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Un’opera discografica adatta a un giorno in cui antimilitarismo e diritto al lavoro, alla libertà, alla diversità e all’inclusione si fondono. Il 1° maggio non è solo la festa del lavoro, ma significa anche liberare gli immigrati, soprattutto africani, dalle catene dello sfruttamento, dai salari e della manodopera a basso costo, nonché mettere un argine dalla disoccupazione giovanile. Il lavoro come antidoto contro le guerre, i nazionalismi e gli assolutismi.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Ad un certo punto l’intreccio tra musica e politica divenne quasi inevitabile, innumerevoli furono le contaminazioni musicali che guardavano all’Africa, all’universo latino-americano e verso mondi e culture altre, tanto da modificare la scrittura ed alterare il costrutto sonoro del jazz. La schiera degli artisti Afro-Americani coinvolti s’infittiva giorno per giorno, ma l’operazione del «bianco» Charlie Haden merita un posto speciale nella storia, nonostante il suo contributo alla «protesta» avvenne in maniera indiretta. In sostanza, fu un atto di solidarietà nei confronti dei «fratelli» neri che, emarginati e discriminati in patria, venivano loro malgrado gettati in pasto ad una guerra come quella del Vietnam, in cui non credeva più nessuno, se non le forze più retrive e reazionarie del paese.

Charlie Haden nacque in una cittadina dell’Iowa nel 1937. La sua era una famiglia di musicisti e cantanti che si esibiva negli show radiofonici locali. Intorno ai dieci anni il piccolo Charlie iniziò ad appassionarsi al Jazz, non potendo più esercitare il canto per via di una malattia che gli aveva compromesso le corde vocali. Dopo essersi buttato a capofitto nello studio del contrabbasso, poco prima dei vent’anni, a Los Angeles dove si era trasferito, il promettente Haden ebbe il primo incontro determinante della sua carriera con l’uomo che avrebbe deviato il corso del jazz moderno. Così, grazie ad Ornette Coleman che lo coinvolse nella registrazione dei suoi album più importanti, «The Shape Of Jazz To Came» nel 1959, «This Is Our Music» nel 1960 e «Free Jazz: A Collective Improvvisation» nel 1961, il giovane contrabbassista entrò dalla porta principale nel mondo del jazz che conta.

Il successivo incontro con la pianista Carla Bley, avvenuto nel 1967, diverrà propedeutico allo sviluppo del progetto «Liberation Music Orchestra» del 1969, che rimarrà lungo tutta l’articolata carriera di Haden una sorta di opus magnum, un’opera analizzata e studiata per gli arrangiamenti, le sue evidenti caratteristiche di unicità compositiva ed esecutiva, nonché da molti considerata come una delle pietre miliari della storia del jazz d’avanguardia. Mai come per questo disco il termine «rivoluzionario» appare perfettamente calzante. Frutto di una genialità debordante, il cui atto rivoluzionario non nasce nella destrutturazione della sintassi sonora, (qui di jazz ce n’è molto poco, se non negli intenti, sullo sfondo e come cornice per l’impianto tematico), ma nel portare l’effetto dirompente del free jazz o dei musicisti di frontiera nell’ambito di una pacifica rivoluzione sociale e culturale. A parte il «Viva-Zapata-Sound» che domina a tutto campo, Haden e la sua brigata cavalcano agilmente linee di jazz anarcoide, tra folk, world music, inni di pace e canzoni di rivolta popolare, scatenando una tempesta di suoni attraverso un album di protesta che usa lo scenario della sanguinosa guerra civile spagnola degli anni ’30 come elemento storico portante, ma che punta l’indice contro la guerra del Vietnam. Charlie Haden, nelle note interne originali dell’album, scrive: «Dopo che l’accordo sul Vietnam venne messo in minoranza e sconfitto al voto, le delegazioni della California e di New York cominciarono spontaneamente a cantare in coro «We Shall Overcome» (l’ultima traccia usata sull’album) in segno di protesta. Incapace di riprendere il controllo della situazione, la direzione ordinò all’orchestra in sala di zittire i manifestanti cantando «You’re A Grand Old Flag» e «Happy Days Are Here Again», cercando così di soffocare «We Shall Overcome». Per me questa fu, in musica, la storia di quanto successe politicamente nel nostro Paese».

