Harold-Land-Quintet-1959-The-Fox

Un’intuizione mi si palesa improvvisa: e se il titolo «The Fox» e la sua folle velocità fossero un’allusione alla caccia alla volpe, ovvero all’inseguimento velocissimo dell’animale da parte dei cacciatori e dei cani, che la scaltrezza dell’animale cacciato richiede?

// di Marcello Marinelli //

Nel dialetto romanesco esiste un’espressione idiomatica per elogiare la furbizia di una persona, o per dileggiarla qualora si voglia affermare il contrario: «Ma che te magni pane e volpe la mattina?». Mi sono chiesto il perché di un titolo come «The Fox» (la volpe) per quest’album. Mi piace infatti indagare anche gli aspetti extramusicali dei dischi e dei musicisti. Ovviamente, non credo che il titolo abbia a che fare con la furbizia nel senso di astuzia diabolica. Più probabilmente, si riferisce allo slang afroamericano degli anni ’50, che definiva «The fox» una persona affascinante o stilosa per il suo carisma e la sua personalità. Oppure, potrebbe far riferimento all’astuzia e alla padronanza tecnica dei musicisti, capaci di suonare su tempi funambolici con formidabile destrezza.

La mia conoscenza di Harold Land risale al celeberrimo quintetto di Clifford Brown (tromba) e Max Roach (batteria) del 1954/55, con il loro disco omonimo. Il sassofonista, texano di nascita ma californiano d’adozione, riusciva a tenere testa al trombettista negli assoli, sia per tecnica che per ispirazione. Quel disco rimane uno dei più belli nella storia del jazz. «The Fox» è il suo terzo disco da leader. L’album si apre con il brano che gli dà il titolo, «The Fox». È talmente scoppiettante e veloce che, in quanto a velocità, potrebbe infrangere la barriera del suono! Il pezzo, composto dal leader, inizia con un’introduzione al pianoforte di Elmo Hope, che sfoggia subito le sue qualità tecniche. Dopo la breve intro del pianista, il tema è suonato all’unisono da Harold Land e dal trombettista Dupree Bolton. Land sfodera un assolo su tempi pazzeschi e cavalca il ritmo come Wagner nella «Cavalcata delle Valchirie». A differenza della composizione di Wagner, che evoca forza travolgente e distruzione, qui troviamo solo una forza impetuosa senza alcun intento distruttivo; la Valchiria, la regina evocata della mitologia nordica, non deve raccogliere nessun cadavere di caduti in battaglia. Dupree Bolton restituisce il favore al leader con un assolo supersonico che ricorda l’incedere musicale di Clifford Brown. Raggiungere la magnificenza di Clifford Brown non è da tutti, ma Dupree Bolton si avvicina molto in quanto a virtuosismo e ispirazione, pur senza eguagliarlo: un privilegio riservato a pochissimi. Frank Butler alla batteria e Herbie Lewis al contrabbasso completano il quintetto e reggono il «tempo» infernale che sprigionano i musicisti con nonchalance e maestria. Si ritagliano il loro spazio vitale negli scambi canonici di fine brano, prima del tema conclusivo, come volessero urlare al mondo intero, tutti insieme appassionatamente, la loro bravura con uno slogan: «E chi ha voluto capì ha capito!».

