«New York Days» di Enrico Rava, un classico contemporaneo, tra forma e deforma mentis (ECM, 2009)

Lungi dall’essere un disco che sorprende per innovazione, esso rivela una forma di classicismo contemporaneo, dove la misura diviene criterio e la sobrietà si fa stile. La tromba di Rava agisce con discrezione, ritraendosi e riemergendo, sempre nel rispetto di un equilibrio basato più sulla tensione che non su uno story telling lineare ed a presa rapida.
// di Francesco Cataldo Verrina //
«New York Days» di Enrico Rava definisce un concept musicale frutto di una maturità compositiva, consapevole e scevra da ornamenti retorici. Il trombettista delinea un impianto sonoro che si pone nell’alveo di una ricerca ininterrotta, dove ogni nota si manifesta come gesto meditato, qualunque pausa come spazio di riflessione. La formazione che lo affianca, lungi dal limitarsi a sostenere o accompagnare il flusso musicale, ne diventa parte attiva. Stefano Bollani, interlocutore prediletto, con il suo pianismo, sempre elasticizzato e ricettivo, imbastisce una tessitura armonica che connette ed amalgama le varie forze in campo come una sorta di hub, ma senza mai sovrapporsi. Mark Turner, foriero di un fraseggio analitico ed avulso da ogni di enfasi, introduce una fisionomia sonora che si attesta per rigore e nitidezza, mentre Larry Grenadier e Paul Motian intervengono quasi come voci autonome. La tromba di Rava agisce con discrezione, ritraendosi e riemergendo, sempre nel rispetto di un equilibrio basato più sulla tensione che non su uno story telling lineare ed a presa rapida. Il suono conserva una velatura acustica che rimanda a Davis, senza tuttavia scimmiottarlo. In verità, si tratta di una memoria metabolizzata e di un’eco tramutata in linguaggio. Le composizioni, tutte originali, non si affermano per complessità strutturale, bensì per la coerenza interna e per la capacità di suggerire un ordine che non necessita di essere esplicitato. Registrato all’Avatar Studio di New York nel febbraio del 2008, il doppio vinile possiede una qualità d’incisione che, come da consuetudine ECM, restituisce ogni sfumatura, qualunque dettaglio e qualsiasi impercettibile variazione.
«Lulù» emerge con una progressione armonica che stende alla sospensione tonale. Il pianoforte di Bollani disegna un ambiente sonoro rarefatto, privo di risoluzioni immediate, creando un’atmosfera di piacevole abbandono e smarrimento che risucchia il fruitore. Il tema, affidato alla tromba, si articola su intervalli ampi, con una predilezione per la quarta e la sesta maggiore, suggerendo una tensione lirica trattenuta. Il contrabbasso di Grenadier cammina con discrezione, delineando un profilo ritmico che fluttua. Motian, con il suo tocco obliquo, introduce accenti delicati, evitando la gravosità. Il sax di Turner interviene come voce parallela, ma non subordinata, mentre la sua linea si sovrappone, si sfila e si dissolve in un gioco di rimandi. L’atmosfera riporta a certe sequenze filmiche, dove il tempo si dilata e ogni gesto si carica di attesa. La tromba sembra spalmare il racconto con una costruzione work in progress mentre il titolo, volutamente enigmatico, evoca una figura femminile che si lascia intuire nelle forme, come colei che si cela dietro un velo. In «Improvisation I», la struttura si regge su un impianto modale, con una base accordale che ruota attorno ad un centro tonale mobile. Questo viene costruito su una scala Lidia, arricchita da deviazioni cromatiche che amplificano la gamma espressiva. Il dialogo tra Bollani e Turner si evolve secondo una ratio di contrappunto libero, dove le voci si dispongono in diagonale, generando un intreccio spiralico. Rava si approccia con frasi brevi e calibrate, che sembrano provenire dalla penombra di un confessionale. Grenadier e Motian si avvitano al tessuto sonoro senza restare ai margini. Anche in questo caso, il costrutto richiama talune pagine letterarie, dove il plot si costruisce nel momento stesso in cui si legge. Il tempo non è misurabile, ed il ritmo non sembra scandito, ma si estrinseca come un impulso a tratti impercettibile, quasi un ultrasuono che conta molto sulle capaciti intuitive del fruitore. La tromba, in questo episodio, assume una funzione di regia timbrica, ottenendo un equilibrio collettivo, sia pur transitorio, secondo un metodo basato sulla tensione superficiale e l’instabilità molecolare del line-up.