Haden guida la carica e contribuisce al progetto con il materiale inedito. In realtà almeno metà del merito potrebbe essere attribuito a Carla Bley, che oltre ad aver arrangiato tutto l’album e composto alcune tracce, si distingue per un eccellente lavoro pianistico che, in alcuni frangenti, garantisce sostanza al costrutto sonoro, peraltro un po’ discontinuo e sfilacciato. Nel complesso ci troviamo di fronte ad una delle opere più commoventi e coinvolgenti di quel tumultuoso scorcio di fine anni ’60, che utilizza l’estetica formale del free jazz in fatto di mood, pathos e poesia, pur rimanendo lontana dall’avanguardia in termini di peculiare linguaggio sonoro. Il contenuto è fluido, anarcoide, in costante movimento, ma preme sui concetti di libertà e di contestazione mirando ad un impatto politico, piuttosto che musicale, dove la rivoluzione assume i connotati della sinistra antagonista, figlia delle esperienze sessantottine, che inneggiava all’abbattimento delle barriere razziali e sociali, rifiutando l’idea di autorità imposta.

Haden ebbe una forte spinta all’ispirazione dopo aver ascoltato molte vecchie canzoni risalenti alla guerra civile spagnola. Tre di queste costituirono una specie di trilogia: «El Quinto Regimiento», «Los Cuatro Generales» e «Viva la Quince Brigada». Il bassista leader e Carla Bley stabiliscono un intimo rapporto con il folklore ispanico, andaluso e non solo, parteggiando per le enclave di rivoluzionari posizionate fra Barcellona, Paesi Baschi e Andalusia. La folta troupe di musicisti coinvolta è particolarmente efficace e talentuosa, ma è il chitarrista Sam Brown, il vero protagonista della lunga maratona iberica in tre atti srotolata sul tempo di ventuno minuti. Oltre a «War Orphans» di Ornette Coleman che Haden aveva suonato insieme al sassofonista nel 1967, risultano rilevanti: il canto pacifista dell’America Nera «We Shall Overcome», l’inno antimilitarista di Brecht «Song Of The United Front», musicato da Hanns Eisler, ma qui riproposto senza il testo originario, sostituito da un coinvolgente assolo pianistico di Carla Bley e «Song For Che» dedicata a Che Guevara ed ispirata alla convention democratica del 1968. Naturalmente, non mancano brani originali firmati dalle due menti del progetto: tre pezzi forgiati da Carla Bley e due composizioni per mano di Haden. Pur utilizzando arrangiamenti, linee e strutture armoniche apparentemente legate al folklore o a talune escursioni sonore tradizionali, l’album è un continuo passeggiare sui carboni ardenti di una creatività polisensoriale, la quale si solleva da una babele multi-etnica, soprattutto attraverso il contributo distintivo dei singoli strumentisti: Perry Robinson clarinetto, Gato Barbieri sax tenore e clarinetto, Dewey Redman sax tenore e contralto, Don Cherry cornetta, indian wood e bamboo blutes, Mike Mantler tromba, Roswell Rudd trombone, Bob Northern corno francese, wood block, crow call, bells e military whistle, Howard Johnson tuba, Paul Motian percussioni, Andrew Cyrille percussioni, Sam Brown chitarra e thumb piano, Carla Bley pianoforte e tamburello e Charlie Haden contrabbasso e violino.

