LE INGUSTE E POCO DOCUMENTATE CRITICHE ITALIANE A STEVE LACY
// di Gianni Morelenbaum Gualberto //
“In 1968 I ran into Steve Lacy on the street in Rome. I took out my pocket tape recorder and asked him to describe in fifteen seconds the difference between composition and improvisation. He answered: ‘In fifteen seconds the difference between composition and improvisation is that in composition you have all the time you want to decide what to say in fifteen seconds, while in improvisation you have fifteen seconds.’His answer lasted exactly fifteen seconds and is still the best formulation of the question I know“.
“Nel 1968 ho incontrato Steve Lacy per strada a Roma. Tirai fuori il mio il mio registratore tascabile e gli chiesi di descrivere in quindici secondi la differenza tra composizione e improvvisazione. Mi rispose: ‘In quindici secondi la differenza tra composizione e improvvisazione è che nella composizione hai tutto il tempo che vuoi per decidere cosa dire in quindici secondi, La sua risposta durò esattamente quindici secondi ed è ancora la migliore formulazione della domanda che io conosca“.
(Frederic Rzewski, cit. in Derek Bailey, “Improvisation, its nature and practice in music”, Da Capo Press, London 1992
Molte inutili ore di inutili discussioni sono state in Italia maniacalmente spese da tassidermisti ed entomologi musicali per criticare Steve Lacy e la sua presunta “mancanza di swing”. Riascoltare la sua opera nel contesto della nostra contemporaneità ci rivela, nel caso ce ne fossimo dimenticati, un musicista di grande coerenza che, pur reputandosi un jazzista a tutto tondo (“I call my music jazz: that’s what it is. I don’t see any other name for it.”), operava indistintamente la composizione e l’improvvisazione, senza che si avvertisse la cesura fra i due approcci e, soprattutto, creando un corpus di lavori di personalità talmente peculiare e riconoscibile da sfuggire a qualsiasi classificazione. Il suo rapporto con Mal Waldron fu frequente, intenso e fecondo: ambedue, pur se in modo diverso, estendevano la lezione di Monk lungo i territori dell’improvvisazione contemporanea post-boppistica, uniti soprattutto dalla comune capacità e volontà di lavorare su materiali minimi. Laddove Waldron esplorava lacerti ritmici e melodici nero ebano con un’ossessività ieratica e un afflato drammatico alimentati dalla sciamanica ripetizione e dalla drammaturgia labirintica, Lacy tracciava melodici assi cartesiani di meticolosa lucidità intervallare che pure non raggiungevano mai la freddezza analitica e glaciale del reticolo cristallino, piuttosto, attraverso numerose modulazioni cromatiche, la logica caotica dell’ossidiana.
Il suo era l’approccio curioso, appassionato e sceveratore dell’indagine talmudica, istintivamente memore della definizione di Wittgenstein: “l’ebreo è una regione desertica sotto il cui sottile strato di roccia giace la lava fusa dello spirito e dell’intelletto”. Vi è una precisione chirurgica nell’eloquio ritmico di Lacy, il che talvolta può ingannare e renderlo apparentemente statico: esso va osservato e ascoltato in prospettiva per coglierne i molteplici guizzi che talvolta sembrano dettare curiose melodie folcloriche provenienti da un lontano mondo in un lontano e sconosciuto tempo, altre volte sembrano essere ispirati dal misterioso recupero di qualche Gebrauchmusik e altre ancora mettono a nudo la pratica stralunata, surreale del Dixieland. E come anche l’interpretazione di questa lirica melodia di Mal Waldron dimostra, sia il pianista che il sopranista possedevano intimamente e naturalmente il senso drammatico e idiomatico del blues, che Lacy estende anche nella sua straordinaria capacità di un onomatopeico bestiario, riportando con lacerante ma esatta inquietudine lo stridulo ma maestoso garrire dei gabbiani.