La tragedia di Dupree Bolton

La figura del trombettista Dupree Bolton, sconosciuto ai più (e anche a me stesso) prima di questo disco, merita una menzione speciale. Nato a Oklahoma City il 3 marzo 1929, da giovanissimo fu avviato alla musica, studiando prima il violino e poi la tromba. A soli 17 anni, scappò di casa per unirsi alla band di Jay McShann, ma subito iniziarono i guai. Come spesso accadeva in quegli anni nel mondo del jazz, l’uso dell’eroina era tristemente diffuso. Moltissimi musicisti caddero nella trappola della dipendenza, con conseguenti ripercussioni sulla vita dei più fragili. Nel caso specifico, Dupree Bolton trascorse più della metà dei suoi anni in varie carceri degli Stati Uniti, tra cui San Quentin, Soledad e Terminal Island. Si stima un totale di 30-31 anni di detenzione, distribuiti in più periodi tra i 18 e i 54 anni circa. Questo rappresenta un record assoluto di anni in prigione per un musicista: non una singola detenzione, ma una serie di condanne plurime, tutte legate al consumo e allo spaccio di sostanze stupefacenti, senza mai alcuna accusa per crimini violenti. Dupree Bolton morì nel 1993, a 64 anni. In carcere formò anche band con altri musicisti detenuti famosi come Art Pepper, Frank Morgan e Jimmy Bunn, e suonò con altre formazioni semi-professionali. La cosa incredibile è che le durissime condizioni nelle carceri statunitensi abbiano anche favorito lo sviluppo di band e la possibilità per i musicisti di suonare. Dupree Bolton si esercitava anche 12 ore al giorno: brandelli di umanità all’interno di luoghi infernali di detenzione. Lo stesso Bolton diceva che il carcere lo ha salvato da una molto probabile overdose. La sua è una storia particolare e forse, se non avesse trascorso tutti questi anni in prigione, avrebbe raggiunto la maestria e la fama di Clifford Brown, a cui si era ispirato. Anche la vicenda di Clifford Brown fu tragica, morto a soli 25 anni per un incidente stradale. Questa storia mi tocca da vicino: anche un mio amico d’infanzia è stato risucchiato dalla spirale della dipendenza da eroina e si è fatto una quindicina d’anni di carcere non continuativi, senza però la consolazione di suonare uno strumento musicale ad alto livello. La maledizione dell’eroina colpisce in ogni epoca e in ogni angolo del mondo. Ironia della sorte, in questo disco il leader Harold Land, contrariamente ai cliché del musicista tossico degli anni ’50 e ’60, si è sempre distinto per la sua sobrietà, disciplina, spiritualità e dedizione familiare. Quest’ultima motivazione è anche la causa per cui lasciò il gruppo di Clifford Brown e Max Roach; a dimostrazione che uno stile di vita diverso è possibile e si può resistere ai tentacoli della droga micidiale.«»

Gli altri brani dell’album

Il secondo brano del disco non poteva essere un pezzo lento dopo la velocità supersonica del primo, in stile Usain Bolt (il celebre velocista giamaicano). È una boutade che stabilisce un’assonanza fonetica e una velocità d’esecuzione tra il nome «Bolt-on» (Bolton) e il celebre atleta. Il secondo brano, «Mirror-Mind Rose», scritto da Elmo Hope (come tutti gli altri tranne due a nome del leader), celebra la quiete dopo la tempesta. Visto che il nome del compositore significa «Speranza», mi auguro che il pianista abbia trovato qualcosa di buono nello «specchio riflesso della mente di Rose». Il motivo scorre tranquillo e senza scossoni; dobbiamo riposare dal precedente, e una ballad suonata con il giusto trasporto è proprio quello che ci vuole. «One Second, Please» (Un secondo, per favore, forse una frase per reclamare pazienza o attenzione) è il terzo brano della facciata A e la chiude brillantemente a ritmo sostenuto, ma non supersonico come nel primo. Gli assoli sono efficaci e brillanti. L’assolo estremamente rilassato di Harold Land richiama, per associazione libera, le palme delle spiagge di San Diego o di Venice a Los Angeles. I consueti scambi di battute tra i fiati e la batteria di Frank Butler concludono egregiamente il brano e la facciata A del disco. «Sims A-Plenty» inaugura la facciata B e continua sulla falsariga dei pezzi precedenti, a ritmi sostenuti ma non vertiginosi. La scrittura dei brani di Elmo Hope è efficace e smagliante, e l’atmosfera è quella della grande tradizione hard-bop degli anni ’50. In questo brano, oltre agli assoli del leader, del piano e della tromba, è da mettere in rilievo anche quello alla batteria di Butler. La penultima traccia, «Little Chris», composta dal sassofonista e dedicata al figlio, mette in evidenza la bravura e l’ispirazione dei due fiati, insieme alla perizia del pianista e della sezione ritmica. Chiude il disco «One Down», con una ritmica latineggiante sulla splendida melodia del tema, per poi virare su un andamento tipico in 4/4 sulle improvvisazioni in cui risalta il tema del trombettista e quello del pianista, nonché un bell’assolo finale del batterista.

Per concludere, «The Fox» è un classico album hard bop della West Coast, con musicisti di altissimo livello e composizioni mai banali di Elmo Hope (sei su otto) e le rimanenti due di Harold Land. Un’intuizione mi si palesa improvvisa: e se il titolo «The Fox» e la sua folle velocità fossero un’allusione alla caccia alla volpe, ovvero all’inseguimento velocissimo dell’animale da parte dei cacciatori e dei cani, che la scaltrezza dell’animale cacciato richiede? Nel dilemma che mi ha accompagnato nel tentativo di carpire un significato altro dalla musica e dal pericolo imminente per l’animale carnivoro, non posso che chiudere con un benaugurante «God save the fox!».

Harold Land

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