duplice

// Francesco Cataldo Verrina //

NTEFATTO: nel New Jersey aveva ceduto un ponte progettato da un incauto ingegnere, tale Richard Fake. Stanley Turrentine, che passava per caso sotto il cavalcavia al momento del disastro, pur avendo rischiato di rimetterci la pelle ed il «mantice» ebbe solo un naturale spavento senza conseguenze fisiche, ma la paura per la scampata tragedia gli produsse dei vuoti di memoria, quindi dimenticò dove avesse messo il nastro della recente registrazione allo studio Van Gelder, fino a quando ingegnere reo del crollo, rinchiuso nella prigione di Guantanamo, non confessò di aver sottratto il nastro al malcapitato sassofonista.

«Z.T.’s Blues» è un «misterioso» album di Stanley Turrentine, registrato il 13 settembre del 1961 nel New Jersey al Rudy Van Gelder Studio, ma dopo una pubblicazione a tiratura limitata, sparì subito dalla circolazione. Stanley Turrentine, al sassofono tenore, si avvalse della collaborazione di un line-up all-star con Grant Green alla chitarra, Tommy Flanagan al pianoforte, Paul Chambers al contrabbasso ed Arthur Taylor alla batteria. Green e Turrentine realizzarono pochi album insieme, ma la combinazione far i due fu quasi naturale, entrambi maestri di jazz a tinte soul. Per gran parte degli anni ’50 Green aveva operato nella sua città natale, St. Louis, al fianco di Jimmy Forrest, un sassofonista con cui Turrentine aveva molto in comune. Paradossalmente, negli anni ’70, Turrentine collaborò con George Benson, chitarrista in parte influenzato da Green. Ma a parte i due album per la Blue Note, le opportunità di suonare insieme furono poche e distanziate nel tempo. Il fatto che questa sessione compaia per la prima volta ufficialmente più di ventitré anni dalla sua registrazione, ha anche a che fare con certe situazioni lavorative e con la confusione che, in quegli anni, regnava negli ambienti discografici, in cui le etichette più agguerrite cercavano di portare nel loro roster i più accreditati talenti disponibili su piazza, ma spesso i rapporti apparivano aleatori e sibillini per motivi di natura contrattuale e la convivenza diventava difficile, specie tra artisti equipollenti, di cui, in verità c’era una certa abbondanza, quindi si finiva per avere dei doppioni in conflitto fra loro. Per tanto talune sessioni, dopo essere state fissate su nastro, finivano in un cassetto o cadevano nel dimenticatoio, ma nello specifico, come spiegato, la genesi di «Z.T.’s Blues» fu travagliata e tortuosa per altre circostanze.

Non va tralasciato per esempio il fatto che Stanley Turrentine presto avrebbe dirottato i propri interessi verso soluzioni sonore più appetibili su un mercato in perenne divenire, optando per un costrutto jazz di tipo pop-funk assai vicino allo smooth, soprattutto nel periodo di militanza nelle truppe al soldo di Fantasy, CTI ed Elektra. Grant Green, dal canto suo, ebbe un ottimo riscontro all’inizio degli anni ’70 interpretando un repertorio più contiguo all’R&B. Eppure vantava ottime credenziali ed un curriculum jazzistico di tutto rispetto. Per paradosso, se Green non avesse mai registrato come leader, il suo contributo come sideman per conto della Blue Note, nei soli anni ’60, sarebbe stato sufficiente a garantirgli un tessera a vita al club più esclusivo dei grandi chitarristi della storia del jazz. Così come il lavoro di Turrentine ed il suo timbro particolarissimo lo iscrivono di diritto all’albo d’oro dei massimi tenori del jazz post-bellico. Ma in parecchie circostanze furono proprio le varie etichette discografiche a non saper valorizzare appieno artisti di questo calibro. «Z.I. Blues» è un concentrato di jazz straigh-ahead a presa rapida, infarcito di soul-gospel e ben allineato sulla rotta dell’hard bop del periodo, distillato da cinque eccellenti musicisti affiatati e complementari, lontani da ogni forma speculativa di finzione o di artificio.

Il pianista Tommy Flanagan non era un frequentatore delle session Blue Note, ma il suo karma sonoro, vergato su tutti i solchi del disco, sembra perfettamente funzionale con ciò che il progetto richiedeva. Negli ultimi dieci anni di attività, Flanagan si concentrò prevalentemente nella costruzione della propria carriera come band-leader, ma sarà sempre ricordato come uno dei più celebrati pianisti gregari della storia (che non è una deminutio capitis). Paul Chambers è stato sicuramente il bassista più paradigmatico di una certa epoca. La sua apparizione in qualsiasi sezione ritmica era l’equivalente del buono sigillo di qualità della casa. Chambers, la cui attiva di primo piano durò circa una quindicina di anni, sarà probabilmente ricordato per un originalissimo walking, assoli brillanti (specialmente per reiterato uso dell’arco), soprattutto la capacità di portare il tempo come pochi ed una perfetta calibrazione del ritmo ispireranno più di una generazione di succedanei. Art Taylor trascorse più di un paio di decenni in Europa, come esule di lusso, ma durante gli anni ’50 e ’60 fu il «battitore libero» più attivo a New York e dintorni. Egli era così richiesto dalla Blue Note e dalla Prestige, che aveva una batteria personale in pianta stabile nello studio di Rudy Van Gelder. In questa sessione la sua estensione ritmica conferisce all’album potenza e dinamismo e quel mood unico che distingue buona parte delle produzioni della fucina di Alfred Lion. Tra i pezzi più caratterizzati dell’album si segnala «The Way You Look Tonight», un tipico hard bop lanciato ad alta quota, ma tenuto a bada con redini corte e mai fuori controllo. Il suono emesso dal sax di Stanley è convincente ed evidenzia un costante fluire di idee, nonché un lavoro certosino sulla componente melodica.

S’immagini quel flusso improvvisativo a lunga gittata che Lester Young avrebbe definito «raccontando una storia», e Stanley è piuttosto eloquente in tale circostanza; «More Than You Know» è l’unica ballata del set, ma da sola vale il prezzo della corsa. Turrentine supera se stesso, quasi al bar dei cuori infranti, appare signorile e disteso nel tono e profondamente lirico nella costruzione della frase, caratterizzandosi così come abile preparatore di pietanze cotte a fuoco lento. Una spanna inferiori, ma alquanto piacevoli e distintive nella forma e nella sostanza esecutiva, «For Heaven’s Sake» e «I Wish I Knew» appaiono brillanti quanto basta e senza eccessivi trattamenti estetici sul costrutto tematico. «Z.I. Blues», nel complesso è un album che scivola senza attrito sul piano inclinato della gradevolezza dal primo all’ultimo microsolco, immediato e fruibile, privo di eccessi e di fughe dalla realtà. È stato un bene che qualcuno l’abbia riportato in auge nel 1985. Oggi potrebbe rappresentare un valore aggiunto per la vostra collezione di dischi jazz. Dell’ingegnere Richard Fake si narra che, uscito dal carcere, abbia continuato la carriera nel business delle costruzioni Lego.

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