CarlosGarnett

// di Gianni Morelenbaum Gualberto //

È assai probabile che la morte di Carlos Garnett passi più o meno inosservata: egli sembrerebbe, infatti, appartenere a quella pletora di sassofonisti che, ipnotizzati dal modello coltraniano, hanno trascorso la loro vita a riproporre infantilmente l’immagine del Padre, incapaci di separarsi da essa e diffondendo la piaga del coltranismo pedissequo, destinato, nel migliore dei casi, a ingolfare le aree meno significative del mainstream (in questo senso, il recupero della lezione spirituale, universalista, misticamente afro-orientale di Pharoah Sanders e Alice Coltrane assume oggi un valore assai più rilevante, interessante e conseguente, rispetto sia al cul-de-sac dell’improvvisazione post-free più iconoclasta ma anche più a corto di argomenti e di dominio idiomatico, sia al coltranismo sterilmente imitativo).

Prima di eclissarsi nel corso degli anni Ottanta per problemi personali, dopo avere collaborato con Art Blakey, Freddie Hubbard, Miles Davis, Pharoah Sanders, Woody Shaw, fra il 1974 e il 1978 questo sassofonista di Panama, robusto, eloquente, ardente, incide una serie di album, in gran parte preziosi, per la Muse (Journey to Enlightenment, Black Love, Let This Melody Ring On, Cosmos Nucleus, The New Love), che sono una mirabile, talvolta visionaria sintesi identitaria fra radici latinoamericane, funk, afrocentrismo e afro-psichedelia. Dopo tale esplorazione del Black Cosmos proiettato nella contemporaneità, Garnett si è ripresentato negli anni Novanta in veste di eccellente strumentista dalla facondia misurata ma dal vocabolario, purtroppo, superato dagli eventi storici degli anni Ottanta, compresa l’ascesa dei cosiddetti Young Lions che, in fondo, hanno lasciato dietro di sé un’eccelsa visione strumentale ed un estremo e sofisticato cesello linguistico afflitto, però, da un certo compiaciuto marinismo (il che per anni, ad esempio, ha impedito il concreto apprezzamento dell’opera di uno dei pochi eredi del verboso coltranismo dotato di assolute capacità innovative in ambito linguistico come Michael Brecker).

Tuttavia, le incisioni realizzate da Garnett per la Muse rimangono un testamento prezioso e preveggente (vi è già esposta l’estetica messa a punto nella prima e seconda decade del XXI secolo dal collettivo, anch’esso sottovalutato, West Coast Get Down), che andrebbe riascoltato e studiato attentamente fra i tanti tentativi di mantenere la veste politica del coltranismo attraverso il riallaccio alle radici popolari della tradizione africano-americana, evitando le secche di ideologismi in larga parte favoriti, affabulati, manipolati e inventati dalle intellighentsie bianche europee e dal massimalismo complice di think thank apparentemente ortodossi ma in frealtà ambigui e contraddittori come il Black Arts Movement.

Carlos Garnett – Journey To Enlightenment (1974)

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