Dexter_Gordon

// di Francesco Cataldo Verrina //

Dexter Gordon – «Power!», 1969

Nel 1979, in occasione del decimo anniversario del ritorno di Dexter Gordon negli Stati Uniti, la Prestige Records unificò il contenuto di due registrazioni, «Tower of Power» e «More Power», in un unico doppio LP, denominato «Power!». Le due session erano state registrate entrambe il primo aprile del 1969 con Dexter Gordon sax tenore, James Moody sax tenore, Barry Harris piano, Buster Williams basso e Albert «Tootie» Heath batteria. Durante gli anni di esilio auto-imposto, Dexter fece diversi viaggi di ritorno negli Stati Uniti, incluso uno nell’aprile 1969, il primo dopo quattro anni, al fine di partecipare ad alcune sessioni, che daranno vita al materiale contenuto in questo doppio album. In quello stesso soggiorno, sfruttò l’opportunità di suonare per due settimane al Village Vanguard di New York. Da quelle serate venne ricavato anche un doppio album live, conosciuto come «Homecoming». Nonostante «Power!» sia un disco assemblato a posteriori, risulta uniforme ed omogeneo, anche perché – come già anticipato – le due session vennero fissate su nastro a distanza di poche ore l’una dall’altra e con lo stesso line-up di strumentisti; in particolare va considerata la ricchezza e la freschezza del materiale e la varietà dei temi che Gordon mise sulla bilancia in quell’occasione.

Lo scenario si apre su «Montmartre», un bop a temperatura costante, che punta molto sull’accoppiata dei due sax, i quali volano in alto, eseguendo in fase di apertura un modulo swing quasi all’unisono, prima di planare in un vivace inseguimento musicale di tipo gatto con il topo. L’andamento è abbastanza trattenuto da consentire ad entrambi i tenoristi di lanciarsi in un doppio tempo, mentre Harris, allargando il movimento sul piano, cerca di adattarsi al loro fraseggio. La citazione della Carmen di Georges Bizet è particolarmente avvincente, dal canto suo Heath gira intorno alla melodia con un ritmo quasi funk. «The Rainbow People» è una morbida ballata di caratura superiore, che dimostra l’inclinazione di Gordon per melodie semplici, lineari e facilmente memorizzabili. L’intimità del suo timbro si accoppia in un amplesso sonoro con la calda e sincera interazione di Harris.

Le calde trame rivelano un rapporto molto intimo tra lui e Harris, mentre le linee spesse e malinconiche di Williams aggiungono una misura di empatia in più all’introspezione musicale di Gordon. «Stanley the Steamer» risulta assai moderno per l’epoca, soprattutto nel contesto del 1969, mostrando qualche sfumatura soul. Heath tira dritto come se fosse coinvolto in un arrangiamento rock. Proprio quel leggero aggiustamento di ritmo solleva l’intera band, entrando in rotta di collisione con il canone espressivo di quegli anni. Ritornando all’arte della ballata, «Those Were the Days» svela un sincronismo quasi immutabile tra Gordon e Williams che contrappongono a vicenda con grande effetto, divenendo lo zenith emotivo ed il riferimento per il lavoro ai fianchi di tutto l’ensemble. Ancora una volta, Gordon e Williams procedono per affinità elettive, mostrando equilibrio, tempismo ed un vicendevole completamento, in particolare durante l’introduzione, dove il bassista sostiene la struggente progressione del sax, imperniata su un delicato fraseggio ricco di pathos.

«Lady Bird», classico componimento di Tadd Dameron, viene rivitalizzato, mentre le strade di Gordon e Moody divergono. Sembra che la coppia stia recitando un diverso copione, ma probabilmente sta solo cercando di incorporare nel brano parte della melodia di «Half Nelson» di Miles Davis, aggiunta, presumibilmente, per volere del produttore. Infinitamente più accattivante è la cover del classico di Antonio Carlos Jobim «Meditation (Meditação)». Una sublime fusione tra blues, soul e samba, che rivela una sensualità raramente ascoltata in un album di Gordon. Sebbene sia stato proposto come brano inedito, «Fried Bananas» riporta alla mente «It Could Happen to You» di Rodgers & Hart, mentre «Boston Bernie» rifà il verso a «All The Things You Are» di Jerome Kern. Con «Power!» Gordon non tradisce il suo stileriuscendo ad ottenere un sound costantemente pieno e spazioso, caratteristica in parte dovuta al suo fisico imponente, in parte alla tendenza a voler suonare in laid back, vale a dire mantenendosi dietro al tempo, offrendo così un piacevole senso di sospensione; come sempre, il sassofonista concede abbondante spazio ai sodali, mentre tutto risulta ripartito ed equilibrato. Una peculiarità che rende set come «Power!»attrattivi all’ascolto e fruibili da chiunque si avvicini la jazz, ma non cerca percorsi ad ostacoli o enigmi sonori da sciogliere.

EXTRALARGE

Dexter Gordon Quartet – «Tokyo 1975», 1975

Ottimo il lavoro della Elemental Music, intraprendente etichetta discografica che arricchisce continuamente il proprio catalogo con inediti o registrazioni sparite dai radar, offrendo agli appassionati di jazz vere chicche in tiratura limitata, curate sia sotto l’aspetto estetico e della confezione, sia sotto il profilo della qualità sonora. Tra i vari progetti editoriali, la Elemental Music ha incluso alcune esibizioni inedite di Dexter Gordon registrate a Tokyo nel 1975, un anno prima del rimpatrio del sassofonista negli Stati Uniti, dopo una lunga permanenza in Europa consumata fra a Parigi e Copenaghen e durata ben 14 anni. L’album contiene quattro lunghe esibizioni riprese dal vivo, presso la Yubin Chonkin Hall di Tokyo, il 1° ottobre 1975. La performance di Tokyo rientra fra le due date legate al tour di Dexter Gordon con la «The SteepleChase Artist» del 1975 e potrebbe essere considerato idealmente un preambolo ad «Homecoming» (Columbia, 1976), registrato l’11 ed il 12 dicembre 1975 al Village Vanguard di New York dopo il rientro del sassofonista negli Stati Uniti. «Tokyo 1975» è un live diretto, con qualche leggera progressione post-bop. L’album inizia con l’originale «Fried Bananas», una lunga composizione proveniente dal songbook personale di Gordon.

Il line-up è ben allineato sull’asse del band-leader e consente al bassista Niels-Henning Ørsted Pedersen di esprimersi ai massimi livelli. Il suo approccio ritmico ben centrato sulla tonalità del brano e la sua acuta precisione aggiungono un livello quasi accademico alla registrazione. L’impatto immediato di Ørsted Pedersen può essere percepito subito dopo il primo assolo introduttivo del band-leader, quando il pianista Kenny Drew si ritira e l’ingranaggio inizia a girare con tre valvole. Virile e muscoloso, Ørsted Pedersen fornisce un drive perfetto al sax di Gordon, sostenuto dalle retrovie da un impeccabile Albert «Tootie» Heath alla batteria. «Days Of Wine And Roses» e «Misty» raggiunsero immediatamente il pubblico in sala ed, ora, i fruitori del disco. Ma l’autentica sorpresa è la riproposizione di «Jelly, Jelly Jelly» di Billy Eckstine. Il mantice di Gordon emette aromi blues con scelta di tempo e grazia, aggiungendo precisi vocalizzi da consumato cantante. «Tokyo 1975» del Dexter Gordon Quartet è un pregevole tassello aggiunto dalla Elemental alla discografia del sassofonista, per la gioia dei jazzofili dal palato fine e per i cercatori di perle rare.

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