I temi trattati hanno, perlopiù, una struttura a suite e fluiscono l’uno nell’altro, con diverse formazioni nello stesso pezzo, passando senza soluzione di continuità dal jazz stridente che soffia su una chitarra spagnola ad un assolo di basso che incrocia la fanfara di una banda musicale. Si potrebbe parlare di proto-world music, soprattutto le creazioni della Bley si muovono senza sforzo tra mondi apparentemente lontani, che vanno dalla canzone popolare spagnola al jazz progressivo con accenni alla musica del cabaret berlinese di Kurt Weill ed ai concetti politonali e poliritmici di Charles Ives. Sin dalle prime tracce di apertura appare evidente il senso di ruvidezza che l’ensemble comunica. Anche se vibrato ed intonazione hanno una grande libertà, ogni movimento è sotto controllo, dal diminuendo perfettamente eseguito su «Song Of The United Front» fino al crescendo che porta all’esplosivo assolo di Don Cherry su «El Quinto Regimiento». Su quest’ultimo, la LMO produce l’idea di una banda amatoriale spagnola che migliora in progressione, mentre l’ingresso di Cherry sembra essere una conseguenza naturale. Mentre il cornettista inizia ad improvvisare, la sezione ritmica, con Bley, Haden e Motian, si unisce alla turbolenza sonora scatenata da un raddoppio di percussioni, cui presto si aggiungeranno gli altri fiati. La seconda parte della suite, «Los Quatros Generales», è quasi un rito apotropaico dove l’ensemble appronta una pozione magica: in prima istanza si liberano gli ottoni e i legni introducendo il tema all’unisono attraverso una ricca varietà di toni e colori, il sound nell’insieme appare più sfilacciato, mentre l’estro individuale inizia a surclassare gli intenti collettivi.

Il medley ispanico si conclude con «Viva La Quince Brigada», una vetrina per il bruciante sax tenore di Barbieri, che muove i primi passi come se stesse eseguendo una ballata dall’impianto surreale contemplativo. Neppure il tempo di prendere fiato che il suo sax inizia a squittire a squarciagola. In sostanza, il sassofonista argentino innesta il linguaggio furibondo, anarcoide e anti-melodico del free-jazz all’interno di strutture tradizionali, impostate su un tempo da marcia in 2/4, al fine di sviluppare un turbolento magma sonoro. Il collettivo s’inserisce nella melodia, mentre Barbieri prosegue nel suo urlo feroce, fino a quando la band non rientra con un passaggio impostato su un tempo diverso. La Bley introduce e conclude la suite con i suoi componimenti originali: «The Introduction» e «The Ending To The First Side», variazioni sullo stesso materiale, quasi intercambiabili.

«Song For Che» si apre con Haden in solitaria che esegue la sua melodia in maniera lamentosa, mentre la sezione ritmica e i fiati fanno capolino sul secondo ritornello, ma quando Haden inizia a improvvisare, ad accompagnarlo ci sono solo campanacci e percussioni con il basso che evoca una chitarra ispanica ed il cantante cubano Carlos Puebla esegue il suo tributo all’epico Che Guevara: «Hasta Siempre». Sebbene il collegamento storico sia valido, l’inserimento risulta particolarmente stridente poiché espresso in una tonalità diversa da quella usata da Haden. Seguono assoli di flauti, mentre Redman subentra per un appassionato assolo di sax, cercando di rimanere all’interno della gamma tonale del tenore piuttosto che andare verso la stratosfera come Barbieri.

In «War Orphans» l’atmosfera risulta sofferente e crepuscolare, gli ottoni ed i legni sembrano quasi a riposo. Per contro, la Bley costruisce l’improvvisazione alla stessa velocità dei fiati, i quali sul finale fagocitano abilmente tutto l’ensemble. Siamo di fronte ad una sorta di raccordo fra l’estetica free form forgiata da Ornette e la maliarda poliandria degli arrangiamenti di Carla Bley, vero motore mobile dell’avant jazz orchestrale multitematico. «The Interlude (Drinking Music)», firmata dalla Bley, offre una breve tregua prima della dichiarazione politica finale dell’album: «Circus ’68 ’69». Quest’ultimo brano, composto e arrangiato da Haden, tenta di ricreare il clima della Convention Democratica di Chicago del 1968, dove i delegati di New York e della California cantarono «We Shall Overcome», dopo che la loro risoluzione sul Vietnam venne respinta. Haden divide la LMO in due sezioni antifonali, ma il rigore della partitura si perde in una ridda di improvvisazioni libere simultanee, quindi il collettivo approda a «We Shall Overcome» esaurendo la lista dei canti rivoluzionari: il grido corale degli strumenti a fiato introduce nel trionfale inno una forte dose di dissonanza.

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