Francesco Cataldo Verrina racconta di «Chick Corea, l’anticonformista» del jazz, con il suo nuovo libro

Abbiamo intervistato il critico musicale, Francesco Cataldo Verrina, in occasione dell’uscita del suo nuovo libro «Chick Corea, l’Anticonformista».
// di Cinico Bertallot //
D. Francesco, partiamo dal titolo del libro. Perché definire Chick Corea «L’Anticonformista»?
R. Perché Corea ha sempre evitato le strade battute. Anche quando sembrava allinearsi a certi canoni, come nella fase post-bop, in realtà stava già guardando altrove. Il suo talento lo spingeva continuamente a reinventarsi, a destrutturare il linguaggio jazzistico per ricomporlo in nuove forme. È stato anticonformista non per atteggiamento ideologico, ma per necessità espressiva. Chi conosce la parabola artistica del pianista italo-americano, sa bene che ogni spiegazione potrebbe risultare superflua. Un talento naturale spiccatissimo (a quattro anni suonava già il pianoforte), Anthony Armando (nome di battesimo), fu avviato alla musica dal padre Armando senior, trombettista e direttore di piccoli ensemble. Chick, a parte nelle fasi iniziali della sua carriera, quando sembrava potesse aderire ai dettami del post-bop, è sempre stato un «deformatore» del vernacolo jazzistico, giungendo presto ad una sua «conformazione» del modulo espressivo declinato, oltremodo, attraverso una serie di dinamiche e stilemi differenti, ma sempre inequivocabilmente caratterizzati da un metodo pianistico distintivo ed in costante crescita. La regola d’ingaggio di Corea è sempre apparsa, più che anticonvenzionale, anticonformista, specie in relazione a quanto accadeva intorno o in riferimento a quelli che erano i dettami jazzistici ed i codici stilistici del momento.
D. Il libro sembra mettere in discussione alcune percezioni consolidate su Corea, come quella che lo incasella principalmente nella fase elettrico-sperimentale. È così?
R. Esatto. La fase elettrica è quella che lo ha consacrato al grande pubblico, con Return to Forever, ad esempio. Ma è riduttivo fermarsi lì. Già nei suoi primi dischi acustici si percepisce una visione musicale profonda, personale, spesso controcorrente. Ho voluto riportare l’attenzione su quel pianismo iniziale, che conteneva in nuce tutti gli elementi del suo stile: la velocità, la sintesi, il senso architettonico della forma. Per intenderci, Chick Corea è stato un musicista con un mazzo di chiavi in mano capace di aprire tutte le porte del jazz su un vasto territorio espressivo. Pur non essendo mai stato un pianista-compositore convenzionale, Corea ha ricevuto molti consensi durante la fase elettrico-sperimentale, mentre la parentesi post-bop acustica viene considerata come un momento transitorio. Eppure il suo pianismo, specie nei primi dischi, denota caratteristiche non comuni, da cui possono essere enucleati i tratti salienti e fondamentali di quelle che saranno le sue regole d’ingaggio.
D. Nel libro parli di “regole d’ingaggio” del suo pianismo. Cosa intendi?
R. Corea non ha mai suonato “a caso”. Anche nei momenti più liberi, la sua era una libertà strutturata, consapevole. Le sue “regole d’ingaggio” erano un insieme di principi interni, spesso non detti, che guidavano il suo approccio: la profonda conoscenza dei linguaggi, la capacità di riplasmarli, l’integrazione tra composizione e improvvisazione. Non si trattava solo di suonare, ma di pensare come un architetto del suono.
D. Una delle tesi centrali del libro è che Chick Corea fosse un “padrone dei codici”. Ci spieghi meglio?
R. Sì. Corea ha studiato, assimilato e poi ricreato e rigenerato i codici del jazz, della tradizione ispanico-latino, della musica eurodotta e dell’elettronica. Non li ha mai semplicemente adottati: li ha fatti suoi. Pochi musicisti possono vantare una tale padronanza e al tempo stesso tanta capacità di metamorfosi. È stato un vero alchimista musicale, capace di trasformare tutto in un linguaggio personale, riconoscibile all’istante. L’elemento propulsore della sua musica si sviluppa attraverso l’appropriazione di quei codici stilistici – quasi sempre ricalibrati o modificati a sua immagine – la loro conoscenza profonda e la consapevolezza del loro uso. Corea seppe farsi carico di questa modalità, assorbendo, vivendo e sperimentando diversi moduli espressivi sulla scorta di una molteplicità di incontri e attraverso la restaurazione dell’antica unione fra la prassi esecutiva e il pensiero compositivo.
D. Qual è, secondo te, l’eredità più grande lasciata da Chick Corea alla musica?
R. Padrone e templare di ciascuno dei linguaggi appresi e praticati, Corea li utilizzò sistematicamente con la massima libertà e all’occorrenza. Così come viene sottolineato nel suo libro «A work in progress…On being a musician», in cui si legge che il pianista «pensasse come un’orchestra classica» quando si trattava di fare il comping, l’accompagnamento propriamente jazzistico a sostegno degli assoli o dei temi melodici eseguiti da altri. Una libertà vissuta come responsabilità artistica. Corea ci ha insegnato che non bisogna mai smettere di cercare, di mettere in discussione, di riformulare. Ha dimostrato che essere musicisti non è ripetere formule, ma cercare continuamente un significato attraverso il suono. In questo senso, è stato davvero un anticonformista esemplare.
D. C’è un momento, un disco, un brano in cui secondo te si coglie al meglio il «metodo Corea»?
R. Ce ne sarebbero tanti, ma se devo scegliere, direi Now He Sings, Now He Sobs. È un disco del 1968, acustico, registrato con Roy Haynes e Miroslav Vitous. È lì che Corea afferma la sua voce. È una lezione di libertà dentro la forma. Un equilibrio perfetto tra esplorazione e rigore. Nella musica di Corea sono presenti quattro elementi: rapidità, sintesi, magnificenza e bellezza. La rapidità e la sintesi provengono dal jazz, la magnificenza e la bellezza dalla musica eurodotta. Nella produzione del pianista italo-americano c’è quella che potremmo definire estetica della composizione, sia in senso formale che sostanziale.
D. Per concludere, cosa vorresti che il lettore portasse con sé dopo aver letto il tuo libro?
R. Vorrei che vedesse Corea non solo come un pianista sopraffino, ma come un pensatore musicale tout-court. Un uomo che ha fatto della musica un percorso di conoscenza e trasformazione. E che magari, nel piccolo, questo spirito possa ispirare chi legge a rimettere in discussione qualche certezza, anche fuori dal jazz. Aggiungo che il libro è dedicato alla memoria dei Vincenzo Staiano, grande cultore dei jazzisti italo-americani, ma soprattutto, per lungo tempo, organizzatore e curatore del Festiva Jazz di Roccella Jonica- Suoni Mediterranei.

