FresuQuartet

// di Francesco Cataldo Verrina //

Per inquadrare bene «Carpe Diem», che segna il ritorno di Paolo Fresu alla dimensione acustica con il Devil Quartet, l’album va collocato anche in una dimensione spirituale e filosofica, partendo dall’esistenzialismo di Orazio racchiuso nel concetto di «attimo fuggente». Il poeta latino scrive nelle Odi: «Dum loquimur fugerit invida aetas: carpe diem, quam minimum credula postero.», ossia «Mentre parliamo il tempo sarà già fuggito, come se ci odiasse: cogli l’attimo, confidando il meno possibile nel domani». La filosofia oraziana del carpe diem si fonda sulla considerazione che all’uomo non è dato di conoscere il futuro, né tantomeno di determinarlo e che solo sul presente l’uomo abbia l’arbitrio di intervenire.

I riferimenti alla poesia, alla letteratura, al cinema, alla pittura da parte del musicista sardo sono disseminati in lungo ed in largo per tutta la sua discografia: Fresu è forse il jazzista europeo che maggiormente si relaziona con le espressioni artistiche di ogni tipo. Questo confronto serrato tra musica ed arte amplia notevolmente il suo spettro creativo e compositivo. A parte la title-track, «Carpe Diem», il disco è caratterizzato da altri due titoli che nascono dalla scomposizione del concetto oraziano: la quinta traccia, «Dum Loquimur, Fugerit Invida Aetas» e la dodicesima «Quam Minimum Credula Postero» fungono quasi da asse portante per l’intera struttura narrativa del disco.

L’analisi sonora dei singoli brani ci porta a considerare l’idea del carpe diem come espressione dell’angosciosa imprevedibilità del futuro, la gioia dignitosa della vita ed il coraggio di affrontare la morte. Nella musica del Devil Quartet, come nelle odi oraziane, i sentimenti si confondono con l’ammirata esplorazione lirica del paesaggio, talvolta meraviglioso e sublime, talvolta a tinte cupe e fosche; un intreccio di melodie e ritmi quale riflesso perenne di un’esistenza complessa, di un reticolo fittissimo di esperienze e di sensazioni, che è lecito vivere intensamente soprattutto nel presente. Tra i riferimenti e le citazioni potrebbe esserci perfino «Tempus Fugit», composizione del pianista Bud Powell magnificata da una splendida versione di Miles Davis. In verità Fresu rende omaggio al Miles Davis di «Ascenseur Pour L’èchafaud» nella swingante «Lines» scritta dal bassista Paolino Dalla Porta. Nell’album si avverte una tensione superficiale che si trasforma progressivamente in una placida serenità: l’iniziale vocazione elettrica del Davil Quartet in questo terzo disco cede il passo ad una dimensione più intima. A livello di scrittura, le quattordici composizioni, quasi tutte di media o di breve durata, sono equamente divise fra i quattro membri del line-up: Paolo Fresu tromba e flicorno, Bebo Ferra chitarra acustica, Paolino Dalla Porta contrabbasso e Stefano Bagnoli batteria.

Nell’opener «Home», a firma Bebo Ferra, Fresu esprime un fraseggio limpido e ricco di pathos, mentre la tromba si fa strada nella leggera trama di un tema crepuscolare, sostenuto dai Devils che dalla retrovia garantiscono interventi calibrati e persistenti. «Carpe Diem», che da il titolo all’album, è un distillato soulful, un piacevole mid-range a cui la chitarra aggiunge un gusto quasi smooth esaltandosi nello scambio costante con tromba. «In minore» è giocata su una melodia espansa ed a larghe falde; la scelta tonale ne sviluppa un’aura del sapore ancestrale, in cui a metà del percorso emerge un assolo fortemente melodico del bassista Paolino Dalla Porta, che conduce il contrabbasso in una dimensione quasi chitarristica. «Enero», composta da Fresu, è il tipico strumentale che non ha bisogno di un testo cantato per essere definita canzone a tutti gli effetti: gli strumenti parlano, cantano e si esprimono con affabilità colloquiale e con lirica immediatezza, mentre la chitarra di Ferra e la tromba di Fresu, in perfetta sinergia, si scambiano promesse per l’eternità. «Dum loquitur. Fugerit invida Aetas», componimento di gruppo, presenta un abbrivio multidirezionale, perfino dissonante, che non offre precise coordinate di riferimento, ma progressivamente sembra trovare una precisa linea di demarcazione comune a tutti sodali. «Lines» è uno dei climax dell’album, se non il punto d’eccellenza, una polveriera di swing, dove il quartetto declama la formula rituale del post-bop di alta scuola guardando al passato, ma senza perdere mai il legame con la contemporaneità.