«Outsider» allude ad un desiderio di fuga dalle normative vigenti del jazz mainstrem. L’intreccio narrativo si svela sulla scorta di un tema impaginato su una sequenza di accordi minori, con modulazioni che mirano al carotaggio emozionale. Turner apporta una linea melodica che si srotola per gradi congiunti. Bollani dispensa accordi spezzati, distribuiti secondo una gioco di rarefazione evitando l’accumulo virtuosistico, mentre Rava si colloca ai margini, per poi rientrare, sempre con una un’aura fonica che lambisce delicatamente il nucleo gravitazionale dell’asse motivico, addirittura sembrerebbe aggirarlo. Grenadier imposta una linea ascendente, per poi ritirarsi, come se cercasse una via di fuga; dal canto suo, Motian pennella una tessitura percussiva che ricorda situazioni filmiche, dove il suono, trascinando il plot, sembra calarsi un antro d’inquietudine, tanto che l’interplay tra i sodali si regge su risonanze, propedeutiche ad un dialogo sonoro alquanto intimo. «Certi Angoli Segreti» si compone come una sequenza accordale che suggerisce una tonalità fluttuante, modellata su una scala minore con alterazioni modali: struttura che amplifica la percezione di instabilità. Il tema, affidato alla tromba, si dipana con intervalli ampi e pause calibrate, declinando il verbo melodico per sottrazione, evitando accuratamente gli eccessi. Bollani, ancora una volta, interviene con accordi parcellizzati, quasi catapultati verso l’interno, mentre Turner emette una voce parallela, priva di sovrapposizioni, capace di indicare una direzione senza mai dichiararla esplicitamente. Grenadier sbriciola una linea discendente, per poi tornare sui suoi passi, come se cercasse una via di fuga armonica, mentre Motian, con il suo drumming rarefatto, disegna una trama ritmica che ricorda talune sequenze de «La Notte» di Antonioni, dove il suono apre scenari in cui l’ombra del dubbio stenta a dissiparsi. Per contro, l’interplay tra i musicisti si dispone come un dialogo implicito, dove ogni intervento si posiziona in un habitat modulare. La struttura di «Interiors» risulta incentrata su un impianto armonico che volteggia attorno ad un centro tonale liquido, con deviazioni cromatiche che dilatano la gamma espressiva. Il pianoforte di Bollani disegna un ambiente sonoro stratificato, dove le voci si accavallano senza mai confondersi, consentendo alla tromba di Rava di spostarsi con leggerezza, instaurando un aura di tensione e rilascio sempre nel rispetto di un senso di equilibrio. Turner si mostra con una fisionomia sonora nitida, fungendo da indicatore di marcia. Grenadier e Motian intervengono in piena autonomia, ma in grado di alterare il clima, di innescare deviazioni e di far affiorare variazioni interne. «Thank You, Come Again» evoca una postura ironica, una distanza che non è sarcasmo, ma consapevolezza, affiorando con una progressione accordale che si misura per gradi congiunti, in cui le note si susseguono consecutivamente all’interno di una scala (per intervalli di seconda), agevolando un piacevole un senso di fruibilità melodica nonostante occasionali salti che generano strattoni controllati. La tromba di Rava compie innumerevoli circonvoluzioni, quasi delle orbite concentriche, in cui gli accordi di Bollani si rapprendono lentamente; dal canto suo Turner scivola su una piattaforma melodica obliqua che amplifica il senso di sospensione. Grenadier si arrampica verso l’alto, per poi ricadere attraverso un atterraggio morbido. Motian, imposta un’intelaiatura ritmica che ricorda certe scene di «Manhattan» di Woody Allen, dove il bianco e nero sembra cogliere più sfumature cromatiche del colore stesso, per quanto attenuato e sobrio nel suo apparire.
