JAZZ: POLEMICHE E DIFFERENTI SCUOLE DI PENSIERO GENERANO UNA SORTA DI BATRACOMIOMACHIA

// di Kater Pink //
Irma Sanders ha scambiato quattro chiacchiere in redazione con Francesco Cataldo Verrina
D. Caro Francesco, ci domandiamo spesso che cosa sia il jazz e quale possa essere il migliore approccio a questo tipo di musica. Quanto è importante leggere?
R. Ci sono molti approcci e tutti rispettabili. Per la comprensione dei fenomeni jazz è importante leggere, ma poi in fondo la storia è quella, ci sono vari metodi di affrontarne la narrazione: esistono autori che hanno fatto i quadretti autobiografici, altri che hanno sviluppato una lettura dei fatti attraverso un’indagine socio-antropologica; altri che muovono da alcune direttrici di marcia e poi a grappolo legano i vari fenomeni, concatenandoli gli uni agli altri; chi si sofferma sulle singole biografie; chi elenca discografie infinite; sono rari gli autori che sanno spiegare la vera essenza del jazz, ossia rendere il jazz qualcosa di comprensibile alla massa.
D. Chi riesce a spiegare meglio le vicende che ruotano intorno al jazz secondo te?
R. Credo che il jazz sia una materia multidisciplinare. Il sociologo spesso sa poco di musica, ma analizza i fatti nel breve periodo e li lega ad avvenimenti connessi con l’evoluzione sociale. Lo storico racconta i fatti, indaga sui particolari e sulla sfera personale del musicista. Il musicologo talvolta pecca di tecnicismo, diventando ostico per la maggio parte dei lettori, poiché la stragrande maggioranza di chi ascolta jazz non ha mai tenuto in mano uno strumento musicale, e non è interessato a sentir parlare di tonale, modale, scale maggiori e minori. Non è un’impresa facile scrivere di musica, ma soprattutto scrivere di jazz, che nella mentalità comune, particolarmente in Italia, è vista come una musica elitaria, difficile, molto creativa, ma poco ricreativa.
D. Quindi secondo te dov’è la disfunzione?
R. Non si tralasci mai il fatto, che molti cercano nella musica un trastullo per il dopo lavoro o per riempire una pausa post-prandiana. Sono una minima parte coloro che seguono il tutto con attenzione e scrupolo. Serve comunque a poco e niente, se dopo aver letto tanti libri o riempito una libreria non non si riesce a capire quale delle tre trombe, tra Lee Morgan, Blue Mitchell e Art Farmer somiglia di più a quella di Miles Davis e perché, solo per fare un esempio banale. Il jazz, fatta eccezione per chi lo suona, s’impara soprattutto, dedicando decine di ore all’ascolto dei dischi, ovviamente non lo si può fare in una settimana, forse non basta una vita. Anche perché quando pensi di aver capito tutto, scopri che riascoltando quel dato autore o quel certo disco non avevi capito alcuni passaggi e molti dettagli ti erano sfuggiti.
D. Il jazz dunque non invecchia mai, si autorigenera per partenogenesi?
R. Diciamo che il jazz non ha età, soprattutto perché, magari oggi riascolti per sei volte di seguito un vecchio album di Bud Powell e ti rendi conto che un giovane pianista, acclamato da vari critici, non solo non sta inventando nulla, ma non ha neppure l’abilità e la classe di quel vecchio pigia tasti su cui oramai gravano trenta centimetri di polvere. Viviamo nell’epoca dei critici «analfamusici», che a volte prendono fischi per fiaschi e lucciole per lanterne: astrusi fenomeni vengono accompagnati dalla parola jazz, incanalati in un genere che non gli appartiene, sia nella forma che nella sostanza, attraverso definizioni bizzarre, che a volte suscitano ilarità come new-electronic-jazz. In conclusione, accettiamo pure caramelle dagli sconosciuti, ma cerchiamo di allenare il nostro orecchio, attraverso l’ascolto, solo così potremo giungere a valutazioni e successive scelte in piena autonomia di giudizio.