«Secret love», che reca in calce il marchio di Dalla Porta, è una ballata blindata nella melodia, ma la sordina caricata da Fresu ne trova immediatamente la combinazione attraverso una perforante esecuzione che raggiunge abissali profondità emotive. «Ballata per Rimbaud», scritta dal batterista Stefano Bagnoli, è dedicata al poeta che più di ogni altro insieme a Baudelaire ha destrutturato il componimento tradizionale e dove la poesia diventa lirica attingendo alla libertà dell’immaginario, ai sensi e ad una visione talvolta surreale. Una sorta di jazz moderno dove l’ordine sintattico risulta spezzato, il ritmo ricreato al di là dei dettami della tradizione; così la tromba di Fresu s’insinua in un fluorescente percorso melodico sospinto dalla pura immaginazione poetica. «Ottobre» è l’autunno della vita, il crepuscolo dei sentimenti, il tessuto sonoro è morbido ed avvolto nel tepore della sordina e ricamato dai colpi spazzolati della batteria di Bagnoli. Dalla penna del leader esce il suggestivo «Tema per Roma», brano dove la tromba di Fresu, con e senza sordina, viene sovraincisa in un intrigante dialogo con il suo doppio riflesso, mentre i sodali sullo sfondo disegnano un tappeto ritmico dai tratti somatici vagamente esotici di tipo latin-bossa.

«Human Requiem» si apre con la chitarra calata in una dimensione onirica che scandisce le note come una nenia conciliante, il cui tema viene ripreso dal musicista di Berchidda che ne asseconda i propositi con un incedere flessuoso e spaziato. «Quam Minumum. Credula Postero» procede con un movimento angolare e spigoloso, concentrando in poco più di un paio di minuti la tensione e la vocazione quasi fusion della band. Date le circostanze si potrebbe pensare che «Giulio Libano», imperniato su un rilassato costrutto caraibico, sia riferita ad un antico condottiero romano, in realtà è un tributo all’omonimo musicista vercellese, storico collaboratore di Adriano Celentano, con una carriera divisa tra canzoni pop e l’amore per la musica jazz. «Un posto al sole» riprende la sigla dell’omonima e fortunata soap-opera giocando su un contrastante intreccio soul-country, ossia tromba-chitarra, e gettando un ponte ideale tra l’America e la città partenopea.

«Carpe Diem» pur sostanziandosi attraverso una serie di momenti volutamente disomogenei, a testimonianza della varietà compositiva del quartetto, è un album scorrevole, giocato sull’affiatamento spontaneo del gruppo foriero di uno stile affermato in perenne evoluzione e sulla varietà di ambientazioni sonore, incentivate dalla chitarra acustica di Ferra e dalla batteria leggiadra di Bagnoli. Il Devil Quartet, rispetto al range abituale della formazione più votato ad una sorta di fusion elettrificata, in questo set azzarda una virata netta verso la più naturale inclinazione di Paolo Fresu ad un jazz aggraziato, ma di spessore, più intenso, introspettivo e basato su melodie intellegibili, soprattutto sorretto su un lavoro collegiale, nella forma come nella sostanza. In conclusione, «Carpe Diem» è contemporaneamente un disco suadente e dalle tinte accese, che procede con lo spostamento degli accenti forti della battuta sui tempi deboli per dare un maggiore impulso dinamico alla frase musicale, passi sincopati e ritornelli a presa rapida, i quali riescono con estrema facilità e delicatezza a sollecitare la sensibilità e la fantasia del fruitore grazie al perfetto equilibrio tra armonia, musicalità ed improvvisazione.

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