli anni Settanta, presero a gareggiare tra di loro alla ricerca dell’inusuale, del folle, dell’hard rock più pittoresco. I nomi scelti tra una manciata di rappresentanti di quel tempo restano i interessanti confinati in quella zona oscura del rock più sfrenato della prima metà degli anni Settanta.
Gli Steppenwolf hanno rappresentato a lungo l’ansimare del rock statunitense pur essendo stati partoriti da John Kay, tedesco dell’est trasferito in Canada sul finire degli anni Cinquanta. II loro successo più grande fu “Born To Be Wild”, uscito nel ’68, destinato a vendite enormi. Animato da uno spirito blues, il loro hard rock non e mai stato clemente, anche se i cambiamenti di organico diedero una vita assai vita movimentata al gruppo. Da ricordare due raccolte intitolate “Steppenwolf Gold” e “16 Greatest Hits” oltre ad un disco solista di John Kay chiamato “Forgotten Songs And Unsung Herpes”. I Mountain, una band alla dinamite formata da Leslie West, chiamato il “ciccione del Queens”, alla chitarra e voce; Felix Pappalardi, abile produttore, al basso; Corky Laing, alla batteria, e Steve Knight, alle tastiere, furono a lungo considerati il volto americano del Cream di Clapton. II loro primo album, pubblicato nel 70, divenne subito disco d’oro, il secondo, del 71, ebbe la stessa fortuna e la band ottenne un grande credito internazionale, che venne sottolineato da lunghe e spossanti tournée. Si separarono nel 72: Pappalardi torno alla sua attività di produttore e Leslie West e Corky Laing si unirono al bassista Jack Bruce (ex Cream) per una breve parentesi in realtà non molto produttiva, che diede vita a tre album, di cui l’ultimo uscito postumo allo scioglimento. Nel 74 tornarono ad essere Mountain con Pappalardi per un solo anno, prima dello scioglimento definitivo. Dopo aver lasciato per incomprensioni il gruppo dei Guess Who, Randy Bachman scelse il bassista Fred Turner per dare vita ad una band, che con soli cinque dischi riuscì ad ottenere un enorme successo di vendite: i Bachman-Turner Over-drive. La musica suonata era davvero potente e generosa, un misto di hard-blues dalle tinte cupe con grandi abilità tecniche. Da ricordare i primi due lavori discografici, “Bachman-Turner Overdrive” e “Bachman-Turner Overdrive II”, entrambi d’oro e il terzo, più fortunato, divenuto presto di platino, “Not fragile”.
In Gran Bretagna il fenomeno produsse vere manifestazioni di follia. I Sweet, band creata da Brian Connolly, voce, e Mick Tucker, batteria, nel 1968, con all’attivo quattro singoli prima del fondamentale incontro con i due celebri compositori, Nick Chinn e Mike Chapman, avvenuto nel 70. II grande successo di pubblico che i Sweet ottennero immediatamente si scontrava con l’aperta ostilità della critica, da sempre riluttante alla loro sciocca musica considerata sciocca, glamour, infantile e chiamata bubbole-gum, ossia da masticare e buttare via, più che da ascoltare. Tutto ciò non tolse alla band due interi anni di successi in classifica, in particolare, con due album: “Funny How Sweet Co Co Can Be” e “Sweet Fanny Adams”. Dall’incontro di Dan McCafferty, cantante, Pete Agnew, bassista, Darryl Sweet, batterista, con il chitarrista Manny Charlton, nacque la band scozzese dei Nazareth, insieme dal 1969, ma arrivati al loro primo disco nel 71, quando dalla Scozia decisero di trasferirsi a Londra. Come altre band di hard rock monumentale anche i Nazareth ottennero uno straripante successo di pubblico e ben poca acclamazione da parte della critica. II loro lavoro fu comunque amato da milioni di sostenitori sparsi per tutta Europa grazie a lunghissime tournée ed a concerti di forte impatto. Della loro discografia vanno citati due album prodotti dall’ex bassista dei Deep Purple, Roger Glover, intitolati “Razamanaz” e “Loud’n’proud”, il primo del 73, il secondo del 74.
Anche per i Wishbone Ash furono i concerti a decretare il successo di pubblico per la loro eccellente abilità sul palcoscenico che superava ampiamente quella puramente tecnica. Uniti dalla voglia di lasciare il segno i due musicisti, Martin Turner, bassista e cantante, e Steve Uptown, batterista, dopo aver lavorato per anni soltanto nei piccoli club inglesi, conquistarono presto la fama di puri rocker stile inglese. Il loro primo album, intitolato con il nome della band e uscito nel 70, rimase il più riuscito, anche se “Wishbone Ash 4” va segnalato per la sua arguzia e soprattutto per essere stato l’ultimo lavoro con la presenza di Turner, che lascio la band nel 74, prima della partenza del gruppo per gli Stati Uniti. Al contrario di molte band di hard-rock gli Uriah Heep non ebbero subito un grande successo e questo appare ancora più strano se si pensa che i musicisti in questione erano tra i migliori del genere e sicuramente tra i più fantasiosi, anche se di creatività questo stile ne ha sempre avuta poca. Mick Box, chitarrista degli Stalkers appena diciassettenne il cantante David Byron formarono gli Spice che presto divennero Uriah Heep con I’aggiunta di Ken Hensley, tastierista, del bassista Paul Newton e del batterista Keith Baker. Nel 70 incisero “Very ‘Eavy… Very ‘Umble”, ma soltanto con il terzo album “Look At Yourself” del 71 ed un buon successo in Germania, riuscirono a sfondare. Ci furono vari cambiamenti di formazione, spesso con l’acquisto di ottimi strumentisti, ma la loro vita artistica rimase sempre tormentata anche se hanno lasciato dieci corposi album.
Tra tanti gruppi la piccola panoramica si conclude con un solista d’eccezione, che ha avuto il solo torto di amare e somigliare fin troppo a Jimi Hendrix: Robin Trower. II suo stile chitarristico, influenzato dal rhythm’n’blues, è sempre apparso straordinario, lirico e potente: una concentrazione totale sullo strumento che ha avuto i suoi risultati migliori proprio con la Robin Trower Band, una specie di reincarnazione dell’Experience di Jimi Hendrix. Prima di avventurarsi, fruttuosamente, verso la camera solista, Trower era stato nelle file dei Procul Harum che aveva lasciato nel 71 per formare una sua band, The Jude, dalla vita breve. Sono da ricordare due album, “Bridge Of Sighs” e “Trower Live” che gli aprirono le porte degli Stati Uniti, dove Trower concentrò le sue forze e si fece conoscere con lunghissime tournée. L’idea di utilizzare il termine di artisti “minori” o di serie B, non deve essere inteso come qualcosa di riduttivo, soprattutto se le band ed i lavoro da esse prodotti in quel florido periodo, dovessero essere paragonate alle scialbe e flebili prove che il rock, nel senso più ortodosso del termine, espresse a partire degli anni ’80 fino ai giorni nostri. In quanto a mancanza di “fantasia” ed esposizione di una mera forza muscolare impressa alla musica, tutto appare relativo, se si dovesse far riferimento al successivo Heavy Metal, dove, ancora oggi, l’esecuzione viene intesa, come un pura attività ginnica con gli strumenti che diventano dei veri e propri attrezzi da palestra, ma questa è un’altra storia.