D. Sui social si discute molto di jazz e non si trova mai un punto di pareggio. Come mai?
R. È proprio così, prendi il nostro gruppo di FaceBook, Jazz & Jazz, nel quale spesso si sono verificati scontri, discussioni e polemiche tra rane e topi a proposito di un concetto fondamentale: che cosa è il Jazz? Il significato di jazz per alcuni è assai diverso diverso, rispetto a come altri lo intendono. Tutto ciò favorisce un terreno di scontro e presta continuamente il fianco alla polemica. C’è chi vorrebbe il jazz più esclusivo, chi lo vorrebbe più inclusivo e dilatato. Giorni fa una persona, ad una cena, in qualche modo mi ha sconvolto, dicendomi: «Il jazz è la musica che ascolta chi non ha bisogno di lavorare!». Ho cercato di rassicurarlo, spiegandogli, che i jazzofili non solo lavorano, ma spesso fanno piccoli sacrifici per coltivare questa passione. Tale visione un po’ elitaria e distante dal «popolo» che molti hanno ancora del jazz dovrebbe indurre a qualche riflessione. Un dubbio mi assale: forse siamo noi che non abbiamo realmente capito che cosa sia il jazz, magari abbiamo delle difficoltà a spiegarlo. Manca, forse, un buona narrazione «dell’oggetto del contendere»: anche in molti testi ritenuti basilari, la confusione regna sovrana. Dunque, le rane e i topi continuano a combattersi, e come nel poemetto omerico sulla batracomiomachia, dove ad un certo punto scendono in campo pure i granchi. Esistono due strade da percorrere: o accettiamo l’idea che rane e topi possano convivere, oppure avremo preso tutti un grosso granchio, se pensiamo che sarebbe stato meglio continuare a scagliare fulmini come faceva Zeus, anziché discutere pacatamente senza voler imporre alcun verbo divino. Diceva Duke Ellington: «La musica è l’arte invisibile!», personalmente aggiungo che il jazz a volte sia più difficile da vedere rispetto a qualsiasi altro tipo di musica.
D. Quali sono le differenti posizioni che innescano polemiche sul jazz e dintorni?
R. Come dicevamo, esistono differenti approcci differenti alla materia: A) ci sono tanti musicisti, il nostro fiore all’occhiello, che sono parte in causa, quindi hanno una visione parziale, in quanto è tutto riferito essenzialmente al loro essere artisti al centro dell’attenzione; B) ci sono quelli che sono focalizzati su un certo numero di esecutori, musicisti o di dischi, a prescindere dalla tipologia di jazz e non riescono ad andare oltre, anzi non vogliono andare oltre, non sono interessati a categorie o suddivisioni di generi, di stili, e di formati, come combo, orchestre, bop, swing, fusion, pre-bop, post-bop; C) da non sottovalutare i cosiddetti intellettuali della nouvelle vague, o del nuovo a tutti i costi, categoria rispettabilissima, altrimenti il mondo si fermerebbe, sono coloro che ci ricordano sempre che il jazz è cambiato, si è evoluto, si è modificato; D) sul lato opposto i tradizionalisti, ossia i laudatores temporis acti, spesso anche per motivi anagrafici, ma non sempre, sono quelli che considerano il jazz un affare concluso o quasi con l’avvento del bop e sognano le grandi orchestre, il swing e le immense music hall degli anni 30, rinfacciando ai più (giovani) la poca conoscenza della storia del jazz, secondo loro, quello vero; E) necessari come l’acqua i cosiddetti bastian contrari, costoro spesso sono uno stimolo o da pungolo necessario e fanno in modo che si possano sviluppare le discussioni; F) assai consistente la tribù degli amanti del jazz a prescindere, di tutto e di più: vinili, CD, liquida, libri, riviste, concerti, sono quelli che spendono i soldi per una passione vera e non si fanno tante masturbazioni mentali, partecipano poco alle discussioni, ma se lo fanno è per mostrare i loro acquisti, ma si godono la musica; G) i più spassosi sono quelli che spuntano dal nulla, lanciano un bordata con atteggiamento spesso moralistico e saccente, con l’aria di chi pensa: ma chi vi credete di essere, andate a lavorare; H) da studiare quelli che fanno confusione tra l’argomento proposto e la persona che scrive, e producono attacchi ad personam per difendere il proprio idolo messo in discussione, con atteggiamento sprezzante, ma non sono cattivi sono solo infatuati; I) ultimi, ma non per importanza, quelli che guardano dall’alto, non avendo capito che la comunicazione sul web è orizzontale e non verticale e che in fondo stiamo parlando di musica e non della fame nel mondo.