«Count Dracula» si schiude con un impianto armonico che si divide tra tonalità minori e deviazioni modali, avallando una dimensionalità che richiama atmosfere gotiche, ma senza cadere nella caricatura. La tromba del leader snocciola una linea melodica che si rapprende come voce narrante, capace di evocare una figura non tanto letteraria quanto interiore, una presenza che si insinua nel tessuto musicale senza mai imporsi. Bollani, con il suo tocco sempre avveduto, stabilisce un ordine interno che si rifà a certe geometrie timbriche proprie della musica da camera. Turner interviene con un fraseggio che procede in diagonale, con accenti che rimandano ad una postura urbana, lucida e mai enfatica. Grenadier e Motian compongono un groove rinvigorente, in cui il contrabbasso applica la metodologia del detrimento, mentre la batteria scompone gli spazi evitando l’ingorgo ritmico. La mente corre a certe sequenze di «Nosferatu» di Herzog, dove il tempo si dilata ed ogni gesto si carica di attesa. Con «Luna Urbana», affiora una dimensione notturna e metropolitana, dove la luna poco luminescente sembra dileguarsi in una coltre di nebbia. L’impianto armonico si appoggia su una progressione che alterna accordi sospesi e risoluzioni ritardate, filando una tessitura che si dibatte tra jazz modale ed impressionismo timbrico. La tromba emana un colore sonoro che rimanda a certe pagine di Chet Baker, ma con una postura più trattenuta e riflessiva. Bollani interviene con accordi frantumati e centripeti, mentre Turner dirama un bollettino melodico che si distribuisce per vie traverse. Grenadier sembra assecondare il volere Motian, che con il suo battere asimmetrico, intaglia un substrato ritmico che riporta a talune ambientazioni di «Taxi Driver»,dove il vuoto esistenziale si accompagna all’incertezza. «Improvisation II» si regge su un impianto modale. Il dialogo tra Bollani e Turner si sviluppa secondo una logica di contrappunto libero, dove le voci non si rincorrono, ma si dispongono in diagonale, creando una complessità labirintica. Rava interviene con frasi brevi e mercuriali, che sembrano affiorare dal profondo. Grenadier e Motian rafforzano i contrafforti del sistema operativo. L’intreccio motivico fa appello ad alcune pagine di Beckett, dove ogni nota sembra un presagio. «Lady Orlando» modella una sagoma che si muove tra letteratura e metamorfosi, richiamando l’androgino di Woolf, pur senza citazione esplicita. Il costrutto si apre con una sequenza di accordi che si muove tra maggiore e minore, formulando una struttura formale vagamente ambigua. La tromba di Rava diventa un dispenser di melodia in grado di oltrepassare l’hic et nunc con un’aura fonica che attinge ad corredo mnemonico non dichiarato. Bollani controlla gli accordi, com eun contabile, distribuendoli con parsimonia e senza eccessi dimostrativi, contenendo, oltremodo, l’eccessiva dislocazione asimmetrica di Turner o la tendenza di Grenadier ad involarsi per poi dileguarsi, offrendo, soprattutto una prateria a Motian che, con il suo kit percussivo, tratteggia un groove in cui la dilatazione fagocita l’assertività. «Blancasnow» si scompatta sulla scorta di una progressione armonica che rimanda ad una dimensione fiabesca, ma priva d’ingenuità. La tromba riporta in auge l’aura magica di Kenny Wheeler, pur con un atteggiamento più trattenuto e distaccato. Bollani si posiziona al centro della scena come un demiurgo, incaricandosi di controllare il resto della ciurma, la quale dal combinato disposto genera un clima che riaccende il ricordo su talune ambientazioni cinematografiche, dove domina il senso di smarrimento e d’incertezza ed in cui è la tensione a soggiogare il fruitore, non la trama. Lungi dall’essere un disco che sorprende per innovazione, «New York Days» di Enrico Rava rivela una forma di classicismo contemporaneo, dove la misura diviene criterio e la sobrietà si fa stile.
