La suite di «West Side Story» è una storia che si ripete, ma quella di Buddy Rich forse ha una marcia in più (Pacific Jazz, 1966)

In questa rilettura di taluni tratti di «West Side Story» di Bernstein colpisce la conoscenza mnemonica dell’arrangiamento, che il batterista plasma con eccezionale correlazione al suo pensiero musicale e alla «disarticolazione» di esso nell’orgasmo di un solismo fallico di rara perfezione.
// di Gianni Morelenbaum Gualberto //
La suite da «West Side Story» era un classico «showcase», diverso ad ogni esecuzione, per la maestria tecnica di Buddy Rich. Difficile rimanere indifferenti di fronte ad una tale esibizione di forza e coordinazione, che molti hanno criticato per la sua presunta spettacolarità in qualche modo «circense». È una vexata quaestio, quella del virtuosismo, nella musica accademica come in quel contesto, che del virtuosismo fa uso per istinto e necessità e tradizione, che è il jazz.
Che si tratti di Godowsky, di Thalberg, di Oscar Peterson, di Gottschalk o, per l’appunto, di Buddy Rich, la questione è più complessa: per sua natura, e vista la somma di capacità e sacrifici che esso richiede, il virtuosismo esclude una maggioranza assoluta di musicisti e costituisce uno dei tratti contraddistintivi di una residua minoranza che, per certi versi, soffre di una «disabilità» all’incontrario. Essa, infatti, si costruisce e agisce attraverso la preclusione inevitabile e costante della «normalità», ché la sua routine è l’eccezionalità. La presa di coscienza della propria diversità rende forzosamente il virtuoso un «fenomeno», un freak che esibisce la sua «enormità», un giocoliere, un acrobata, un prestigiatore che non pratica però l’illusionismo: è arte molto pratica, invece, in cui la massima abilità è riempire il gesto complesso di pensiero, di significato, di arte. Ed è esattamente quello che faceva Rich, non solo nei suoi assoli ma in ogni sua esecuzione musicale. In questa rilettura di taluni tratti di «West Side Story» di Bernstein colpisce la conoscenza mnemonica dell’arrangiamento, che il batterista plasma con eccezionale correlazione al suo pensiero musicale e alla «disarticolazione» di esso nell’orgasmo di un solismo fallico di rara perfezione. Ché si sbaglierebbe di grosso se si scambiasse quest’esecuzione di feroce dinamismo per pura, belluina esibizione virile: se già l’accompagnamento è impressionante per precisione ed efficacia, la costruzione paziente, controllata, certosina, ritualistica e mistica dell’assolo è impressionante non solo per il dominio «atletico» del corpo nella sua interezza, un corpo fatto musica, ma per la ricchezza stordente del pensiero, della musicalità, per il controllo di nervi, muscoli, colori, timbri e dinamiche, per la tagliente agilità matematica delle scomposizioni, per la precisa, inappuntabile e secca gestione dell’economia gestuale, per il senso architettonico di una narrativa dominata in ogni ramificazione della sua trama e delineata con una maniacale cura del dettaglio.
Una spontaneità esorbitante che pure è accuratamente architettata: il virtuosismo nel virtuosistico ambito improvvisativo richiede la capacità di creare teatro nel teatro ed è secondo questa esigenza che Rich ha plasmato la sua arte con una disciplina fisica e mentale di esuberante e impressionante rigore e, al contempo, disposta generosamente al rituale spettacolare dell’entertainment. Traspare dall’intera esecuzione e dalla pièce de résistance conclusiva un’affascinante, istintiva eppure razionale, suprema musicalità che uniforma una drammaturgia in grado di illustrarsi al pubblico come un esempio, da manuale, di teatro epico. Max Roach, maestro ed intellettuale indiscusso della percussione, sosteneva che Buddy Rich fosse l’unico musicista bianco che egli avesse mai ammirato nel jazz. Non è difficile capire perché ed è forse impossibile non concordare.