D. C’è un futuro per il jazz in Italia?
R. Alla luce di quanto accade nell’universo della discografia italiana, faccio una piccola riflessione: L’hip-hop, genere inventato dagli Afro-americani, in Italia, è riuscito a diventare un fenomeno largamente accettato e condiviso, specie fra i giovani, trasformandosi in un prodotto con delle caratteristiche autoctone ben precise, ed una riformulazione tipicamente locale, dove esiste una scena underground ed una scena mainstream, una cultura ed una sub-cultura hip-hop italiana. Con le dovute differenze, in ambito jazzistico, ciò non è mai accaduto e provo ad enucleare alcune cause: ab origine, il jazz in Italia fu veicolato da un’élite culturale di estrazione liberal-borghese, che faceva dei distinguo tra musica col K e musica di serie C, rivestendo il jazz di un patina di aulicità, che l’ha allontanato dalla massa. Quando il jazz arrivò ai movimenti di protesta, era già troppo tardi. Persiste, a tutt’oggi, un sentimento largamente diffuso, per cui il jazz sarebbe musica difficile, complicata e riservata solo a degli eletti, spesso ad un pubblico maturo; in seconda istanza nel jazz italiano si è sempre operato in maniera fortemente individualistica, per paura forse di condividere una coperta troppo corta; soprattutto il jazz in Italia non è diventato mai un «movimento», ma un insieme indistinto di personalità singole, spesso di talento, ma poco collaborative, le quali si esprimono attraverso tutta una serie di conventio ad excludendum, specie nei festival e nelle rassegne più importanti, lasciando sistematicamente i giovani fuori dalla porta.
D. Come giudichi la qualità delle proposte italiane in ambito jazzistico?
R. In italia il jazz è come una facoltà a numero chiuso. Il nostro paese pullula di ottimi musicisti, alcuni di livello internazionale, ma il jazz italiano come sistema è uno spettro vagante: manca, in primis, un buona informazione, un stampa di settore seria e capace d’intercettare le novità, fare scouting, lanciare nuovi personaggi. In Italia esiste un potentato di feudatari del jazz con i loro vassalli, che tendono a portare nelle rassegne e nei festival a vario titolo, sempre i soliti noti e gli amici di cordata, Nel nostro paese vengono considerati jazzisti personaggi di spettacolo, guitti televisivi e cantati da balera, soprattutto le etichette italiane (poche quelle vere) hanno difficoltà a gestire la materia: non hanno i mezzi per fare una promozione adeguata e per guidare gli artisti in un percorso costruttivo e migliorativo. Spesso la distribuzione e la promozione sono pressoché inesistenti. In genere, alcuni giovani e speranzosi jazzisti vanno da uno stampatore a pagamento con un master già registrato in qualche home studio e realizzano un CD autoprodotto, ultimamente anche un LP in vinile, e se lo vendono durante le serata o tra amici e parenti. Il jazz in Italia è in massima parte autogestito. Manca un indicatore di tendenza ed una guida e , come dicevamo, non esiste il concetto di movimento. Purtroppo molti validi musicisti restano al palo, esclusi dal sistema come studenti che ambiscono ad una facoltà a numero chiuso. Oggi non è solo importante fare buona musica, ma quanto saperla comunicare al mondo. Vige la teoria del calabrone che in pratica, per struttura fisica, non potrebbe volare, eppure ci riesce ed è velocissimo a colpire la preda, ma ha un suo metodo ed una sua tecnica.
